giovedì 13 gennaio 2005

Franz Kafka (1883 - 1924)

Corriere della Sera 13.1.05
Una raccolta di aforismi, con alcuni testi mai pubblicati in Italia, per ripercorrere l’opera metafisica di un genio letterario e filosofico

Schegge di ordinaria vertigine. Firmate Kafka
di Mario Andrea Rigoni

Forse il maggiore equivoco che abbia aduggiato l’interpretazione di Kafka - assai oltre l’apparizione di alcuni saggi capitali di Maurice Blanchot già alla fine degli anni Quaranta - è stata la ricerca ossessiva del significato della sua opera, ricondotto nell’ambito ora della teologia, ora della religione, ora dell’ateismo, ora della psicanalisi, nella totale trascuranza non solo delle intenzioni dell’autore, che dichiarava di non voler essere altro che uno scrittore, ma anche della pura lettera dei suoi testi. In questo senso, uno dei suoi racconti più celebri e più tipici, la leggenda del messaggio dell’imperatore contenuta ne La costruzione della muraglia cinese , dice tutto: il messaggio imperiale, del quale ignoriamo il contenuto e il fine, non arriva mai al destinatario, perché si perde nell’attraversamento dell’interminabile labirinto del mondo. Ciò non vuol dire che dall’opera kafkiana non si irradii una potente luce metafisica, perché anzi ogni personaggio, episodio e figura vi sono immersi fino alla più intima fibra, ma soltanto che la sfinge dell’esistenza non cede mai il suo segreto, esattamente come avviene nei miti. Dato che la letteratura è per Kafka, come il mondo, mito ed enigma, enigma del mito e mito, ossia racconto, dell’enigma, essa non potrà assumere altra forma che quella del frammento: l’unità e la totalità, come la trascendenza, non si affermano se non per via di negazione, perché ciò che resta al di là di tutti gli assalti prometeici della conoscenza è soltanto «la roccia inesplicabile».
Ma lo scrittore ha lasciato anche frammenti e aforismi nel senso specifico del termine, schegge vertiginose di riflessione che hanno tuttavia lo stesso statuto, la stessa essenza della sua opera narrativa. Essi sono adesso tutti raccolti, insieme con appunti, abbozzi di lettere, di discorsi e di racconti, in un volume edito dalla Bur con un utile indice cronologico e tematico. Progettato da Ferruccio Masini, del quale reca un’introduzione, esso è stato portato a termine, dopo la scomparsa dello studioso, a cura di Giuliano Schiavoni, che si è avvalso filologicamente dell’edizione critica stampata in Germania nel 1992-93 e che pubblica anche alcuni testi mai apparsi finora in Italia ( Aforismi e frammenti , traduzione di Elena Franchetti, pagine 620, 9).
Percorrendo le «Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via», ossia i cosiddetti «aforismi di Zürau», che aprono la raccolta e che sono stati recentemente ripubblicati anche da Adelphi, si fanno incontro incessantemente lampi ora oscuri ora abbaglianti, provenienti dalle vette della meditazione occidentale, come questo: «Puoi mai conoscere qualcosa che non sia inganno? Se l’inganno dovesse un giorno venire demolito, bada di non guardare da quella parte o diventerai di sale». Oppure questo: «La verità è indivisibile, quindi non può riconoscere se stessa; chi vuole riconoscerla deve essere menzogna».
L’inganno lambisce anche la morte, che sarebbe la nostra salvezza, se segnasse una vera fine; ma, mentre il dolore della morte è reale, la fine è solo apparente, perché il gioco rimane aperto e a esso siamo condannati anche sull’ultima soglia, come si legge in una serie di aforismi del quarto de «Gli otto quaderni in ottavo». L’ineluttabilità dell’esistenza e la negazione dell’aspirazione o del diritto alla morte è un tema che troverà importante sviluppo nell’esegesi di Blanchot e che concerne l’essenza tanto della letteratura quanto della realtà. Si procede di enigma in enigma, di abisso in abisso, ugualmente lontani dall’origine e dalla meta: ma questo è il mondo, e innanzitutto il mondo kafkiano. Roberto Calasso in K. , il suo recente, ed eccellente, libro su Kafka (che l’edizione Bur ha il torto incomprensibile di non citare nella bibliografia, nella quale d’altronde non figurano neanche gli scritti di Blanchot e di Canetti), osserva: «Certamente non è accaduto, come alcuni continuano a sostenere, che il religioso o il sacro o il divino siano stati sgretolati, dissolti, vanificati da un agente esterno, dalla luce dei Lumi. Ne sarebbe risultato un mondo fatto da funerali laici, nel loro tremendo squallore. È accaduto invece che il religioso o il sacro o il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno», che è pura potenza o puro gesto e, come tale, non può essere nominato.
L’esperienza o almeno la percezione dell’indistruttibile è innegabile, ma come uscire dal dilemma che prospetta uno degli aforismi di Zürau: «Se ciò che nel Paradiso si dice sia stato distrutto era distruttibile, allora non era un fatto decisivo; se invece era indistruttibile, allora viviamo in una falsa fede»?
L’opera di Kafka è l’interminabile indugio talmudico su quella speranza che esiste indubbiamente, ma non per noi, come lo scrittore ebbe a dire nei mirabili Colloqui con Januch , perché - è un altro aforisma del terzo de «Gli otto quaderni in ottavo» - «Il Messia verrà solo quando non è più necessario, verrà solo dopo la sua venuta, non verrà l’ultimo giorno, ma l’ultimissimo».