giovedì 20 gennaio 2005

storia
un dossier della Stampa su Auschwitz

La Stampa 20 Gennaio 2005
Elie Wiesel all’Onu


La tragedia dell’Olocausto sarà ricordata lunedì prossimo in una sessione speciale dell’Assemblea Generale dell’Onu, su richiesta di Usa, Ue, Russia, Canada, Australia e Nuova Zelanda, appoggiata da diversi paesi arabi. Il discorso principale sarà teneto dal premio Nobel per la pace Elie Wiesel, sopravvissuto di Auschwitz.

CREDERE L’INCREDIBILE
di Barbara Spinelli


NOI non sappiamo che cosa sia realistico o non realistico: noi qui stiamo morendo tutti! Vai a dire questo!». Con queste parole Leon Feiner, attivista dell’organizzazione Jewish Socialist Bund, si accomiatò da Jan Karski nel '42, dopo l'invasione nazista della Polonia. Era ormai chiuso nella trappola che Varsavia era divenuta per gli ebrei, e Karski era la sua unica speranza. Karski era un diplomatico polacco, cattolico, che nel ’41 era entrato clandestinamente nel Paese occupato e aveva visto l'essenziale: il ghetto di Varsavia, il campo di sterminio di Belzec alla frontiera con l'Ucraina, le stelle gialle, l'uccisione per le strade di donne, bambini. Era un testimone prezioso e fu incaricato di raccontare gli eventi a Londra e in America, mostrando i filmati presi nella spedizione. Non fu ascoltato, se non da pochi. Non gli credette nessuno, tranne qualche spirito profetico. Fu così sempre, nei genocidi del XX secolo.
Dopo aver letto il rapporto di Karski e visto i suoi film, Ignacy Schwarzbart in nome del Consiglio nazionale polacco di Londra inviò un telegramma al Congresso Ebraico Mondiale, alla fine del ’42: «Ebrei in Polonia quasi completamente annientati - STOP - A Belzec costretti scavare loro tomba suicidio di massa centinaia di bambini gettati vivi in canali di scolo - STOP - Ebrei nudi trascinati camere della morte - STOP - Migliaia di vittime quotidiane intera Polonia - STOP - Credere l'incredibile - STOP».
Credere l'incredibile: ecco la frase che spiega tanti misteri, nelle reazioni del mondo a Auschwitz. Che spiega il silenzio, l'indifferenza delle democrazie, dei maestri di pensiero e di religione. Furono numerosi perfino gli ebrei, a non credere: negli Stati Uniti, Karski non riuscì a smuovere Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema, e Isaiah Berlin - nel '42 lavorava all'ambasciata britannica di Washington - non vedeva più di un pogrom, una persecuzione abituale. Stessa reazione l'ebbero dirigenti sionisti come Nahum Goldman, Chaim Weizmann, David Ben-Gurion. Scrive la studiosa Samantha Power, in un libro esemplare, che i rappresentanti della civiltà vivevano in «un crepuscolo tra il sapere e il non sapere» (Voci dall'Inferno, Baldini Castoldi Dalai 2004).
Questo era dunque il contesto, in cui i contemporanei di Auschwitz pensavano, operavano, prima della liberazione dei campi sessant'anni fa. Questa la sensibilità ottenebrata, la mancata percezione del carattere inedito dell'orrore: il contesto è qualcosa che gli storici non possono ignorare, e che secondo molti giustifica silenzi e omissioni non solo durante, ma dopo lo sterminio. Lo si è potuto constatare nell'avvincente dibattito aperto dal Corriere della Sera su Pio XII e l'ordine, nel '46, di non restituire alle famiglie i bambini ebrei salvati e battezzati durante il genocidio.
La storia non si giudica con il metro del presente, è stato detto. E certamente non possiamo ignorare tutti quegli ingredienti (il contesto appunto, o come si dice oggi il comune sentire, l'orientamento largamente diffuso all'epoca dei fatti) che sono la stoffa di cui da sempre è fatto il Zeitgeist, e cioè quello spirito dei tempi teorizzato da Hegel e descritto da Goethe come «predominio» di un pensiero che «s'impossessa delle masse» e non tollera pareri contrari. Karski e altri non furono ascoltati, e tale era il Zeitgeist degli Anni 30 e 40. Lo era per vari motivi. Perché le sovranità degli Stati erano intangibili, e la lotta a Hitler era contro la sua espansione militare. Il crimine era talmente inconcepibile da sembrare non possibile. Gli ebrei erano stati perseguitati tante volte, e non si vide lo strappo. Ma soprattutto non c'era un nome, per dirlo. Il crimine era non solo inconcepibile ma ineffabile, dunque condannato a restare nel crepuscolo tra dire e non dire, agire e non agire.
Il richiamo allo Spirito dei Tempi si comprende, ma non è in realtà di enorme aiuto. Quel che avvenne durante il genocidio e dopo chiarisce il perché di tante rimozioni (compresa la rimozione in Israele; compresa la rimozione favorita dai comunisti in Est Europa: nei Lager le lapidi tacitavano il martirio degli ebrei, giudicato secondario rispetto a quello dei comunisti), ma è utile più per una cura di guarigione dopo il delitto, che per una cura che lo scongiuri. La questione davvero cruciale è un’altra, e la lezione di Auschwitz non concerne tanto l'espiazione-riparazione quanto la prevenzione. Come dice Freud criticando Dostoevskij: quel che conta nell'etica è evitare di fare il male, non anelare a lacerate espiazioni. E la memoria giova se salvaguarda i due ricordi: come si patì l'orrore e lo si pensò dopo, ma anche come fu intuito e ritenuto scongiurabile prima, se testimoni e moniti fossero stati ascoltati. Di questo gli storici non si occupano molto, anche perché la figura del testimone non ha sempre diritto di cittadinanza nei loro archivi.
