martedì 14 settembre 2004

dal mondo tolemaico:
il maternage cattolico del basaglismo

La gazzetta del mezzogiorno 13 settembre 2004
Dalla cultura di Cesare Lombroso alla chiusura delle strutture manicomiali, se ne è discusso a Metaponto
Il messaggio, la testimonianza
Sofferenza mentale, Basaglia indicò a tutti la via della dignità
Pino Gallo

MATERA Un malato di mente non ha bisogno di un letto di ospedale, bensì dell'affetto e della comprensione di quanti lo circondano e lo sostengono ed egli stesso deve rimanere inserito tra i suoi affetti, tra i suoi amici, nella città dove è nato, fra quanti lo hanno aiutato a crescere e gli hanno trasmesso la prima cultura. Ciò riveste un ruolo assolutamente prioritario perché il malato mentale possa continuare a crescere e nel suo cammino di difficoltà e di sofferenza.
È quanto è emerso dalla tavola rotonda organizzata dalla dott.ssa Rossa Cimino, responsabile della Biblioteca comunale di Metaponto, cui hanno partecipato il dr. Edoardo De Ruggeri, psichiatra, il dr. Paolo Tranchino, psicanalista ed il dr. Rocco Canosa, presidente nazionale di Psichiatria democratica.
Un richiamo forte e chiaro al grande messaggio di Franco Basaglia, che per primo nel 1978, con la legge n.180 che porta il suo nome, restituì alla vita di relazione ed alla libertà un esercito di 110 mila internati, che per molti aspetti vivevano chiusi e segregati come le vittime dei campi di sterminio nazisti. Era impensabile, allora, che i manicomi potessero essere superati ed ancora oggi questo concetto resta l'unico esempio in un'Europa che mostra paura della diversità e della malattia mentale nel suo specifico.
«Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi - scriveva lo stesso Basaglia - magari più chiusi di prima. Io non lo so. In ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo. È la testimonianza è fondamentale».
Si trattava di un approccio semplice e banale e perciò stesso rivoluzionario per la società degli anni '60, ancora fortemente gerarchizzata e piramidale, ma che stava vivendo le sue prime mutazioni con le richieste di aperture politico-istituzionali fortemente avanzate dalle contestazioni studentesche ed operaie del movimento sessantottino.
In questo clima nasceva la costruzione di un'altra idea terapeutica, di un nuovo e più semplice concetto di salute e di malattia, di una diversa trama di rapporti, di accettazioni sociali, di convivenze possibili in strutture concrete di vita quotidiana, più vicine alla casa che all'ospedale.
«Prima della legge Basaglia del 1978 - ha ribadito De Ruggeri, responsabile dei centri diurni del dipartimento di salute mentale dell'Asl di Matera - una cultura lombrosiana, insieme ad una diffusa e consolidata letteratura medica trattava regolarmente i malati mentali con elettrochoc e segregazioni manicomiali, che dovevano allontanare e nascondere alla città il volto di quanti vivevano nel dolore e nella sofferenza. Basaglia, invece, ha fatto riprendere alla città quanto le apparteneva e soprattutto quanto doveva continuare ad appartenerle per poter esercitare la sua insostituibile terapia di recupero e di osmosi affettiva».
«Infatti in manicomio il malato, privato e depredato dei suoi affetti e delle sue cose più care, non poteva essere curato e così regrediva progressivamente in una quotidianità del tutto anomala e perversa - ha precisato Paolo Tranchino, psicanalista e direttore di una rivista specialistica. Questo è banale, ma è così. E noi andiamo avanti sulla strada tracciata da Basaglia e sul concetto che tutte le persone cosiddette normali, non solo i malati mentali, stanno meglio a casa che in manicomio o in una qualsiasi altra comunità». «E poi - ha continuato Tranchino - ciò che conta ancora per questi come per tutti gli esseri umani è che intorno a loro ci sia sempre qualcuno che ascolti. Più semplicemente che ci sia, sia presente, che si ponga come un sicuro punto di riferimento e di sostegno in ogni momento della giornata».
«Attenti, però, a non scadere nel paternalismo - ha avvertito Rocco Canosa, Presidente nazionale di psichiatria democratica - e soprattutto facciamo in modo che la città entri nei centri diurni e che gli ospiti dei centri vivano la città, altrimenti sono guai: il rischio è una nuova istituzionalizzazione, una nuova cronicità, una diversa ghettizzazione, che addirittura giustifica la propria esistenza andando a caccia del diverso».
Un approccio, dunque, non più ed esclusivamente di tipo medico-terapeutico, ma di tipo societario, in cui la comunità non può non continuare ad esercitare il suo insostituibile ed insopprimibile ruolo di sostegno psico-fisico ed affettivo, con tutta la sua smisurata ricchezza di rapporti sociali e culturali. Ciò che emerge, infatti, nel disagio mentale è soltanto una punta dell'iceberg, che non può essere appannaggio esclusivo e solipsistico della psichiatria ufficiale fatta di psico-terapie, psicofarmaci e centri diurni permanenti.