mercoledì 20 ottobre 2004

Arthur Rimbaud


Rimbaud! L'ora nuova è molto severa
La gente potrebbe annoiarsi
La gente muore di scienza, non è mica come scopare
La monotonia di tabacco, legumi, bruma, merda, Signor Cristo, ecc.
Sì la mia poesia qui è minacciata, Rimbaud

Gregory Corso

Un mattino cent'anni prima che Little Richard battezzasse l'America col rock'nd roll, Arthur con il fratello e le sorelle andavano per le vie di Charleville vestiti di blu e nastri bianchi a ricevere la prima comunione.
Patti Smith


Repubblica 20.10.04
Il ragazzo che fece vacillare il mondo
Il mito del poeta a centocinquant'anni dalla nascita
Molti cantanti hanno scelto le sue poesie come breviario a partire da Bob Dylan
Secondo Cioran tutto è inconcepibile in lui tranne il suo silenzio: ha cominciato dalla fine

DARIA GALATERIA

«Certo che Rimbaud è una leggenda», protestava Verlaine che gli aveva sparato per amore, «ma per me è stato una realtà viva; io lo sogno di notte». Era il 1895, Rimbaud era scomparso da tre anni, e già il suo mito era cristallizzato. In molti lo sognano, anche oggi che «questo dio della pubertà» (André Breton) avrebbe centocinquant'anni («Ahora / en este octubre / cumplirìas / cien anos», diceva l´ode di Neruda). Patti Smith, la rockstar americana, condensa in Sogno di Rimbaud quasi tutti gli elementi del mito: la madre, tenace custode delle tradizioni rurali del secolo borghese; il viso di Arthur, un arcangelo in esilio, gli occhi blu ghiaccio aureolati di pervinca, le lunghe braccia da adolescente non assestato; la bohème parigina, gli «amori di tigre» con Verlaine, che gli tira un colpo di pistola ferendolo alla mano; e poi, dopo i capolavori (Una stagione all´inferno, Illuminazioni) e le corse per il mondo, la fuga più profonda, la metamorfosi in mercante di caffé e di armi a Aden in Arabia e nell´Harar. «Sono una vedova», canta Patti Smith: «potrebbe essere Charleville o dovunque. Sono su, in camera da letto, che mi fascio la ferita. Lui entra. Si appoggia allo stipite, che hai alla mano, chiede, troppo casualmente. Guance vermiglie, aria di disprezzo grandi mani. Lo trovo diabolicamente seducente. Oh Arthur Arthur. Siamo in Abissinia Aden. Facciamo l´amore fumiamo sigarette. Ma è molto di più». Ma sono in molti i cantanti che hanno le poesie di Rimbaud per breviario. Bob Dylan dichiara che, in tourné, se vuole leggere qualcosa che lo emozioni, entra in libreria e legge «le parole di Rimbaud». Jim Morrison scrisse nel 1968 a Fallace Fowlie apposta per ringraziarlo di aver tradotto il poeta: «ne avevo bisogno perché non leggo bene il francese. Sono un cantante rock», specificava, «e il suo libro mi segue in tutti i miei spostamenti».
Così stringente è il mito del genio che spegne la sua propria meteora e non fa più ricorso al futuro, aderendo al vuoto della civiltà mercantile, e espiandola quasi nella morte atroce della corsa in barella per il deserto verso inutili ospedali - che in tanti sono partiti sulle tracce di Rimbaud, per capire, per omeopaticamente guarire. Evelyn Waugh, lo scrittore inglese alla ricerca inesausta di una misura d´ironia e distacco, era andato devotamente in Abissinia, nel 1930, a cercare un prete - grande e emaciato come un santo del Greco - che aveva conosciuto Rimbaud. Se lo ricordava, certo; un giovanotto barbuto che aveva un problema a una gamba; era
molto serio, non usciva quasi mai. Pensava solo agli affari. Il sacerdote aveva cercato nella memoria una parola, e aveva detto: molto serio, e triste. Nelle rare foto in Arabia e a Harar, Rimbaud ha lo sguardo vuoto e inaccessibile. La sua scelta di «amputarsi da vivo della poesia» (Mallarmé) è davvero compiuto «per testimoniare l´alienazione dell´uomo», come pensa Yves Bonnefoy? E´ il gesto che «squalifica i nostri alibi», come asserisce Albert Camus?
«Alla fine
comincia a far commercio di fucili illegali
a Tajoura
cavalcando in carovana, pazzo
una cintura di oro
alla vita»
scrive in versi Jack Kerouac, che imita quel vagabondaggio, anche se
«tutto questo non porta
a niente, come
Dostoevskij, Beethoven
o Da Vinci».
Emile Cioran, moralista della disperazione, ha scritto che «tutto è inconcepibile in Rimbaud, tranne il suo silenzio. Ha cominciato dalla fine». Lui, che ha detto tutto, si è strappato la lingua; questo silenzio ci opprime ancora, lamenta Jean-Marie Le Clézio Léopold Senghor, poeta e capo di stato, legge gli albori della «negritudine» nella Stagione all´inferno, dove Rimbaud si proclama «negro». Invece Philippe Soupault, un poeta surrealista che era nipote delle officine Renault e un po´ se ne vergognava, sostenne che l´enigma di Rimbaud non era l´oblio della poesia o le sue partenze, ma il fatto che si fosse fermato. Soupault aveva ripercorso i viaggi del poeta «dalle suole di vento» da Londra a Cipro, e nell´Harar, in Etiopia. Era il 1951; esplorando il mar Rosso, sentì una qualità di solitudine diversa, e l´oblio. Tutti quelli che incontrava ne erano vittime, anche il miliardario, Monsieur Besse, che, qualche anno dopo la partenza del negoziante, aveva fatto fortuna riprendendo i suoi progetti. Ma non tutti partecipano al grido di René Char (1947):«T´as bien fait de partir, hai fatto bene a partire, Arthur Rimbaud!». Il nostro Roberto Vecchioni canta:
«Portoghesi, inglesi e tanti altri
uccelli di rapina
scelse per compagnia;
Quella voglia di annientarsi
di non darsi
e basta, basta poesia».

