lunedì 13 dicembre 2004

Livia Profeti
«Dalle bandiere arcobaleno ad un nuova identità»

fondazionedivittorio.it 10.12.04
Dalle bandiere arcobaleno ad un nuova identità
Alla ricerca di nuovi valori.
di Livia Profeti



Se è vero che la recente conferma elettorale di Bush - in una contesa che Vittorio Zucconi ha definito la prima “elezione globale” della storia - ha reso se possibile ancor più difficile la situazione di quel composito movimento mondiale che ha cercato di opporsi al concetto di guerra preventiva, è anche vero che questo infausto evento sembra aver avuto una sorta di effetto “risveglio” sul pensiero di sinistra, il quale da troppi anni appariva come crollato insieme al famoso muro.

Recentemente infatti si può cogliere da più parti la denuncia della necessità di nuovi valori in grado di rinnovare quanto meno la passione politica, alcuni però si spingono oltre e ritengono che per poter efficacemente contrastare un’ideologia di destra fondata sulla saldatura tra liberismo sfrenato e fondamentalismo cristiano, la vera sfida che la sinistra ha di fronte è la ricerca di un nuovo pensiero teorico, pena la propria scomparsa in un mondo dominato da questa nuova ideologia.
Anche se con ritardo quindi, almeno una parte della nostra classe politica sembra ora reclamare l’esigenza di una politica dei valori, cioè elementi “passionali”, coniugati però con una ricerca teorica la cui ipotesi attualmente più consistente è che sia il valore della non-violenza a poter costituire il punto di partenza per l’elaborazione di altri valori, i quali siano in grado, senza rinnegare l’originario sogno di trasformazione della società, di riformare, se non addirittura “rifondare” l’identità teorica della sinistra.
In verità quel grande movimento di opinione, forse l’espressione più avanzata del senso comune civile occidentale, aveva cercato di far comprendere in molti modi l’importanza politica della propria idea della non-violenza troppo spesso bollata come velleitaria e utopica, ma il motivo della lenta comprensione da parte della “politica di professione” e di molti intellettuali al suo contorno probabilmente non è una semplice sordità, ma forse affonda le sue radici in una reale difficoltà di separazione da una forma di pensiero che proviene dal razionalismo scientista di un materialismo storico per il quale le dinamiche storico/sociali potevano essere indagate solo dal punto di vista economico, negando di conseguenza l’importanza di qualsiasi valore non materiale relegato all’ambito “sovrastrutturale”.
In ogni caso però il nascente tentativo attuale è comunque di grande interesse, perché se moltissime persone continuano comunque a “sentirsi” di sinistra nonostante il palese fallimento storico del comunismo e lo stato di evidente difficoltà dei nostri vari partiti politici, una ragione di questo senso di identità ci deve pur essere, e forse non è solo storica, ma affonda le sue radici
in un modo di essere, in determinati “valori”. Quali essi siano, se vadano solo compresi o anche scoperti, questa è probabilmente la grande sfida di una sinistra che nel suo cuore, oltre che nella sua testa, continua pervicamente a sentirsi tale.

Una sfida di grande complessità perché le questioni in ballo sono enormi e rischiano di spaventare. Solo per fare qualche esempio esse spaziano da considerazioni quali: come può un’espressione di negazione e privativa come la “non” violenza assumere al contrario il significato costruttivo di un’“azione” politica? Il concetto di “rivoluzione” deve sparire o può trasformarsi se si assume la non-violenza come valore fondante? Qual è la vera natura della violenza e della non-violenza? Esiste solo la violenza dell’oppressione materiale nelle sue varie forme oppure si può parlare anche di una violenza in qualche modo immateriale come quella di una “cultura violenta”, di relazioni tra i due tipi? Può la politica assumere elementi come i valori, tradizionalmente connotati negativamente in quanto irrazionali, senza contemporaneamente mettere in discussione questa stessa connotazione negativa?
Per mettere arbitrariamente e temporaneamente fine all’elenco forse un contributo potrebbe consistere proprio in una riflessione sui valori in quanto tali, perché se la sinistra è da questi che vuole ripartire non può esimersi da una riflessione sulla loro natura e sulla loro presenza nella vita umana.
In tale direzione ritengo che un primo stimolo possa provenire dalle teoria della razionalità di Max Weber, nella quale i valori (o fini in sé) ovvero le passioni, gli affetti, i desideri, gli ideali, le fedi religiose, ecc., hanno infatti un’importanza cardinale e sono elementi completamente irrazionali.