Eppure è questo che può aiutare a capire, ad agire: la rievocazione degli allarmi che furono lanciati da un certo numero di illuminati. Lo studio del loro carattere, del loro metodo. Esaminando le opere di chi seppe dire l'orrore, si apprende una grande lezione: non è necessaria una vista specialmente acuta, né occorre attendere di avere un'idea sulle idee del genocidio (questo il significato di vocaboli improbi come concettualizzazione, contestualizzazione della Shoah). È sufficiente avere una quantità modica di decenza, non influenzabile dalle circostanze. E per istituzioni come il Papa di Roma, è sufficiente - lo ricorda Claudio Magris - rammentare che la Chiesa non è figlia del Zeitgeist ma difende «verità ritenute immutabili». L'antigiudaismo tradizionale che allignava nel cristianesimo aveva creato un clima favorevole all'antisemitismo hitleriano ma non aveva a che fare con Auschwitz.
Qualcosa di nuovo era apparso in Europa, un antisemitismo che non spingeva gli ebrei né a convertirsi né a fuggire ma che li chiudeva in spazi chiusi e li annientava. E il nuovo che irrompe nel presente, solo uno sguardo profetico può intuirlo: non perché il profeta anticipi l'avvenire, ma perché sa descrivere il presente. Solo i profeti e i vigili hanno quel che serve: non una visione storicizzata dell'etica ma un'immaginazione morale, e la capacità di dare un nome all'Inferno. Non mancarono uomini simili, dotati di fantasia etica. Basta ricordare due nomi, a parte Karski.
Il primo è Arnold Schönberg: nel libro Un Programma in Quattro Punti per l'Ebraismo, scritto fra il '33 e il '38, il musicista fa la lista meticolosa degli ebrei minacciati da Hitler che vivono in Germania, Austria, Europa centro-orientale: «C'è posto nel mondo per circa 7 milioni di persone? O questi milioni sono condannati alla finale rovina? A divenire un popolo estinto, affamato, macellato?». Schönberg fa capire che non l'eroismo s'impone. Basta un po' d'anticonformismo, ed essere «osservatori svegli, realistici». Così l'immaginazione morale si mette a servizio del realismo, solitamente evocato per giustificare omissioni. Schönberg aveva visto montare l'antisemitismo nuovo fin dai primi Anni 20, in Austria.
Il secondo è Raphael Lemkin, un giurista polacco che dopo il genocidio degli armeni nel '15 aveva capito quale disastro può nascere da crimini prima non visti, poi impuniti. Poco prima di invadere la Polonia, Hitler aveva rassicurato così i comandanti del proprio esercito: «Chi ricorda ancora, oggi, il genocidio degli armeni?». Nessuno lo ricordava perché non esisteva ancora un nome per simile crimine, e solo il nome poteva fondare secondo Lemkin una giurisprudenza internazionale. Il 24 agosto '41, mentre i nazisti avanzavano in Russia, Churchill aveva detto alla Bbc: «Interi distretti vengono sterminati, migliaia sono le esecuzioni a sangue freddo. Dall'invasione dei Mongoli non s'è visto un mattatoio simile. Siamo in presenza d'un crimine senza nome».
Grazie a Lemkin, il crimine senza nome riceverà invece un nome, già nel '43: genocidio. E una volta trovato il nome si potrà poi legiferare. Nel '48, l'Onu approva una Convenzione sul genocidio, e a Norimberga il reato di cui saranno accusati i nazisti sarà genocidio. Negli Anni Cinquanta si troverà il nome di Olocausto (lo storico ebreo Poliakov nel '51, lo scrittore cattolico Mauriac nel '58). Poi, sulla scia del film di Claude Lanzmann, si parlerà di Shoah.
Dare un nome è cruciale, se si vuol far fronte agli stermini prima che succedano. Per Ruanda e Bosnia non si volle usare la parola genocidio, perché la convenzione Onu comporta il dovere d'intervento. Anche l'annientamento con armi chimiche di circa 100.000 curdi iracheni nell'87 non fu chiamato genocidio. Furono le amministrazioni Reagan e Bush senior a opporsi, perché Saddam era allora un prezioso alleato. Divenne nemico da abbattere quando stava diventando, grazie a ispezioni e sanzioni, nella sostanza innocuo.
Il motivo per cui contano più i prodromi che la successiva elaborazione della colpa è che nel futuro varrà la pena prevenire ecatombi simili, piuttosto che trovare il modo più eccelso di piangere i morti. Per far questo, bisogna non solo dare il nome al delitto, come ha fatto Lemkin, ma riscrivere un intero vocabolario, a partire dall'esperienza di Auschwitz. Bisogna ridefinire la classica politica di potenza e dunque la sovranità assoluta degli Stati, stabilendo che essi non possono fare qualsiasi cosa sul proprio territorio. Bisogna avere l'immaginazione morale atta a dire l'indicibile, l'incredibile. Non bisogna dare colori metafisici agli eventi: Auschwitz è uno sterminio di popoli (ebrei, polacchi, zingari); non è né un misterico sacrificio (un Olocausto) né un'esperienza che riguarda solo gli ebrei. E non sono coinvolti solo etnie ma modi di essere, di vivere (malati mentali, omosessuali). Bisogna rivedere il concetto di comune civiltà umana, liberandola dagli unanimismi: la civiltà umana, dice Ignatieff, è unita nella coscienza della propria diversità. Nessun essere sulla terra si differenzia come gli uomini (per colore di pelle, religione, stili di vita), ed è questo il tesoro da salvare.
È perché non c'è ancora questo vocabolario che tanti tabù, legati a Auschwitz, rischiano oggi di cadere. Tra questi: l'eugenetica; o la tortura dei prigionieri di guerra, costretti a denudarsi e a vedersi umiliati nella propria religione (Abu Ghraib). Torna infine il bisogno di capro espiatorio: il bisogno di individuare categorie nemiche, per appartenenza religiosa o modi di vita.
Come dice Ignatieff, il genocidio comincia con la promessa di creare un mondo senza diversi, senza nemici, fatto di gente tutta eguale. Comincia con un'utopia, e quest'utopia mortifera è dentro ciascuno di noi. E siccome l'utopia è dentro di noi, e l'orientamento diffuso tra la gente e i politici tende negli ultimi tempi a assecondarla, Auschwitz è sempre di nuovo possibile.