Arthur Miller riteneva che fosse un atto di sfregio; «pensare che un ragazzo ha fatto vacillare il mondo!» La giovinezza è forse l´elemento più forte della leggenda di Rimbaud. Delahaye, l´amico d´infanzia, racconta che dal maggio a settembre 1871 - quando Verlaine, sedotto dai suoi versi, lo convoca a Parigi: «Venite, cara grande anima» - Rimbaud, in sei mesi, è cresciuto venti centimetri. La surenfance la chiama il filosofo Gaston Bachelard: infanzia diventata cosciente di sé. Ha fatto fiorire il mondo come un temporale d´aprile, riassumeva Cocteau.
Uno dei capolavori di Rimbaud, Le bateau ivre, nutre ancora il fascino dell´ignoto, il sogno di un altrove sempre ulteriore. Per molti, quella poesia è un´esperienza di fisica liberazione: «sono felice, mi sono bagnato nudo in un verde torrente di montagna e mi sono asciugato rotolandomi nell´erba calda. Leggo solo Rimbaud» scrive André Gide - Pasolini invece diceva: «Rimbaud, mio contemporaneo, mio castratore». La barca può essere la gioia di rinchiudersi in un guscio, un Nautilus, rifletteva Roland Barthes: se scompare il nocchiero, il vascello vola, sfiora gli infiniti. Paul Valéry, il poeta, sognò nel 1891 di essere nel battello ubriaco, «ero un´alga che non si appartiene. Tutto il mare passava attraverso le mie cellule».