Secondo il fondatore della sociologia il comportamento umano “normale” si svolge per realizzare il perseguimento dei propri valori soggettivi, con pochi calcoli sulle conseguenze che ciò comporta perché questi sono ciò che dà senso alla propria vita e quindi è data loro una validità pressoché incondizionata. Questo primo tipo di “razionalità” detta gli scopi al secondo tipo, quella strumentale, la quale è più “calcolatrice” perché per raggiungere tale scopo si orienta valutando in modo maggiormente oggettivo i mezzi necessari e le loro conseguenze.
Sui valori la razionalità non ha alcun potere né di comprensione né di dominio, anche se essi non sono, in linea di principio, qualcosa di assolutamente inconoscibile in sé. Nell’impostazione weberiana il termine “irrazionale” - elemento perturbante dell’ideale razionalistico dell’agire umano - muta il suo significato tradizionale perché esso non è più qualcosa in cui la razionalità è “carente”, ma qualcosa di assolutamente diverso da essa e più significativo per la vita umana.

Nel rapporto tra valori e razionalità questa appare piuttosto “declassata” rispetto alla Ragione illuministica, perché non soltanto essa non è ciò che definisce un essere umano né i suoi processi storici, ma non è neppure il presupposto della comprensione, perché il comportamento interumano non è interpretabile esclusivamente in senso razionale.
Questa apertura di Max Weber alla dimensione irrazionale si conclude in realtà in modo abbastanza pessimistico, perché sebbene egli sostenga che non è la ragione ma sono i valori a determinare le scelte etiche positive, le dinamiche tra questi sono però caratterizzate da una “lotta” in cui ciascun valore tende ad assumere una posizione di nietzscheana potenza rispetto agli altri, intrinsecamente violenta. Mettendo tra parantesi queste conclusioni che risalgono ormai ad un secolo fa, ciò che è particolarmente interessante delle analisi weberiane non è solo la messa in evidenza del carattere irrazionale dei valori senza la mostrificazione di questo carattere, ma soprattutto la pericolosità dell’agire umano quando questo carattere viene meno. In altri termini, per Max Weber un atteggiamento umano orientato ai valori “può” essere violento, ma un altro in cui i valori siano completamente assenti “sicuramente” lo è, come viene esemplificato con la cosiddetta legge della razionalità crescente, che l’autore considerava un attributo centrale della modernità e che prende corpo a partire dal famoso saggio L’etica protestante e lo spirito del Capitalismo.
Com’è noto in questo saggio viene sostenuto che l’antenato storico della moderna accumulazione infinita di capitali è l’angoscia protestante di vivere in un mondo nel quale non è più possibile “conquistare” la salvezza mediante il comportamento, e quindi il successo economico diventa una forma di consolazione perché interpretato in termini di elezione divina, presagio di beatitudine eterna. Con ciò l’etica protestante imprime un’accelerazione alla svalutazione cattolica del rapporto dell’uomo con il mondo, in quanto oltre all’esistenza terrena ciò che perde valore è anche l’azione umana. In questa nuova condizione esistenziale il legame per così dire “sano” tra valori e razionalità strumentale si allenta, iniziando un processo che si realizzerà compiutamente nel capitalismo moderno, nel quale, scomparso il valore (in questo caso religioso) che animava l’etica calvinista, la ricerca del profitto diventa fine a se stessa, ovvero un semplice scopo finisce con l’assumere il significato di un valore.
Si verifica cioè la famosa inversione dei fini e dei mezzi, e questo determina un predominio di razionalità strumentale nell’agire sociale con conseguente crescita di insensatezza, perché la razionalità strumentale non può essere fine a se stessa, ma deve trovare il suo “senso” fuori di sé, ovvero nella sfera dei valori extra-razionali. L’affermarsi di questo tipo di mentalità è la celeberrima “gabbia di durissimo acciaio” in cui l’evoluzione della cultura occidentale avrebbe finito con il rinchiudere lo stile di vita degli individui, come Weber aveva preconizzato già nel 1901 nel finale del saggio citato.

