Repubblica 13.12.04
UN BRINDISI IN MESOPOTAMIA
Le indagini di un archeologo sulla cultura del vino nel mondo antico
È nel secondo millennio a. C. che la pratica si diffonde in tutto il Mediterraneo
Gli studi sono stati compiuti grazie a strumenti biomolecolari
di SERGIO FRAU
Uno dei suoi ricordi più belli? Quando gli affidarono due chili di avanzi, roba organica putrefatta: due chili di resti del banchetto funebre di Re Mida. Erano stati trovati in orci sepolti nel suo tumulo, a Gordio, in Turchia. Si mise al lavoro subito Patrick McGovern: spettroscopia agli infrarossi, cromatografia liquida e gassosa, spettrometria di massa.
In breve la conferma: erano davvero del 700 prima di Cristo quegli avanzi. Riuscì anche a stabilire nel dettaglio il menù: quel giorno, per dare l'ultimo saluto al re dal tocco d'oro, si mangiò - ben innaffiato da un "grog" di vino frigio misto a idromele che solo lì sapevano fare così buono - pecora grigliata e disossata. Grazie all'archeologia biomolecolare di McGovern saltarono fuori man mano pure tutti gli ingredienti che erano serviti a prepararla: miele, vino, olio, erbette, anice, finocchio. E persino il contorno: lenticchie.
Il vino d'annata è una sua specialità. Vino d'epoca che cerca dappertutto - in fondi di otri, in vasche per vendemmia, in coppe minoiche - questo ricercatore che oggi insegna Antropologia all'Università di Pennsylvania e ne dirige il Museum Applied Science for Archaelogy. Lo indaga ormai da più di 20 anni come solo un esperto specializzato in archeologia molecolare può fare, ormai, oggi con il vino degli Antichi. Ora con L'archeologo e l'uva - la sua ricerca che, edita da Carocci, arriva oggi nelle librerie (pagg. 335, euro 24,50) racconta la sua storia e le sorprese che gli ha regalato.
Fino al 1988 la più antica testimonianza chimica di vino conosciuta era data da anfore romane trovate al largo della Costa Azzurra. Fu proprio lui a dare il via a nuove analisi chimiche integrate, tanto che oggi può partire dai pettirossi ubriachi del Paleolitico di decine di migliaia di anni fa e - alluvionale, con le sue 335 pagine assai ben scritte, spesso frizzanti - arrivare a stapparci in diretta orci e botti di Egizi, Ittiti e Greci, passando anche nelle cantine di Filistei, Celti e, persino, in quelle di Noè.
Scrive: «I nostri antenati devono aver visto uccelli mangiare ghiottamente l´uva fermentata. La loro curiosità deve essere aumentata nel vedere che, talvolta, ne derivavano movimenti muscolari scoordinati, tanto da far cadere i pettirossi dal trespolo».
A lui, però, interessa l'uomo: quando ci provò lui? Già l'Uomo Paleolitico? Non è escluso: «Finora però nessun recipiente di pietra è stato sottoposto alle tecniche dell'archeologia molecolare» dice. Il suo campo di ricerca è ampio come l'Eurasia: «Da qualche parte in questa vasta regione la vite selvatica europea è stata portata a coltivazione e alla fine domesticata: forse più di una volta, in più di un posto». Operazione complessa quella, fatta da gente che, comunque, doveva saperla lunga (contro funghi, batteri, acari, siccità & C.) e che poteva permettersi di aspettare i sei anni che servono a una vigna per entrare in produzione.
Le risultanze archeologiche attuali gli indicano un posto ben preciso per ambientare (per ora) il "Big Bang" del primo brindisi: le aeree montuose del Vicino Oriente. Da lì disegna un albero genealogico del vino che ha le sue radici nell´area collinosa che costeggia la Mesopotamia settentrionale (a metà del VI millennio a.C.), si estende in seguito ai Monti Zagros e al Transcaucaso giorgiano e armeno, per allargarsi a dismisura in Egitto e Mesopotamia (fin dal 3.500 a.C.), e toccare Creta nel 2.200 a.C.
È nel II millennio prima di Cristo che bevono tutti, dappertutto, qui nel Mediterraneo: solo questione di soldi poterselo permettere. Un orcio via l'altro, un coccio via l'altro, lo studioso statunitense riesce non solo a capire cosa si beveva, ma anche chi, come, quando e quanto beveva. Come alleati ha il moscerino della frutta (il "Drosophila melanogaster"), un vermetto dell'uva, e il lievito. Di tutti e tre questi elementi di recente è stato possibile individuare i Dna che, ormai inglobati nei reperti, fanno da guida alle esplorazioni. Ne è nato il "Progetto Dna antico della vite" che - schedando, archiviando, comparando - sta mandando in frantumi non solo datazioni di siti ma anche intere ricostruzioni storiche finora affidate solo alle sentenze dell'archeologia vecchio stile.