L'Eco di Bergamo 19.10.04

Rimbaud, quel battello in rotta verso l'ignoto
di Maria Mataluno

Un secolo e mezzo fa nacque il profeta della poesia moderna. Usò il linguaggio per scoprire nuovi mondi Nei suoi versi e nei «silenzi» il disperato tentativo di fuggire dall'ipocrisia della società occidentale
«L' Io è un altro», scrisse Arthur Rimbaud all'epoca in cui, diciassettenne, lasciò la sua famiglia per intraprendere il vagabondaggio attraverso l'Europa che l'avrebbe portato a vivere, insieme all'amico-nemico Paul Verlaine, la straordinaria avventura della nascita della poesia moderna. Una frase in cui si può intravedere il nocciolo della ricerca artistica che il «poeta maledetto» condusse nel corso della sua breve vita (morì nel 1891), spesa nel tentativo di reagire a quanto c'era di marcio e insensato nella società del suo tempo. A un secolo e mezzo dalla sua nascita, avvenuta a Charleville il 20 ottobre 1854, chiediamo a Mario Richter, docente di Letteratura francese all'Università di Padova, autore del libro Viaggio nell'ignoto. Rimbaud e la ricerca del Nuovo (La Nuova Italia Scientifica, 1993), e curatore delle Opere complete di Rimbaud (Biblioteca della Pléiade, 1992), di aiutarci a interpretare questa frase.
Poesia soggettiva
poesia oggettiva
«Questa formula è contenuta in una lettera indirizzata da Rimbaud al suo professore di liceo, che lo pregava di tornare a scuola. In essa egli introduce una distinzione tra poesia soggettiva e poesia oggettiva, definendo la prima inerte e insignificante, e la seconda carica di possibilità. Possiamo vedere nella poesia soggettiva – ossia quella espressa dall'Io, dal Je – la vita nella forma che si è data la cultura occidentale, e i cui fondamenti concettuali sono stati elaborati dalla filosofia greca, in particolare da quella platonica, e poi ripresi dal cristianesimo. Con la frase Je suis un autre Rimbaud vuole dire che la nostra vita di uomini occidentali (quella espressa dal soggetto, dal Je ) ne nasconde un'altra, più autentica e produttiva. Quest'altra realtà, l'autre , è tuttavia sconosciuta, è quell'ignoto già evocato da Baudelaire nei Fiori del Male : “In fondo all'Ignoto per trovare qualcosa di nuovo!”. Per arrivare a tale ignoto è necessario per Rimbaud procedere a una distruzione del noto, o dell'Io, che dev'essere compiuta con freddo metodo. Per questo la lettera al professore si conclude con una poesia intitolata Il cuore suppliziato , nella quale il cuore sta per l'Io, per la vita nota.»
Quando Rimbaud, nel 1872, inviò Il battello ebbro a Paul Verlaine, questi si rese conto di trovarsi di fronte al profeta della «nuova» poesia. Ma in cosa consisteva la sua carica rivoluzionaria?
«Le bâteau ivre è la poesia più celebrata di Rimbaud. Racconta l'ebbrezza di un'imbarcazione (simbolo dell'Io) che, liberatasi di ogni freno, può discendere a suo piacimento un fiume fino a vagare liberamente nell'oceano. Tanta libertà si traduce in un turbinio di stupefacenti visioni, ma anche in un'estenuazione finale che porta al magnifico e disperato verso Je regrette l'Europe aux anciens parapets (“Rimpiango l'Europa dai parapetti antichi”), col quale Rimbaud dice quanto sia straziante, malgrado l'esaltazione, allontanarsi dall'Io. Col Battello ebbro Rimbaud tentò di far colpo sul gruppo di poeti parigini di cui Verlaine faceva parte, i “parnassiani”. In quei versi, però, il suo impegno rivoluzionario si esprime ancora entro i limiti della tradizione. Il Rimbaud più grande e nuovo è invece quello che poco dopo traduce il suo programma di autodistruzione nel viaggio con Verlaine e nel resoconto di quella esperienza, Una stagione all'inferno ».
