Il Giornale di Brescia Giovedì 22 gennaio 2004
A 80 anni dalla morte si torna a parlare delle responsabilità del leader bolscevico nei confronti del suo Paese
Lenin, l’amaro autunno dell’ex patriarca
Il romanziere Martin Amis indaga sul perché l’Occidente aprì gli occhi così in ritardo
Giuliano Polidori
Il primo ictus lo colpì il 26 maggio 1922. Nell’anno e mezzo in cui sopravvisse, prima di morire il 21 gennaio 1924, Nikolaj Lenin - pseudonimo di Vladimir Ilic Uljanov - ebbe modo di meditare sui troppi conti che non tornavano nella Rivoluzione russa. Il leader bolscevico capì che i bolscevichi non erano riusciti a «convincere le masse», che «avventurieri, canaglie e millantatori» avevano fatto carriera nel Partito, e cominciò a guardare Stalin con sospetto. Dopo essersi ripreso dall’ictus, e prima che un secondo attacco lo conducesse alla morte, denunciò il «mare di illegalità» nel quale versava il Paese, nascosto dalle vanterie e dalle menzogne dell’apparato dirigente. Nel 1921 tentò di correre ai ripari varando la Nuova politica economica (la famosa Nep), una reintroduzione forzata del mercato per ridare fiato a un Paese sull’orlo del collasso. Ma la macchina repressiva dello Stato non si fermò. Racconta Dmitrij Volkogonov nella sua biografia dell’artefice della Rivoluzione d’Ottobre (proprio in questi giorni di anniversario si parla di rimuovere la sua mummia dal mausoleo sulla Piazza Rossa), che poche settimane dopo l’ictus i medici gli chiesero di moltiplicare 12 per 7. L’esercizio lo impegnò per tre ore. A luglio, però, stilò lunghe liste di intellettuali da deportare. L’episodio è riportato anche nell’ultimo libro del romanziere inglese Martin Amis, Koba il terribile (Einaudi, 285 pp., 17 euro). Il Koba del titolo è Stalin (così veniva chiamato dai suoi compagni in gioventù), qui presentato col suo catalogo di orrori al completo; ma lo scrittore fa i conti anche con Lenin. Incrociando tutti i libri, documenti e testimonianze sui decenni dell’«esperimento sovietico», Amis ne ricava una sorta di breviario del terrore, la cui efficacia è accresciuta dal fatto che la parabola del comunismo sovietico ha segnato anche le vicende personali dell’autore, figlio di quel Kingsley Amis noto scrittore inglese che, tra gli anni ’40 e ’50, fu attivista del Partito comunista inglese, legato a doppio filo con Mosca. «Quanto sapevano, nel 1941, i compagni di Oxford? - si domanda Amis -. In Occidente, le proteste pubbliche sui campi sovietici di lavoro forzato datavano fin dal 1931...». Perché uno dei dittatori più brutali che la storia abbia conosciuto riuscì a far digerire a milioni di uomini in buona fede le assurdità dei processi di Mosca (che apparvero incredibili già a Solgenitsyn adolescente) e la follia che fece scomparire nei gulag il 5% della popolazione sovietica? Il fatto è che, come ha notato Orlando Figes, il programma bolscevico traeva origine dagli ideali dell’Illuminismo, e bastò questo ad attirargli le simpatie di molti occidentali. Dopo il big bang della Rivoluzione francese, l’esperimento egualitario inaugurato con la presa della Bastiglia era destinato prima o poi a compiersi, al contrario del nazismo e del fascismo, che non rispondevano ad alcun criterio ideale e perciò furono avversati da subito, senza i problemi di coscienza che poneva il comunismo. Così, mentre la ferocia nazista si indirizzò con folle precisione contro alcune categorie da eliminare tramite il genocidio, lo stalinismo colpì ovunque, perché la sola cosa che importava era la riuscita dell’esperimento. Il risultato fu il terrore generalizzato e un intero Paese ridotto al silenzio. Questa constatazione ha una conseguenza di natura teorica: lo stalinismo non può essere considerato solo un’orribile parentesi. L’«esperimento» era iniziato già con Lenin, che ne porta tutte le responsabilità, compresa quella di avere aperto la strada al dittatore georgiano. La forza ideologica della rivoluzione egualitaria, nota Amis, non tollerava ostacoli: «Lenin lasciò in eredità ai suoi successori uno stato di polizia ben avviato. L’indipendenza della stampa fu distrutta (...) La Ceka fu organizzata a dicembre. I primi campi di concentramento vennero costruiti all’inizio del 1918... Poi giunse fulmineo il terrore: le esecuzioni per quote; la responsabilità collettiva, un principio secondo cui i parenti e anche i vicini di casa di nemici del popolo, o di sospetti nemici del popolo, venivano imprigionati». E infine la persecuzione di interi gruppi etnici e sociali, come i contadini abbienti e i cosacchi. Le differenze tra il regime di Lenin e quello di Stalin, insomma, furono quantitative ma non qualitative. L’unica innovazione di Stalin fu la persecuzione dei suoi stessi compagni di Partito e dei propri familiari: la nuora di Kruscev fu imprigionata, la moglie di Molotov spedita in un gulag, la moglie di Kalinin picchiata selvaggiamente poi mandata nel gulag. Stessa sorte per i due figli di Mikojan e per la moglie di Poskrebysev, il segretario di Stalin, che in seguito fu fucilata.
Un giorno, nel 1937, Stalin annunciò a Kaganovic, suo lacchè, che suo fratello Michail era diventato di destra. Kaganovic (che era ebreo) replicò: «Allora dovrà pagare secondo la legge». Michail, avvertito dal fratello, si tolse la vita. Analoga sorte subirono le famiglie delle due mogli di Stalin: i fratelli, e tutti coloro che potevano averli conosciuti scomparvero. Nadezda Alliluieva, seconda moglie del dittatore, si sparò alla testa, al Cremlino. Jakov, l’odiato figlio avuto dalla prima moglie Ekaterina, fu catturato dai tedeschi che proposero uno scambio: Stalin rispose di non avere «nessun figlio di nome Jakov». E lui si fece sparare. Eppure - e questa è «la storia più triste», scrive Amis - Stalin fu un leader popolare. E Lenin, aggiungiamo noi, è ancor oggi venerato come un grande uomo.
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