mercoledì 20 ottobre 2004

psicologia dell'adolescenza e la polemica sui teenager

Repubblica 20.10.04
Ragazzi straordinari, con un problema: "l'obbligo" del consenso. Così li vedono psichiatri e psicologi
Ecco la generazione-paradiso "Ma chi fallisce rischia il crollo"
Allenati al dialogo, nemici del pregiudizio ma hanno una missione da portare a termine
Charmet: "Con un alto ideale di amicizia, hanno reinventato il galateo dell'amore"
Cresciuti in ambienti protetti, si trovano inadeguati a affrontare giudizi negativi
MARIA STELLA CONTE

ROMA - È che sono molto lontani da come eravamo; è che sfuggono irriducibilmente all'ansia di definizione degli adulti; sono la generazione a intolleranza zero: adolescenti allenati al dialogo, cresciuti in famiglie premeditatamente a basso tasso di conflittualità; aperti, flessibili, nemici del pregiudizio. Generazione "rassegnata", "desolata", "impotente"? Non è così che la descrivono psicologi e psichiatri. Per loro, sono «straordinari» questi nostri giovani ai quali i genitori hanno dato una missione da compiere che non prevede alcun impegno etico: realizzare se stessi, diventare belle persone, ottenere consenso, essere felici. Operazione paradiso, insomma. Che se fallisci, può anche sprofondarti nell'abisso. Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, che ha curato con Alfio Maggiolini per la Franco Angeli il libro "Manuale di psicologia dell'adolescenza: compiti e conflitti", a giorni nelle librerie, questo sostiene. Che quelli di oggi «sono ragazzi e ragazze meravigliosi, solo che continuano ad essere giudicati secondo parametri che non li riguardano. Ciò che fanno - dice - è veramente importante: stabiliscono rapporti di gruppo solidali seguendo un altissimo ideale di amicizia; vivono la coppia secondo un galateo amoroso completamente reinventato basato su livelli di autonomia e reciproco rispetto impensabili ai nostri tempi; e il buon lavoro che stanno facendo, ci fa supporre che saranno in futuro ottimi genitori». Ma questo sentirsi "obbligati" a riscuotere consensi e a non deludere le aspettative della famiglia «li rende anche estremamente fragili. Cresciuti in situazioni protette, gli adolescenti si ritrovano inadeguati ad affrontare il giudizio negativo: essere respinti li espone a dolorose ferite narcisistiche. Tuttavia - spiega Charmet - essi non provano sensi di colpa di fronte al fallimento, ne restano semplicemente stupiti, storditi, sbigottiti. E vergognosi».
No. Non è vero che la loro massima aspirazione sia quella di vivere sotto le luci di un "grande fratello" qualsiasi. Non necessariamente aspirano a sfidare concorrenti in fiction televisive ad alto gradimento; non hanno la sensazione di esistere solo se... E´ proprio la loro vita di tutti i giorni a somigliare spesso ad un reality show dove alla fine o stai dentro o stai fuori; amato o ripudiato per quel che sei. Il pubblico sono i coetanei: il gruppo, gli amici: l´"altra famiglia", dalla quale sono assolutamente dipendenti. Gli obblighi della moda, la paura dell´anonimato nascono - sostengono gli studiosi - in questo contesto, lontano dai genitori, dalla "famiglia lunga" - come la definisce Charmet - che predispone ogni cosa affinché i figli, anzi il figlio unico, possa restare al suo interno quanto più desidera. Senza noie, senza strappi, senza conflitti. Una famiglia che ha privatizzato i figli - sostiene la psicoterapeuta Elena Rosci, autrice del recente "Fare male, farsi male" - proponendo di sé un modello non più normativo ma affettivo, protettivo, relazionale. «A questo diverso modello genitoriale, lo Stato risponde declinando valori perfettamente in sintonia con la nuova famiglia, senza individuare strategie che controbilancino la situazione, che valorizzino il ruolo pubblico e sociale dei giovani». Eppure, questi "figli privatizzati" che hanno un´esistenza così densa, apparentemente, di soli privilegi, rischiano di soffrire e di smarrirsi proprio per l´indefinitezza del loro ruolo sociale pubblico.
«Siamo noi - dice Charmet - che li abbiamo voluti così. Siamo noi che gli abbiamo detto: lotte, rivoluzioni, contestazioni sono stati affar nostro. Voi potete permettervi il lusso di un´esistenza che esprima la vostra unicità. Siamo stati molto bravi nel trasmettere questa mancanza di senso di responsabilità nei confronti dello Stato, dell´economia, degli impegni nazionali. Abbiamo fatto di tutto perché non credessero che ideologia e politica potessero essere una soluzione interessante per la loro vita e ci siamo riusciti».
Sedicenni con genitori-sponsor sempre al fianco; sedicenni che attraverso la manipolazione del corpo cercano di somigliare alla rappresentazione mentale di se stessi. Ragazzi e ragazze davvero speciali, gli adolescenti di oggi, per i quali tifa spassionatamente il professor Arnaldo Novelletto che proprio venerdì prossimo aprirà a Santa Margherita Ligure il "VI Convegno Nazionale di Psicoterapia dell´adolescenza". «Si parla spesso di depressione tra i giovanissimi, ma è un errore. Basterebbe, a volte, essere capaci di comunicare con loro: lasciarli parlare e saperli ascoltare. Non è qualcosa che si inventa su due piedi. Bisogna imparare a farlo. In realtà, questi nostri adolescenti se la cavano molto meglio di noi: maturano meglio, usano meglio le risorse che hanno a disposizione, sono più creativi. Vivono in famiglia a lungo, è vero: ma da queste famiglie entrano ed escono autonomamente in continuazione». Alla ricerca degli altri, alla ricerca di se stessi. Il paradiso - o l´inferno, dipende - potrebbe essere a due passi da qui.

