mercoledì 20 ottobre 2004

Mark Rothko

Il Messaggero 19.9.04
Mostre/ A Bilbao retrospettiva del grande pittore emigrato bambino dalla Lettonia negli Stati Uniti
Rothko, l’arte è un muro di luce
Le radici ebraiche, la voglia di esprimere “emozioni fondamentali”
di SILVIA PEGORARO

IL MUSEO Guggenheim di Bilbao ospita una grande retrospettiva del pittore americano Mark Rothko : “Mark Rothko: Walls of Light”. Socchiudete appena un po’ gli occhi: la pittura si staccherà dal quadro e verrà verso di voi, come se si trattasse di un’emissione luminosa. La luce, da mezzo per elaborare una visione, diventa l’essenza stessa della visione. Marcus Rothkowitz (questo il suo vero nome), era nato in una famiglia di farmacisti ebrei, a Dvinsk (sud-ovest della Lettonia), nel 1903, e nel 1913 si era trasferito con la famiglia negli Stati Uniti. Non pensava di avere un futuro da pittore. Poi, una rivelazione, ma il suo avvio all’arte fu farraginoso, costellato di tentativi non riusciti. Nel 1923 si trasferì a New York dall’Oregon, e iniziò a insegnare disegno ai bambini del Brooklyn Jewish Academy Centre.
Nella grande metropoli dell’East Coast si trovò a frequentare artisti come Adolph Gottlieb o Barnett Newman, e critici come Rosenberg e Greenberg, formando con loro, nel ’35, il gruppo “The Ten”. Non si è scritto molto sul perché tanti esponenti dell’espressionismo astratto americano, soprattutto non gestuale, e tanti critici e collezionisti ad esso legati, fossero ebrei. Ma è certo riduttivo pensare che la strada dell’astrazione sia stata imboccata da questi artisti solo per mettersi al riparo dal divieto del 2° comandamento (“Non ti farai immagini...”, Esodo, 20, 4-5). All’inizio degli Anni 40 Rothkowitz, influenzato da Nietzsche e Jung, studia i miti antichi come fonte di simboli eterni, giungendo a una forma di figurazione sintetica e arcaica. Poi subisce il fascino dei surrealisti, soprattutto Mirò e Masson.
Ma nel 1949 Marcus Rothkowitz muore, e nasce Mark Rothko: la nuova firma è sintomo di una nuova via, che scarta tutti gli elementi figurativi. Compaiono i suoi grandi campi rettangolari di colore tonale (colore-luce) dai bordi sfumati e dissolventi, fluttuanti gli uni sugli altri. Forse un richiamo alle miniature dei manoscritti nella tradizione ebraica orientale, dove per distinguere blocchi di testo si usano campi di colori diversi? Rothko affermava che “i quadri sono drammi, le forme attori”, come a dirci che le sue tele sono lì a raccontarci una storia da leggere, e da interpretare. Anche in questo si avverte un forte richiamo alla vivissima tradizione testuale e scritturale, cuore dell’ebraismo. «Mi interessa solo esprimere emozioni umane fondamentali, la tragedia, il destino, l’estasi», diceva ancora Rothko, e crediamo ci sia riuscito. Cosa cercava quello strano personaggio, riservato, timido, chiuso dietro le lenti spesse dei suoi occhiali da miope? Forse, con una formula un po’ semplicistica, potremmo dire che cercava l’assoluto. In questa ricerca, l’artista si spinge fino a tentare di riempire di luce il nero. Lo testimonia la serie dei dipinti Black on Grey , presenti in mostra, dove i neri e gli antracite sono incoronati da un alone bianco, che non riflette ma “beve” la luce. Lo testimoniano, in modo estremo, le 13 grandi tele della cappella dell’Università di Saint-Thomas a Houston. I committenti, i coniugi miliardari De Menil, cattolicissimi, volevano realizzare in America qualcosa di simile alla cappella di Saint Paul de Vence di Matisse. Rothko risponde ai colori vivaci di Matisse con una sorprendente e inquietante serie di neri, profondi, tragici, intensamente sensuali, in cui una strana luce sembra espandersi e contrarsi all’infinito. Nella drammatica ricerca di questa luce assoluta si consuma anche l’ultima energia del pittore, che il 25 febbraio 1970 si uccide nel suo studio di New York.
I dipinti di Rothko sembrano usciti dalle pagine dello Zohar, o Libro dello splendore, il più coesivo e importante fra i testi della Kabbalah, scritto nella Spagna del XIII secolo. Il suo autore, Moses Ben Shem Tov de Leon, lascia da parte la filosofia intesa in senso razionalistico e si esprime attraverso analogie, evocazioni, colori. La Kabbalah cerca proprio il legame tra pensiero e materia. Lo trova nella luce, definita sostanza assoluta e originaria nello Zohar, come in tutta la filosofia ebraica del Medioevo. Vi si descrive Dio mentre piega e dispiega abiti di luce. Vi è formulata anche la teoria dello Zim-zum, letteralmente “contrazione”, “implosione”. Ecco allora l’immagine scaturire da un processo di sottrazione, cancellazione, come nel lavoro di Rothko. Ecco gli abissi di luce-colore dei suoi quadri.
Ma ecco anche la teoria del sublime formulata da Barnett Newman; o i suoi “zips”, le linee verticali che tagliano i quadri secondo una simmetria nascosta, fondata su un rigoroso calcolo numerico; o ancora gli stessi titoli delle opere, come quello della sua ultima scultura: Zim Zum I (1969). Ecco i neri assoluti di Ad Reinhardt, che si richiamano al “fuoco nero” di cui parla la Cabala... Pare allora di aver trovato un’altra di quelle “radici ebraiche del moderno” di cui parla Sergio Quinzio. Lo spietato cinismo del mercato dell’arte sembra, una volta tanto, lontanissimo da questo mondo. Sembrano invece vicine altre immagini, altre parole che animano le correnti mistiche delle altre religioni rivelate, Cristianesimo e Islam. Si espande liberamente il respiro del pensiero e dell’anima. Si perde la distinzione tra Oriente e Occidente, come in un bellissimo passo del Corano, che è certo una delle fonti del misticismo islamico: parla di “una lampada che arde con l’olio di un ulivo che non è né d’Oriente né d’Occidente, (...) ed è luce su luce...” (Qorân, 24, 35).