martedì 14 settembre 2004

Pietro Ingrao

Repubblica 14.9.04
Esce la biografia del leader politico scritta da Antonio Galdo
"I miei errori"
Le rappresaglie che si scatenarono nel partito dopo la sua sconfitta nel confronto con Giorgio Amendola
NELLO AJELLO

Pietro Ingrao, l´ultimo esponente di spicco d´un comunismo italiano postumo ma non rinnegato, è insieme rispettabile e disarmante come un augure o uno sciamano. Non c´è un poro della sua faccia, non una sillaba della sua cadenza ciociara che non esprima buona fede. Ancora oggi, che ha quasi novant´anni - li compirà la prossima primavera, essendo nato a Lenola il 30 marzo 1915 - quando lo si sente parlare sembra che intorno a lui aleggi, se non lo spirito del mondo, almeno la coscienza della sinistra, e sia pure di una sinistra "datata". Se ne coglie una riprova nella biografia, sotto forma di intervista, che gli dedica Antonio Galdo, con il titolo Pietro Ingrao, il compagno disarmato (Sperling & Kupfer, pagg. 198, euro 12). Può sembrare strano che un libro in cui si rievocano episodi, personaggi e dibattiti della vita pubblica lasci nel lettore un´impressione, più che pragmatica, poetica. Ma è proprio questo il caso.
Il lettore che intenda valutare un percorso politico con il metro dell´efficacia, si sentirà presto scoraggiato, trovandosi di fronte a un piccolo monumento eretto al diritto di sbagliare. E infatti le parole che ricorrono con insistenza in questo libro sono «errore» e «sconfitta», e si riferiscono sia alla vita del suo protagonista che al comunismo in generale. «Errore», «errore grave», «fondamentale e decisivo»; «è stato l´Errore, con la E maiuscola, della mia vita»; «sbagliai», «purtroppo sbagliavo», «avevo torto», «non avevo capito». E, accanto, si rievocano tutte le possibili accezioni della disfatta politica. La sconfitta può essere «amara», «storica», «inesorabile», «epocale», «definitiva». Non si tratta di ammissioni di poco conto, perché nell´indice ideale di questo volume trovano posto molti eventi significativi della seconda metà del Novecento: dai fatti d´Ungheria - quando Ingrao, direttore dell´Unità, assunse le difese degli invasori sovietici - alla valutazione della ventata terroristica che sconvolse l´Italia negli anni Settanta e primi Ottanta; alla caduta, non prevista, dei Muri. Vi figura perfino un episodio in apparenza minore, ma importante per la sinistra italiana: la radiazione dal Partito, nel 1969, degli eretici del Manifesto, quasi tutti di fede ingraiana. In un comitato centrale, il loro mentore votò a favore del provvedimento repressivo: «Mi mancarono», oggi dichiara, «il coraggio e l´immaginazione» per una condotta diversa.
Collocandosi d´istinto nei punti ideologicamente più temerari, Ingrao ha corso rischi continui e ha raccolto smentite brucianti. Non gli resta che un antidoto, sia pure in confezione «retard»: ed è l´autocritica, una pratica desunta - come si sa - dalla tradizione comunista. «L´autocritica mi rafforza», egli spiega a un certo punto. «Dagli errori si può imparare».
Sulla storia che qui si racconta aleggia qualcosa che rasenta il mistero: ed è il seguito di cui ha goduto il suo protagonista all´interno del Pci, soprattutto presso la base giovanile emarginata e protestataria. Antonio Galdo, militante nei tardi anni Settanta d´un collettivo universitario, ricorda che, «quando si discuteva del Partito comunista, sempre criticamente, un solo nome riusciva a metterci tutti d´accordo. Era quello di Ingrao». E altrove lo stesso biografo dichiara che «volendosi ricostruire, con nomi e cognomi, l´universo» dei seguaci del politico di Lenola, occorrerebbe «lo spazio di un elenco telefonico». L´enigma si rafforza di fronte a un´ennesima ammissione autocritica di Ingrao («Come capo di corrente valgo un fico secco») e assume le tinte del martirologio se si pensa alle rappresaglie che nel Pci si scatenarono contro gli ingraiani dopo la sconfitta subìta dal loro capo all´XI congresso del Pci (1966), quando le sue tesi «di sinistra» furono sopravanzate - per ricordarlo in sintesi - da quelle, opposte, di Giorgio Amendola. È un ex ingraiano perfino quell´Achille Occhetto che, cambiando fra l´´89 e il ´90 il nome e la collocazione del partito di cui è segretario, induce Ingrao ad abbandonare la casa politica che lo ha accolto per più di mezzo secolo.
Il ritratto che emerge da queste pagine, si sarà capito, è tutt´altro che sbiadito e convenzionale. Ne emerge una figura animata da pulsioni autentiche, l´ultima delle quali è quel pacifismo integrale che ancora una volta lo fa sentire in consonanza con gli umori medi della sinistra. Lealtà a tutta prova, dignità intellettuale da vendere, pluralità di interessi (dal cinema alla poesia, nella quale ultima Ingrao si è cimentato in prima persona), un gusto retrospettivo per la verità che sfiora l´olocausto. Soprattutto, una tenace vocazione all´utopia. Non a caso, una sua precedente intervista autobiografica, nata conversando con Nicola Tranfaglia e pubblicata nel 1990 dagli Editori Riuniti, s´intitolava Le cose impossibili. Oggi si ha la conferma che questa richiesta della luna è diventata per Pietro Ingrao una seconda natura. Egli la registra e la impone - si direbbe - con civetteria. È la sua maniera di sfidare il prossimo, misurando forse sulla sua stessa vita la fatale crudeltà della Storia.