La fabbrica di morte
dove le vittime diventano carnefici
di Giovanni De Luna


TRATTENERE la memoria della Shoah, impedire che fugga via dai nostri ricordi, sepolta sotto le macerie del Novecento, travolta dalla smania di archiviare in fretta «il secolo degli orrori». Non è facile. Sono troppi gli «eccessi» novecenteschi ambientati in scenari di violenza e di morte: i milioni di «uomini di marmo» inghiottiti nel gulag, i corpi dissolti dai lampi acceccanti di Hiroshima e Nagasaki, le vittime dei bombardamenti di Dresda e Amburgo, che bruciavano nel fosforo delle bombe alleate.
Sempre, in tutti questi casi, il Novecento ha messo in scena una violenza eccessiva, sproporzionata rispetto ai risultati che si volevano ottenere; e tuttavia questi scopi erano in qualche modo riconoscibili; per quanto perversa, c'era comunque una logica strategico-militare dietro l'uso dell'atomica o dei bombardamenti contro i civili, così come c'era nell'ossessione produttivistica che alimentava il delirio totalitario dello stalinismo. Nello sterminio degli ebrei deciso dai nazisti c'era invece esclusivamente un progetto totale di morte: ed è questa unicità che lo rende per sempre «un passato che non deve passare».
Quale che sia la configurazione assunta dagli altri orrori novecenteschi, solo Auschwitz fu concepito e realizzato come una fabbrica di morte. Vista dall'esterno, la sua struttura sembrava quella di un gigantesco opificio, al cui interno funzionava una catena di montaggio ispirata al modello della tayloristica divisione del lavoro. Il convoglio dei condannati arrivava alla banchina di mattina; il pomeriggio, erano già stati uccisi e i vestiti immagazzinati. I morti venivano caricati su vagoncini ribaltabili e trasportati alle fosse comuni. All'inizio non c'erano forni crematori. Nella primavera del 1942, tuttavia, i cadaveri vennero disseppelliti e bruciati. Le prime uccisioni col gas si registrarono nel settembre 1941 nella cantina del blocco n. 11 del Lager principale. Nel 1942 ci si spostò a Birkenau, trasformando in camere a gas due case coloniche situate in un boschetto ai limiti del campo.
Le quattro grandi fabbriche della morte vere e proprie entrarono in funzione tra il marzo e il giugno del 1943: ogni unità era fornita di stanze per la svestizione dei deportati, di vani (camufatti da docce) in cui avveniva l'esecuzione immettendo ossido di carbonio o acido cianidrico, di fornaci per l'incenerimento dei cadaveri. Dopo le esecuzioni, si azionavano i ventilatori per aerare le camere, si toglieva il catenaccio dalla porta e le squadre degli addetti entravano per innaffiare i cadaveri con spruzzi d'acqua e poi trascinarli fuori. I corpi non giacevano sparpagliati, ma erano accatastati l'uno sull'altro. Il gas fatto penetrare dall'esterno era letale prima all'altezza del suolo e raggiungeva gli strati d'aria superiori solo poco alla volta. Perciò quegli sventurati si calpestavano a vicenda, tentando di arrampicarsi l'uno sull'altro; più in alto si arrivava, più tardi si moriva. Quelli che si erano trascinati fino alla porta e non erano ancora morti venivano uccisi a colpi di pistola al momento dell'ingresso delle SS nella camera a gas. Successivamente si trasferivano i corpi in altri locali fino ai «banchi di sfruttamento», dove agivano i dentisti (strappavano i denti d'oro e il piombo delle protesi), i barbieri (tagliavano i capelli) mentre i fuochisti continuavano a riempire i forni. Quando i morti erano trasformati in cenere, le camere a gas e le stanze di svestizione venivano ripulite per ospitare i componenti della tradotta successiva.