Repubblica 20.10.04
La vita bassa dei teenager "stregati dai protagonisti tv"

Migliaia di e-mail sui giovani tra consensi e polemiche
L´intervento di Lodoli apre il dibattito sui ragazzi omologati per sentirsi vivi
Ma la moda stavolta non c'entra, si discute di valori e di aspirazioni mancanti
LAURA LAURENZI

ROMA - La vita bassa per essere qualcuno, per non lasciarsi risucchiare dall´anonimato. E´ andato a toccare un nervo scoperto l´articolo di Marco Lodoli uscito l´altro ieri su Repubblica. Infuriano le polemiche su quotidiani, in televisione, su internet, nelle scuole. Amaro, anzi tetro è il paesaggio umano sul cui sfondo si muove la quindicenne studentessa che dice al professore, a Lodoli: «Non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione... tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente... La nostra sarà una vita inutile». E ancora: «Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci».
Davvero un paio di mutande griffate, al quartiere Tuscolano di Roma come nel resto d´Italia, può fare la differenza fra essere e non essere, può rappresentare il salvacondotto e garantire una personalità anche se "usata" o "copiata"? Davvero a 15 anni si pensa di poter emergere dal "continente sommerso che mai vedrà la luce" solo aspirando a fare la velina o il calciatore o il Grande Fratello?
Lodoli è tornato a discuterne lunedì sera in tv nella rubrica del Tg3 "Primo piano" confrontandosi con Roberto D´Agostino, il quale ha sostenuto con veemenza tesi diametralmente opposte alle sue. «Lodoli è di un moralismo irritante - dice ora D´Agostino - per dieci anni abbiamo indossato una divisa ideologica con tanto di eskimo e ora andiamo a dire agli altri che non dobbiamo stare in divisa?»
Critiche arrivano anche dal Secolo d´Italia, quotidiano di An, che ieri scriveva: «Siamo alle solite, con i soliti professori para-girotondini che non riescono a trattenere il loro razzismo antropologico per la gente normale, per i ragazzi normali, per quel Paese normale che, pure, dicono di voler rappresentare». L´Avvenire sostiene che «non basta la tv a spiegare il raggelante nulla» dell´allieva di Lodoli: «Quel manifesto nichilista, tanto inconsapevole quanto lucente di vera disperazione, recitato in classe davanti a tutti, ha il senso di una domanda: che qualcuno mi veda, che mi riconosca, che qualcuno mi voglia bene».
Elisabetta Bolondi, insegnante di lettere all´Istituto Carlo Levi al Tuscolano, dunque collega e vicina di Lodoli, osserva che «non tutti gli studenti sono così. Sta agli adulti, agli insegnanti, ai genitori, tirargli fuori le cose che hanno dentro. E che i ragazzi tengono nascoste per desiderio di omologazione ma soprattutto per la paura di essere presi in giro, di essere l´oggetto di sarcasmo dei compagni».
Sul forum aperto da Repubblica. it sul tema "La vita bassa per essere qualcuno" si è riversata un´alluvione di oltre duemila messaggi, scritti soprattutto da adulti, genitori e insegnanti ma non solo. Qualche frase: «Mi sembrate un po´ bigotti! Ma uno sarà libero di vestirsi come gli pare?» «Una soluzione c´è: buttate il televisore... Orientate i vostri figli allo studio, alla ricerca, ai valori veri!!!». «Basta sottovalutarci e piangerci addosso... stiamo diventando un "branco" di patetici e di amorfi, forse coloro che si distinguono sono quelli che sanno ancora ridere». Le voci contro sono la maggioranza. «I cantanti, i calciatori, la gente che sta in tv, loro esistono veramente. Bella roba... e tutti gli altri non esistono? Io esisto, e dei famosi della televisione me ne strafrego...». «Gli adolescenti si sentono inutili e insignificanti perché la società continua a trasmettere valori insignificanti». Non mancano parole di speranza: «Alzate la testa ragazzi, non rinunciate al vostro futuro...». Così come non manca il sarcasmo: «Reintroduciamo le uniformi, ragazzi tutti in giacca e cravatta, ragazze con camicette e gonne». Ma l´omologazione a qualcuno sembra una via d´uscita tutto sommato onorevole: «Seguire una moda e scegliere di vestire come la maggior parte dei propri coetanei aiuta a sentirsi integrati in un gruppo».
Numerosissime anche le lettere al nostro quotidiano. Scrive Grazia Russo-Lassner: «Ho rimpiazzato la logica del "ho, dunque esisto", con quella del dare e progettare per sentirsi vivi». Ed esorta: «Professore, la prego, cerchi di diffondere messaggi di ottimismo ai nostri figli». Per Giampaolo Castellano «una ragazza che a quindici anni non sogna non è un modello di giovane di oggi». Carlo Molinaro sottolinea come «nell´adolescenza l´impulso di uniformarsi al gruppo o a un gruppo è fisiologica ed è così da secoli. Crescendo poi si impara, quasi sempre, la splendida unicità della propria irripetibile vita».