Corriere della Sera 14.9.04
In un libro scritto con Antonio Galdo l’ex dirigente del Pci si dissocia dall’ideologia leninista
Ingrao, l’utopia del comunismo gandhiano
ERRORI
Paolo Franchi

Sul perché del fascino esercitato da Pietro Ingrao, in stagioni diverse, su tanta parte della sinistra italiana, si sono interrogati in parecchi, anche molto lontani dalla sua parte. Gli estimatori hanno posto l'accento soprattutto sulla passione politica, sulla tensione intellettuale, sulla fibra morale: tutte qualità incontestabili dell'uomo. Gli avversari, sulla fumosità dell'analisi, della proposta e, conseguentemente, del linguaggio; sull'astrattezza, sulla vocazione alla sconfitta: tutti vizi ben radicati nella sinistra. Ingrao, magari, non ne sarà tanto lieto. Ma forse la spiegazione più azzeccata è quella che diede Indro Montanelli, quando il vecchio Pietro (novanta, densissimi anni nel 2005) si oppose alla «svolta» di Achille Occhetto e diede battaglia in nome di un comunismo che per lui restava al tempo stesso un «grumo di vissuto» di tutta una comunità e un insopprimibile «orizzonte». Scriveva Montanelli: «Ha un volto rincagnito e parla con un plumbeo accento ciociaro. Eppure non si può guardare senza provare per lui un profondo rispetto. Ciò che dice può essere sbagliato, ma il suo è un dramma autentico, senza nulla di recitato, anzi contenuto nei toni più sommessi: il dramma di un uomo che, messo alla scelta tra una carriera e una bandiera, sta con la bandiera, pur ridotta a un brandello».
Compare, questo giudizio, assieme ad altri, più o meno felici, nelle prime pagine di un bel libro di Antonio Galdo, Ingrao, il compagno disarmato , in libreria in questi giorni per i tipi di Sperling & Kupfer (pagine 192, 16). Non un libro intervista, ma piuttosto il rendiconto pubblico e privato (e il privato è ricco almeno quanto il pubblico) di un appassionato viaggio nel Novecento, in forma di dialogo indiretto tra l'autore e il viaggiatore. E si conferma centrato. Purché, naturalmente, ci si intenda su qual è la bandiera che Ingrao continua a difendere; e su cosa vuol dire, per Ingrao, continuare a difenderla. Non è così semplice.
Il comunismo cui Ingrao non intende proprio rinunciare è, né più né meno, lo «stare dalle parte degli sfruttati». Non c'è «dura replica della storia», non c'è fallimento, non c'è gulag che lo smuova da questo schierarsi. Un tetragono, inciprignito conservatore, allora? A giudicare dalla sua vita e, ancor più nettamente, da molte delle riflessioni che fa in questo libro, la risposta è un perentorio no. Il bisturi della riflessione autocritica affonda fin nell'atto di nascita dell'Urss e di quello che un tempo si chiamava «il secolo delle rivoluzioni». Chiama in causa cioè (e la cosa non è davvero ovvia) non