Il ciclo di lavorazione non era ancora finito. Già a quello stadio aveva comunque prodotto le sue merci. Quando gli Alleati giunsero ad Auschwitz, all'interno dei sei magazzini che restavano ancora in piedi i liberatori trovarono 348.820 abiti da uomo, 836.255 vestiti e cappotti da donna, 5.525 paia di scarpe da donna, 13.964 tappeti, montagne di vestiti per bambini, occhiali, pennelli da barba e protesi dentarie. Nell'area della conceria erano depositate sette tonnellate di capelli. E non bastava. Le vittime erano state uccise, ma i loro corpi non trovavano ancora pace. Ci fu sempre un accanimento maniacale nel distruggerli, nel farli scomparire. Dopo essere stati bruciati, le ceneri venivano sminuzzate, triturate fino a ridursi a una polvere impalpabile. Questa ossessione lascia emergere un'altra delle specificità assolute del Lager: i nazisti si impegnarono consapevolmente a non «lasciare nessuna traccia», a fare sparire qualunque resto. «Non si pronuncerà il kaddish» aveva detto Goebbels nel suo discorso analizzato da Hannah Arendt nel 1942, «cioè vi uccideremo senza resti e senza memorie».
C'era però un punto debole in questa strategia che coniugava sterminio e oblio. Esattamente come per la catena di montaggio della fabbrica fordista, risiedeva nel punto di frizione tra l'organizzazione del lavoro e i lavoratori. Nessun operaio di mestiere, in questo caso, e nessun sindacato, ma una manodopera altrettanto specializzata, le cui mansioni erano stabilite all'interno di una delirante tabella produttiva e le cui forme di reclutamento e selezione attitudinale aggiungevano solo orrore a orrore. Le «squadre speciali» (Sonderkommando) dei campi di sterminio erano composte da deportati (soprattutto ebrei) incaricati di eseguire le funzioni legate al processo di messa a morte dei loro compagni; per Primo Levi furono «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo», il tentativo di «spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti». Erano tutti destinati a essere uccisi. Le SS non lasciavano testimoni, soprattutto quei testimoni; la cancellazione del crimine era importante quanto il crimine stesso.
Ma proprio in questi uomini dannati a veder morire i loro cari, ad aiutare gli aguzzini nelle loro stragi, a intervenire sui corpi dei morti in pratiche fino ad allora inconcepibili, scattò la scintilla della rivolta. Penso al terribile «Nessuno vi crederà» che le SS gridavano ai prigionieri per privarli anche di quell'«appello alla storia» che era la loro unica speranza di vendetta. Direttamente contro il cuore di tenebra di questa strategia i membri del Sonderkommando scagliarono le armi della loro disperazione, con tutta la forza che attingevano all'odio per i loro carnefici. Ecco perché consegnarono talvolta le loro testimonianze al segreto della terra: gli scavi effettuati intorno ai forni di Auschwitz hanno rivelato - spesso molto tempo dopo la Liberazione - scritti sconvolgenti, quasi illeggibili, di questi schiavi della morte. Bottiglie nella terra, in un certo senso, tranne che non avevano sempre una bottiglia dove conservare il loro messaggio. Nella migliore delle ipotesi, una ciotola di metallo.
«Questo l'ho scritto nel periodo in cui mi sono trovato nel Sonderkommando. \ Ho voluto lasciare, con molti altri appunti, un ricordo per il mondo futuro di pace, affinché si sappia quel che è successo qui. L'ho sotterrato nelle ceneri, pensando che era il posto più sicuro, che vi scaveranno di certo, per trovare le tracce di milioni di uomini scomparsi. \ Cercatore, scava ovunque, in ogni pezzetto di terra. Vi sono nascosti i documenti miei e di altre persone, documenti che gettano una luce cruda su tutto ciò che è successo qui. Siamo noi, gli operai del Sonderkommando che li abbiamo disseminati in tutto il terreno, per quanto abbiamo potuto, affinché il mondo trovi tracce palpabili dei milioni di uccisi. Anche noi abbiamo perduto la speranza di vivere fino alla liberazione».
Furono tutti uccisi, ma i loro messaggi hanno permesso alla memoria di sconfiggere l'oblio.