Repubblica 20.10.04
CHE PAURA ESSERE NESSUNO
Ma molti capiscono anche che certi sogni sono una trappola
MARCO LODOLI

Mercato, concorrenza, competitività: che i migliori emergano, che i forti prevalgano, che le belle si mostrino. Anche una ragazzina di quindici anni riceve ogni momento, in modo diretto o subliminale, questi messaggi dal piccolo schermo o dai cartelloni pubblicitari che invadono lo sguardo. E magari questa ragazzina vive in una borgata oltre il Raccordo, è alta un metro e cinquantotto ed è un po´ rotonda, frequenta una scuola professionale dove non c´è un computer né una biblioteca, e a casa non ha libri ma solo un televisore sempre acceso, e i suoi amici sono quelli della bisca in piazzetta. Magari a casa sente spesso il padre lamentarsi perché la vita è sempre più dura e più cara, mentre la madre tace preoccupata. Lei è intelligente e sensibile, e di colpo un giorno, accasciata sul divano davanti a quel televisore, capisce come funziona il nostro mondo. Pochi vincono e molti soccombono. Pochi avranno soldi, primi piani, applausi e molti avranno una vita anonima e senza luce. E lei amaramente intuisce che non sarà tra i pochi fortunati. Nella competizione spietata lei sarà tra i perdenti, gli esclusi, gli spettatori delle altrui fortune. Ha sufficiente coraggio e lucidità per permettersi un pensiero così terribile. E riesce a fare anche un altro passo in avanti nella sua atroce riflessione. Intuisce che solo i vincenti possono permettersi una personalità originale, opinioni da esprimere perché c´è sempre qualcuno che le sta ad ascoltare, desideri e capricci. I potenti possono tutto, prendere, lasciare, sproloquiare, battere i piedi, gli impotenti non possono niente. Di questi tempi anche una personalità e un carattere sono un lusso per pochi. Per tutti gli altri, per le infinite persone che vagano attorno a quel castello incantato, esiste solo il consumo impersonale. Mutande firmate, partite di calcio, pantaloni oggi a vita bassa e domani chissà come, piercing e birrette, pay tv e ipermercati dove riempire il carrello, se ci si riesce. La ragazzina vede chiaro, capisce l´aria che tira, dice la verità. Di sociologia non sa nulla, forse non comprende nemmeno il termine, ma della nostra società ha compreso molto. Non è certo una rivoluzionaria, anzi il suo sogno segreto sarebbe di far parte della Grande Festa, di avere un posto attorno a quella tavola sempre imbandita e una telecamera che la inquadri anche mentre dorme. Ma non ci conta per niente. Non conta nemmeno più sulle sue forze, non ha troppa voglia di studiare e sacrificarsi per diventare infermiera o maestra d´asilo, perché secondo lei sarebbe comunque una vita grama, lontana dal castello. O Cesare o nessuno, dunque nessuno. Un nessuno che rischia di passare la vita tra milioni di altri nessuno, lì sul bordo tra le vetrine della Tuscolana e il nulla. Questa è la situazione che in dieci minuti mi è stata raccontata da una ragazza allegra e malinconica, intelligente e pigra. Questa è l´infelicità a cui il nostro mondo sta consegnando tanti ragazzi e tanti adulti. Molti ci stanno dentro senza accorgersene, tra psicofarmaci e alcol, depressioni e rabbia. Ma alcuni, per fortuna, cominciano a capire come funziona la macchina infernale. Come la mia alunna, la osservano con attenzione, la studiano, cominciano a smontarne i pezzi.

