mercoledì 10 settembre 2003

sull'Unità il commento di Adriana Faranda a Buongiorno, notte

l'Unità 10.9.03
Il caso Moro e il film Buongiorno, notte
Faranda, ex br: «Mi chiedo perché non ci hanno mai preso...»
di Federica Fantozzi

C’è una scena di Buongiorno, notte in cui le due vite di Maya Sansa-Anna Laura Braghetti, bibliotecaria di giorno e brigatísta di notte, si sfiorano, collidono e implodono all'interno dell'esile corpo di colei che le conduce. Accade quando un collega ignaro le descrive come in una sceneggiatura ha immaginato i carcerieri del presidente della Dc: «Fra loro c'è una donna, giovane, come te. È divisa, lacerata, non sa cosa volere. Denunciare i suoi compagni le parrebbe un tradimento troppo grosso, ma neppure riesce a condividere fino in fondo quanto sta accadendo».
Adriana Faranda, sdraiata sul divano, fuma una sigaretta dopo l'altra. Fissa lo schermo dove solo gli occhi vitrei di Sansa-Braghetti, uno scatto delle gambe, una frazione di sguardo in fuga, ne testimoniano il corto circuito interiore. Quella frase la colpisce: «Anch'io mi sentivo così. Divisa fra la rigidità dello Stato e la disciplina dell'organizzazione». Un «senso di claustrofobia», prosegue Faranda, che il film rende appíeno. È un film notturno, di interni del «covo», di atmosfere cupe e dialoghi mozzi: prigioniero Aldo Moro; prigionieri della loro scelta anche i quattro carcerierì (la Braghetti - al cui libro si è ispirato Bellocchio - Maccari, Gallinari e Moretti) e quanti altri erano a parte del sequestro.
All'epoca Adriana Faranda era, insieme al suo uomo Valerio Morucci, alla guida della colonna romana delle Br. Nota alle cronache come «la donna con la Skorpion» nell'operazione ebbe un ruolo di supporto logistico. 0ggi è libera dopo aver scontato 15 anni, più due di libertà condizionale. Dall'esperienza della lotta armata si è dissociata, non pentita: ha riflettuto, cioè, senza far nomi. Sia lei che Morucci si opposero all'esecuzione dell'ostaggio, ruppero con le Br e furono condannati a morte. E adesso? Si definisce una «convertita al dialogo», ma soprattutto una «spretata»: «Non ho cercato un'altra chiesa. Quelle che vedo in giro non mi sembrano poi tanto meglio» taglia corto. Dal televisore - al secondo piano della casa in cui vive con il compagno francese e i due enormi, pelosissimi cani Ginevra e Pico - arriva la voce bassa di Roberto Herlitzka nella parte di Moro. Lo statista Dc sa di avere di fronte dei fanatici, il ruolo che il regista gli attribuisce è quello di un padre confessore: «Sono cristiano, ma con le crociate abbiamo finito da secoli, l'ultima stregavenne bruciata in Svizzera». Faranda annuisce e chiude il cerchio: «Per noi la lotta armata era una religione, le Br una chiesa».
Ha acconsentito, dopo molte esitazioni, a guardare una videocassetta del film. A notte fonda, con la terrazza spalancata sul lago silenzioso e illuminato dalla luna. Niente cinema: «Non mi piace l'idea deì brigatisti che vanno a rivedersi sullo schermo, c'è una questione di opportunità». Si è astenuta dal Caso Moro di Ferrara e da Piazza delle Cinque Lune di Martinelli. Qui è un po' diverso. Tre anni fa Bellocchio avrebbe voluto i diritti cinematografici della sua autobiografia. Lei non ha ceduto e non lo rimpiange, anche se il film le piace: «È toccante, Anna Laura ne esce bene. Ma lei era così: una persona sensibile». Questo fa il film: umanizza i terroristi, restituisce ì volti di assassini tormentati dai dubbi e privi di argomentazioni, piccoli anche nelle domande, schiacciati dalla fede pacata di Moro.
A toccare Faranda è poi un'altra scena: Sansa-Braghetti aspetta nell'appartamento il ritorno del commando; suonano, ma è una vicina che le mette in braccio il figlio neonato; poco dopo, arriveranno i tre con l'ostaggio. Dice «Questa contemporaneità è un momento intenso. Una metafora forse facile ma certo attinente alla sensibilità femminile». L'uomo inerme come un infante? «La goffaggine di Anna Laura nel tenere il bambino è pari all'incapacità di rapportarsi a Moro. In entrambi i casi le mancano gli strumenti».
