martedì 23 novembre 2004

mistificando la scelta "politica" di Paolo di Tarso
cosa dicono i cattolici oggi delle immagini

Giornale di Brescia 23.11.04
Il Cristianesimo e i suoi rapporti con l’immagine

DELL’ARTE
L’«IO CREDO»
di Timothy Verdon

Mons. Timothy Verdon, già Consultore della Pontificia commissione per i beni della Chiesa, è direttore dell’Ufficio per la Catechesi attraverso l’Arte dell’Arcidiocesi Fiorentina e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale nonché alla Stanford University. Le sue ultime pubblicazioni sono "Vedere il mistero. Il genio artistico della liturgia cattolica" (Mondadori, 2003) e "Maria nell’arte europea" (Electa, 2004).[...]


Un testo base della fede cristiana, il Vangelo secondo Giovanni, apre con le parole: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Più avanti, afferma che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e verità» (Gv 1,14). Un altro testo, la prima Lettera di Giovanni, dirà che il «Verbo della vita (...) si è fatto visibile, noi l’abbiamo veduto e di ciò rendiamo testimonianza» (1 Gv 1, 1-2), e in una lettera paolina Cristo è chiamato semplicemente «immagine» - nel greco originale, eikon, icona - «del Dio invisibile» (Col 1,15). Queste citazioni suggeriscono il rapporto particolare del cristianesimo con la visibilità, con le immagini e quindi con l’arte. Mentre in altri sistemi religiosi pittura e scultura servono ad illustrare contenuti il cui baricentro rimane altrove, nel cristianesimo le immagini portano dritto al cuore dell’esperienza di fede, facendo "vedere" una gloria, una grazia, una verità e vita associate a Colui che è egli stesso «immagine», Gesù Cristo. Anche l’arte più concreta, l’architettura, è percepita dai cristiani in termini di mistica identificazione, perché Cristo ha chiamato «tempio» il suo corpo risorto (Gv 2,19-22) e il Nuovo Testamento caratterizza la comunità dei credenti come una «costruzione (che) cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore» (Ef 2,21) - un "edificio spirituale" le cui pietre sono gli stessi cristiani (1 Pt 2,5). Ecco perché, a chiusura del Concilio Vaticano II nel 1965, papa Paolo VI ha insistito sul ruolo degli artisti nella vita cristiana. «Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi - diceva - voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. Voi l’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere sensibile il mondo invisibile». Sullo stesso tono, nella Lettera agli artisti del 1999 Giovanni Paolo II afferma che, «per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve infatti rendere percettibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio».
La testimonianza dell’arte è specialmente importante nel contesto della liturgia, dove da quasi due millenni le immagini e la stessa configurazione architettonica del luogo di culto servono a rendere "visibile" il mistero cristiano. La liturgia poi - il complesso di riti con cui una civiltà esterna il suo rapporto con Dio - è in sé opera artistica e generatrice d’arte. Composta di azioni rituali abbinate a parole, ha bisogno di spazi in cui svolgere le azioni e di arredi illustranti i testi. A loro volta, i templi e le processioni, i canti sacri, le immagini e suppellettili presuppongono la collaborazione di professionisti nei vari campi: architetti e coreografi, compositori, cantori, poeti, pittori, scultori, orefici. Nella tradizione giudeo cristiana, l’estro creativo al servizio del culto è considerato addirittura un dono di Dio, e l’arte in tutte le sue forme viene pensata in rapporto al sacro. Nell’Antico Testamento, ad esempio, l’origine delle arti viene inequivocabilmente presentata in funzione del culto, e «gli artisti che il Signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario» sono istruiti da Mosé in persona, perché facciano «ogni cosa secondo ciò che il Signore aveva ordinato» (Esodo 36,1). Nell’Esodo l’arte ha a che fare col peccato e col perdono; segna una radicale scelta da parte del popolo; e materializza la promessa di Dio di "camminare" in mezzo ad esso. Inoltre prolunga una parziale rivelazione della divina gloria (le spalle viste da Mosé, non il volto) e manifesta la volontà del popolo di contribuire con i propri mezzi a realizzare un «luogo vicino a Dio», il cui architetto è sempre Dio. Tale «volontario contributo» da parte del popolo diventa poi segno di penitenza per il peccato d’idolatria, come la conseguente bellezza del santuario sarà segno dell’alleanza offerta da un Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni e perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Esodo 34, 6-7). Così com’è presentata nell’Antico Testamento, cioè, l’arte diventa uno dei segni del patto sussistente tra l’uomo peccatore e Dio che, perdonando la colpa, cammina in mezzo al suo popolo; è quasi un "sacramento" della presenza e della salvezza che Dio offre.
Queste funzioni, che in Israele furono concentrate nel santuario portatile fatto realizzare da Mosé e successivamente nel Tempio gerosolimitano, sembrano destinate a venir meno nella nuova alleanza istituita da Gesù Cristo. Parlando con una donna della Samaria, Gesù dirà infatti che né il monte sacro dei samaritani né il tempio degli israeliti servono più, perché «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito - continua Gesù - e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Giovanni 4,21-24). Nel Nuovo come nell’Antico Testamento, l’uomo non può vedere Dio direttamente, e il quarto Vangelo insiste che «Dio nessuno l’ha mai visto» (Giovanni 1,17). Ma aggiunge subito che «proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18) - affermazione risalente a Cristo stesso, il quale - all’apostolo Filippo, che aveva chiesto di vedere Dio - disse: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Giov. 14,9). (...) Se Cristo è la personale ed incarnata "icona" dell’invisibile Padre, allora il ruolo delle immagini nella Nuova Alleanza dovrà essere più importante che nell’Antica. Il luogo maggiormente decorato del Tempio gerosolimitano era la cella interna o Sancta sanctorum contenente l’Arca in cui erano conservate le dieci parole di Dio su tavole di pietra; i rivestimenti in pregiato legno di cedro con rilievi raffiguranti boccioli di fiori alludevano all’importanza delle parole di Dio. In Gesù Cristo, però, non «dieci parole» ma la Parola - il Logos o Verbum - si fece carne. Non era nascosta, ma manifesta a tutti, così che la prima Lettera di Giovanni potrà dire: «Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Giovanni 1,1-3). Il ruolo dell’arte nella Nuova Alleanza sarà appunto quello di un annuncio, finalizzata alla comunione, di «ciò che era fin dal principio» e che alcuni hanno ora sperimentato in modo sensorio - che hanno cioè "veduto", "contemplato", "udito" e perfino "toccato"-: la Parola incarnata, Vita eterna che, rendendosi visibile, suscita in chi la vede una testimonianza gioiosa. Il brano evangelico citato conclude: «Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Giov. 1, 4).