L’incapacità attuale della “politica di professione” di elaborare progetti che siano in grado di suscitare passioni ha molto a che fare con queste riflessioni weberiane, e l’importanza politica del senso comune avverso a formule astratte e distanti dal sentire quotidiano è stata ben compresa ad esempio dal Berlusconi nostrano, e si è rivelata fondamentale per la sua ascesa. Nel vuoto ideale conseguente alla fine del bipolarismo e nella riduzione della politica a strategie puramente razionali Berlusconi ha avuto la fredda capacità di convogliare la componente passionale degli elettori verso una sorta di sogno. Il problema non è stato tanto nel metodo, quanto nella natura di questo sogno, che sembra essere uscito dal “candido avorio che avvolge d’inganni la mente” piuttosto che “dal lucido corno che virtù incorona”, come ci insegna Omero.
In altre parole, meno poetiche, la politica di Berlusconi non è realmente quella dei propagandati valori di semplicità, schiettezza e persino bontà con la quale egli ha inizialmente sedotto la passionalità di molti dei suoi ingenui elettori. I reali valori di questi - che si può definire ingenui quanto si vuole ma l’ingenuità non è un torto - sono stati lucidamente usati come mezzi per raggiungere weberianamente altri scopi, ma non reali valori. Se la sinistra vuole essere radicalmente diversa da questo brutto gioco di prestigio di breve durata deve cercare e rivendicare i propri valori in modo pulito, rifiutandone nettamente l’uso di stampo berlusconiano.

Per quanto riguarda invece un’idea possibile su “quali” valori c’è un aspetto dell’analisi weberiana che colpisce in senso problematico: se un comportamento sociale freddamente razionale, privo di tensioni morali, si afferma come conseguenza della scomparsa di valori irrazionali, come è possibile che storicamente tale progressiva scomparsa sia scaturita proprio da una mentalità come quella calvinista della quale tutto si può dire tranne che fosse carente di valori, in quel caso religiosi? C’era qualcosa in quei valori stessi che può avere in qualche modo aperto la strada alla loro sparizione?
La questione non è di facile soluzione, l’unica ipotesi che mi sento di avanzare è che tale scomparsa nell’affermarsi della mentalità capitalista sia stata facilitata dalla ulteriore separazione protestante, ancora più netta rispetto all’etica cattolica dalla quale pur deriva, tra la razionalità/materialità dell’azione umana e l’irrazionalità/immaterialità del valore che secondo Weber deve orientarla. E’ come se un irrazionale che nega i suoi legami con la concretezza dell’esistenza umana, pur se presentissimo, contenga in nuce il germe della propria sparizione, oppure, detto altrimenti, forse questo irrazionale non è così nettamente diverso e altro dalla razionalità da non rischiare di perdersi in essa.
Chi non è religioso non pensa che i valori morali siano esclusivo appannaggio della religione, però questa è l’unica forma di irrazionalità sinora tollerata dalla nostra cultura razionalistica, anche se in un precario equilibrio da “separati in casa” che rischia sempre di rompersi perché in passato (ed anche nel presente) questo irrazionale è spesso in contrasto con quella esigenza di libertè della quale possiamo approfondire il senso finché si vuole, ma dalla quale non possiamo indietreggiare. Il valore della non-violenza non sembra in contrasto né con la libertà né con le altre sue due sorelle francesi, ma potrebbe essere anche radicato nella materialità umana in modo tale da svilupparne le potenzialità “etiche” anziché facilitarne la sparizione? La ricerca è appena iniziata, ma se dovessi necessariamente pronunciarmi io opterei per il si.
Livia Profeti.
10 Dicembre 2004
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