In che modo il rapporto con Verlaine influenzò la sua poesia?
«Dapprima Rimbaud nutrì la speranza che Verlaine fosse l'unico poeta vivente capace di essergli d'aiuto nella sua impresa destinata a passare dall'Io all'Altro, dal noto all'ignoto. Ben presto, però, Verlaine lo deluse. Per capire perché, è necessario tornare al progetto di Rimbaud. Per passare dall'Io all'Altro egli giudicò necessario trovare una nuova lingua, dato che, quando si parla, è la lingua che parla per noi. La nostra lingua – e dunque anche la nostra maniera di pensare – si regge su un'illimitata serie di coppie oppositive: quando si dice “corpo” o “materia”, nella nostra mente è presente e attivo il suo opposto, “anima” o “spirito”; quando si dice “bene”, è presente il male, eccetera. Questo sistema di opposizioni ha origine nell'interpretazione della realtà data da Platone, il filosofo che conferì fondamento di verità alla divisione fra mondo sensibile e mondo soprasensibile, fra il divenire e l'essere. Anche la cultura cristiana adottò questa divisione. Questo dualismo, per Rimbaud, è il più grande ostacolo che impedisce l'accesso all'ignoto, all'aldilà della cultura occidentale. Rimbaud adoperò la lingua e la poesia per esplorare questo aldilà, ossia lo spazio nel quale la vita non è in contraddizione con la morte, la materia non si oppone allo spirito. Su questa via Verlaine non solo non gli insegnò nulla, ma lo contrariò, esortandolo a non dilapidare in “stupide” ricerche i suoi doni letterari. Verlaine non volle mai abbandonare l'Io per l'altro, e perciò Rimbaud finì per soprannominarlo “Loyola”, ossia ipocrita gesuita. Verlaine rimase sempre un letterato, interessato soprattutto ai valori estetici della poesia, mentre Rimbaud perlustrò spazi a cui la lingua esistente non aveva mai portato prima, rivelò orizzonti colmi d'avvenire. A lui – non certo a Verlaine – guarderanno infatti, nel Novecento, i surrealisti, in particolare André Breton».
Nel 1880 Rimbaud accettò un impiego di agente commerciale in Abissinia, rinunciando alla poesia. Maurice Blanchot ha affermato che con questa fuga non scelse il silenzio tout court, ma volle «dire nel silenzio». È d'accordo?
«Il silenzio di Rimbaud, effettivamente, dice qualcosa d'importante. Conferma il senso della sua precedente ricerca. Dopo il 1875 si limitò a scrivere solo poche lettere: non intese concedere più nulla alla letteratura, nel senso occidentale del termine. Lui, tanto esperto nell'uso della penna, si attenne, anche quando si trovò a parlare di popolazioni e terre ignote, di esperienze nuove e sorprendenti, all'informazione strettamente necessaria. Il fatto è che l'impegno di “trovare una lingua”, l'aveva già mantenuto. Compiuta la sua missione, aveva esaurito le proprie energie, e le parole scritte gli facevano ormai un tale orrore che, per far conoscere ai suoi il paese in cui viveva, preferì servirsi della macchina fotografica».
Nella ricerca ossessiva dell'Altro intrapresa da Rimbaud si può intravedere l'inconscia ricerca di un «Dio sconosciuto»?
«Continuatore di Baudelaire, Rimbaud era scandalizzato dall'ipocrisia della cultura occidentale, di cui rivelò l'inautenticità e l'orrore, mostrando squarci di verità nascoste. Che fosse alla ricerca del “Dio ignoto” di cui Paolo di Tarso parla agli Ateniesi? Difficile dirlo, ma è certo che quando le ricerche sono autentiche, sinceramente ribelli all'ipocrisia e pagate di persona, hanno inevitabilmente un rapporto col divino nelle sue più sconvolgenti e impensabili profondità».