l'articolo di Lodoli all'origine della polemica:

Repubblica 18.10.04
La polemica
La vita bassa a quindici anni
MARCO LODOLI

Insegnare a scuola mette in contatto con le verità del giorno: è come raccogliere uova appena fatte, ancora calde, magari con il guscio un po' sporco. Gli storici interrogano i secoli, ma in una classe di una qualsiasi periferia italiana si ascolta il battere dei secondi. Ebbene, oggi una ragazza di quindici anni, un' allieva che non aveva mai rivelato una particolare brillantezza, ha fatto una riflessione che mi ha lasciato a bocca aperta. Eravamo negli ultimi dieci minuti di lezione, quelli che spesso si spendono in chiacchiere con gli alunni. La ragazza raccontava di volersi comprare un paio di mutande di Dolce e Gabbana, con quei nomi stampati sull' elastico che deve occhieggiare bene in vista fuori dai pantaloni a vita bassa. Io le obiettavo che lungo la Tuscolana, alle sei di pomeriggio, passeggiano decine e decine di ragazze vestite così. Non è un po' triste ripetere le scelte di tutti, rinunciare ad avere una personalità, arrendersi a una moda pensata da altri? E da bravo professore un po' pedante le citavo una frase di Jung: «Una vita che non si individua è una vita sprecata. «Insomma, facevo la mia solita parte di insegnante che depreca la cultura di massa e invita ogni studente a cercare la propria strada, perché tutti abbiamo una strada da compiere. A questo punto lei mi ha esposto il suo ragionamento, chiaro e scioccante: «Professore, ma non ha capito che oggi solo pochissimi possono permettersi di avere una personalità? I cantanti, i calciatori, le attrici, la gente che sta in televisione, loro esistono veramente e fanno quello che vogliono, ma tutti gli altri non sono niente e non saranno mai niente. Io l' ho capito fin da quando ero piccola così. La nostra sarà una vita inutile. Mi fanno ridere le mie amiche che discutono se nella loro comitiva è meglio quel ragazzo moro o quell' altro biondo. Non cambia niente, sono due nullità identiche. Noi possiamo solo comprarci delle mutande uguali a quelle di tutti gli altri, non abbiamo nessuna speranza di distinguerci. Noi siamo la massa informe. «Tanta disperata lucidità mi ha messo i brividi addosso. Ho protestato, ho ribattuto che non è assolutamente così, che ogni persona, anche se non diventa famosa, può realizzarsi, fare bene il suo lavoro e ottenere soddisfazioni, amare, avere figli, migliorare il mondo in cui vive. Ho protestato, mettendo in gioco tutta la mia vivacità dialettica, le parole più convincenti, gli esempi più calzanti, ma capivo che non riuscivo a convincerla. Peggio: capivo che non riuscivo a convincere nemmeno me stesso. Capivo che quella ragazzina aveva espresso un pensiero brutale, orrendo, insopportabile, ma che fotografava in pieno ciò che sta accadendo nella mente dei giovani, nel nostro mondo. A quindici anni ci si può già sentire falliti, parte di un continente sommerso che mai vedrà la luce, puri consumatori di merci perché non c' è alcuna possibilità di essere protagonisti almeno della propria vita. Un tempo l' ammirazione per le persone famose, per chi era stato capace di esprimere - nella musica o nella letteratura, nello sport o nella politica - un valore più alto, più generale, spingeva i giovani all' emulazione, li invitava a uscire dall' inerzia e dalla prudenza mediocre dei padri. Grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli. Oggi domina un' altra logica: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori per sempre. Chi fortunatamente ce l' ha fatta avrà una vita vera, tutti gli altri sono condannati a essere spettatori e a razzolare nel nulla. Si invidiano i vip solo perché si sono sollevati dal fango, poco importa quello che hanno realizzato, le opere che lasceranno. In periferia ho conosciuto ragazzi che tenevano nel portafoglio la pagina del giornale con le foto di alcuni loro amici, responsabili di una rapina a mano armata a una banca. Quei tipi comunque erano diventati celebri, e magari la televisione li avrebbe pure intervistati in carcere, un giorno. Questa è la sottocultura che è stata diffusa nelle infinite zone depresse del nostro paese, un crimine contro l' umanità più debole ideato e attuato negli ultimi vent' anni. Pochi individui hanno una storia, un destino, un volto, e sono gli ospiti televisivi: tutti gli altri già a quindici anni avranno solo mutande firmate da mostrare su e giù per la Tuscolana e un cuore pieno di desolazione e di impotenza.