«C'era molta angoscia - ricorda ancora Faranda - Quante Anna Laura fra noi, contrarie ma incapaci di opporsi, sarebbero emerse se solo si fosse trovato il linguaggio giusto. Perché se per una cosa non si trovavano motivazioni razionali, tanto valeva non dirla. Eravamo stretti nella camicia di forza dell'ideologia». Giá, il linguaggio, che doveva essere polifico e non umanitario, perché guai a vedere Moro come un uomo anziché il simbolo dei potere. Eppure, la consapevolezza crescente di essere soli. «Non trovavamo consenso neppure nell'acqua in cui nuotavamo - dice Faranda - nelle assemblee universitarie ci chiedevano di liberarlo». Era Moretti a informarla durante le riunioni periodiche della colonna romana. Moro scriveva lettere su lettere, rendendosi intanto conto che sarebbero state vane: «Ne scrisse una trentina. Agli amici potenti che lo avevano scaricato. A sua moglie Noretta, una lettera bellissima e sconvolgente. Ci sconvolse vedere il suo stile involuto divenire così semplice, essenziale». Lei le portava «al solito posto», una chiesa, dove le raccoglieva un ex militante di Potere Operaio, Lanfranco Pace: «Una, addirittura, la lasciai sotto casa di Andreotti, tanto per toccargli il naso». Pace era in contatto con i socialisti «gli unici disponibili a trattare». Faranda ricorda che nessuno mai li seguì né li intercettò: «Eppure all'università bastava chiedere chi fossero i brigatisti, lo sapevano in molti. Mi chiedo perché non ci hanno mai preso. Ci hanno lasciato fare? Non sono in grado di darmi una risposta, ma è una riflessione che ho fatto». Moretti poteva essere un infiltrato? «Non lo credo, è la tesi di Franceschini ma per me sono sciocchezze. Si è fatto 20 anni di galera. No, Moro lo abbiamo ucciso noi, non i servizi».
Buongiorno, notte si avvia alla fine. Moretti e gli altri sono delusi, dal prigioniero non hanno avuto conferma dell'esistenza del Sim, l'ipotetico Stato Imperialista delle Multinazionali, né di altro: «Era elusivo, sfuggente. Non riuscivano a incastrarlo. Li portava in giro dove voleva».
Herhtzka-Moro scrive al Papa affinché interceda per lui. Chiede ai suoi carcerieri di esprimere un giudizio su quello scritto, se sia convincente o meno. Sansa-Braghetti ascolta e piange. «L'ha commossa?« spera Moro. «No - è la crudele risposta - E una lettera debole e rassegnata. Ma forse va bene così, tanto deve leggerla un vecchio». Di nuovo l'ostacolo della lingua, ma affiora la frustrazione: «Anna Laura avrebbe voluto sentire parole diverse, più forti, più incisive». Parole in grado di salvare quell'uomo condannato da inarrestabili meccanismi a orologeria attivati da loro stessi.
Eppure, il messaggio di Paolo VI non fu privo di conseguenze: «Raggiunse molti di noi come uno shock. Io fui colpita da due cose. Anzitutto si rivolgeva agli “uomini delle Brigate Rosse", partiva da quegli stessi valori di umanità da cui ci eravamo mossi noi, prima di diventare una versione in sedicesimo dello Stato-nemico. E poi la richiesta di liberarlo senza contropartita». Lì scatta il dissenso: «Proprio quello sarebbe stato un atto di forza. Noi lo avevamo preso, noi potevamo ucciderlo, noi decidevamo di lasciarlo andare Moro vivo avrebbe messo in crisi lo Stato e, forse, anche le Br», Nonostante il no della coppia, le colonne brigatiste confermano la sentenza della «giustizia proletaria»: «Fu una decisione presa a maggioranza, Morettì non fu giudice ultimo». Faranda era già quasi fuori dalle logiche che l'avevano armata.
Venticinque anni dopo le è difficile deporre un ultimo interrogativo che somiglia a uno scudo: «Se solo lo Stato avesse trattato Lo hanno fatto per tutti tranne che per lui. Bastava liberare qualche detenuto, anche al di fuori della lista che avevamo redatto. 0 anche, senza rilasciare nessuno, chiudere le carceri speciali. 0 dare un segnale qualunque di voler intavolare una trattativa, che avrebbe spaccato il fronte dell'intransigenza brigatìsta... ». La linea della fermezza, che l'opera di Bellocchio ritrae senza padri, oggi appare una linea Maginot delle colpe e dei rimorsi collettivi e individuali. Buongiorno, notte è finito. Resta il sapore di una seduta di analisi retrospettiva: «Questo filmè più facile da capire per noi che per gli spettatori estranei, Noi ne possediamo il linguaggio, le chiavi di lettura». E i ricordi.