Per lui il vino è pur sempre «una miscela insolitamente complessa di diversi alcoidi, aldeidi, acidi, carboidrati, esteri, proteine vitamine, molecole poliidroaromatiche tra cui tannini, antocianine, flavonoli, catechine», ma è proprio grazie a tutti questi composti (e ai segnali di vita che millenni dopo riescono a conservare), che oggi si è in grado di resuscitare nettari, odori e sapori che facevano più dolce la vita di satrapi e faraoni.
McGovern: «I geroglifici che significano "uva, vino, vigna" (presenti già dal 3.100 a.C.), sono tra le prove più significative che la viticoltura egizia fu altamente sofisticata fin dagli inizi». E anche: «Orci da vino vennero depositati a migliaia nelle tombe dei primi faraoni d'Egitto».
L'Aldilà degli Egizi era sereno e ad alta gradazione alcolica: molta birra e anche vino con tanto di cartigli faraonici impressi a sigillarlo e a stabilirne annate certe. C'era un mistero, però, all'inizio di tutto: nella tomba del primissimo faraone, Scorpione I, seppellito ad Abydos e archiviato come "dinastia 0" (perché del 3150 a.C. circa e, quindi, precedente a tutti gli altri), si trovarono recipienti che recenti analisi hanno appurato come orci da vino. Mai visti prima dagli archeologi al lavoro in Egitto, ma assai simili ad altri trovati sulla riva est del Mar Morto e in Transgiordania: roba d'importazione, dunque! McGovern fatte le analisi, ha fatto pure i conti: Scorpione I, per la sua vita ultraterrena, si era portato dietro 4.500 litri di vino. Da dove fosse arrivato tutto quel ben di Dio rimaneva, però, un problema.
Nuove indagini vennero fatte per confrontare la terracotta di Abydos con i 4.000 campioni archiviati da un ente che studia la composizione e le provenienze dell'argilla per vasi: nessuna argilla egiziana era stata usata per fabbricarli. Oggi si può dire che - con grande probabilità - quel primissimo vino egizio arrivò proprio dal Levante e che - visto il successo - solo dopo, si cominciarono a piantare quelle vigne nella zona del Delta che l'archeologia e le scene dipinte nelle tombe ci fanno testimoniano.
«In vino veritas» sembra giurarci McGovern grazie agli alambicchi. Revisioni storiche a raffica dalle sue analisi: la provenienza degli Hyksos in Egitto, stanziati a metà del II millennio a.C. nella loro capitale Avaris nel Delta? Non più da Biblos (come si è sostenuto per decenni), ma dalla regioni di Gaza, nella Palestina meridionale: lo attesta proprio l'argilla dei vasi da vino resinato che gemella le due zone. Non più "brocche da birra" quelle filistee, ma da vino: lo giura la chimica. Ed era uno strano "grog greco" (a base di vino resinato, birra d´orzo e idromele) quello che rendeva allegri i Cretesi del Periodo Minoico II, nel II millennio a.C. Tutte cose, queste, che ancora dieci anni fa non si sapevano.
Che il vino sia da sempre un vin santo, si sa. Oggi, però, i suoi prodigi si profilano sempre più chiari: è l'Osiride egizio a pensare ai vigneti; è il Dioniso greco che con il vino ne fa di tutti i colori; vigne e templi si diffondono insieme nell'Iraq meridionale e in mezzo mondo; i re ittiti per benedire un patto o un guerriero spargevano vino, come fosse sangue; ed è proprio a uno di loro, Suppiliuma, in trono nel XIV secolo a.C., che si deve lo slogan «Mangia, bevi e sii felice». Più prosaico il suo collega assiro Assurbanipal II - secoli dopo, quando inaugurò la nuova capitale, Nimrud - lasciò scritto di aver «irrigato le pance» dei suoi sudditi con 10 mila otri di vino e 10 mila coppe di birra.
Arriva dal pantheon di Ugarit un sacrilego cattivo esempio: «Gli dèi bevevano e mangiavano, bevevano vino fino alla sazietà, nuovo vino fino all´ubriachezza». E cos'erano le Dionisìe greche se non feste del vino novello?
«Con i vecchi metodi è stato fatto e continua a essere fatto un ottimo lavoro, ma con essi oggi si può rovinare materiale prezioso!». E - questo di McGovern - anche un altolà all'archeologia tradizionale? Più si va avanti - spiega - e più le nuove tecnologie ci aiuteranno a ricostruire meglio il nostro passato. Basterebbe forse tornare a perquisire - stavolta scientificamente, però, come fa lui - la roba esposta (o sepolta) da decenni nei musei e nei loro depositi. E questa la nuova frontiera della ricerca? Emozionante, entusiasmante, la sua promessa ipertecnologica: «Ci si stanno spalancando interi nuovi capitoli della storia dell'uomo e dell'ambiente».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»