solo Stalin e lo stalinismo, ma Lenin e il leninismo e, insomma, la Rivoluzione d'ottobre. «Già Lenin affermava la costruzione violenta dello Stato e del potere politico e non si trattava soltanto di una risposta rivoluzionaria al sangue del capitalismo» scrive: «Era un’idea sbagliata, sbagliatissima di sopraffazione e di schiacciamento, che avrebbe colpito, prima o poi, anche una parte del movimento operaio (…). Consideravamo Stalin il traditore degli ideali di Lenin. Non era vero».
C'è stato un momento, secondo Ingrao, in cui il Pci avrebbe dovuto e potuto emanciparsi dall'errore tragico che era nel suo stesso atto di nascita: il 1956, la rivoluzione ungherese, il tormento e il distacco dal partito di tanti militanti, soprattutto, ma non solo, intellettuali. All'epoca, direttore dell' Unità , si schierò, pieno d'angoscia ma anche con dura determinazione politica, dalla parte dei carri armati: Da una parte della barricata . Prima di scrivere, aveva telefonato a Togliatti: «Mi disse che non bisognava avere dubbi e per tagliare la conversazione usò questa frase: "Oggi ho bevuto un bicchiere di vino in più". Non ebbi la forza di reagire». Scrisse, più tardi amaramente se ne pentì. Oggi dice di quel suo editoriale: «E' stato l'Errore, con la E maiuscola, della mia vita. Perché getta una luce su tutti i ritardi, le incomprensioni, gli sbagli (…) sullo specifico dramma ungherese, ma in generale sul leninismo e sullo stalinismo e cioè sulle due figure centrali della storia del comunismo».
Riconoscere tutto questo, e anche pentirsene (anche se, per Ingrao, la parola pentimento «sa di sacrestia»), è, ai suoi occhi, un modo, forse l'unico possibile, per continuare a essere orgogliosamente comunista. Per sottolineare i meriti del passato suo e del suo partito, quel Pci in cui nel lontano 1966 rivendicò (avendosene in cambio una pesante emarginazione sua e dei suoi sostenitori) il diritto al dissenso. Nonché per continuare a ricercare, a quasi novant'anni, da compagno disarmato, i sentieri inesplorati che, a dire dei suoi tanti avversari, anche nel Pci, sono stati la fissazione di tutta una vita. E il più inesplorato di tutti è quello, così nascosto da far sospettare ai più che sia del tutto inesistente, che dovrebbe collegare il suo comunismo a un pacifismo e a una non violenza assoluti, quasi gandhiani, che con il comunismo così come lo abbiamo conosciuto poco davvero hanno da spartire. Tutto sembrerebbe star lì a dire che questa è l'ennesima fuga di Ingrao verso l'ignoto. E' probabile. Ma nessuno può pensare che il vecchio comunista, che nel 1979 lasciò la presidenza della Camera per mettersi «a studiare», smetta di arrovellarsi. E di cercare. Sta qui, oltre che nella fedeltà a una bandiera, il motivo più profondo del suo fascino.