Feste e benessere
con vista sull’orrore
di Mirella Serri


IL Capodanno del 1943 fu particolarmente piacevole all'albergo Rasthof affollato di SS e relative famiglie. Per intrattenere gli ospiti erano arrivati appositamente da Vienna un comico, un presentatore e un gruppo di attrici: lo champagne scorreva a fiumi e non mancavano paté e cibi prelibati. Le tavolate straripavano di incontenibile allegria. Auschwitz, in quegli anni di guerra, conosceva un momento di splendore e di benessere. Ma intanto, anche in quella notte di festa, a pochi metri di distanza, stridendo sui binari, si fermavano i treni «speciali» per il Lager che scaricavano i deportati ebrei a cui - ironia della sorte - veniva estorto perfino il prezzo del biglietto verso la morte, 4 pfennige per gli adulti, 2 per i bambini mentre ai soldati che li scortavano le ferrovie tedesche applicavano lo sconto per comitive. La storia del più grande campo di sterminio, dove morirono oltre un milione di persone, fino a oggi non è mai stata integralmente ricostruita: ora viene ripercorsa dal minuzioso e dettagliato racconto di Sybille Steinbacher intitolato, appunto, Auschwitz, che uscirà a giorni da Einaudi.
È nella primavera del 1941 che si avvia la «rinascenza» economica e culturale dell'ex Oswiecim, la cittadina polacca che, dopo essere stata occupata dai nazisti, è considerata uno degli avamposti dello Stato nazionalsocialista. È la I. G. Farben, industria produttrice di materiali bellici, che ne fa la fortuna decidendo di impiantare una nuova fabbrica nei pressi del Lager comandato dal feroce Rudolf Höss. La Farben si installa a soli sette chilometri dal campo di sterminio e non è l'unica industria a fiutare l'affare dell'utilizzo di schiavi-operai: come api sul miele, si gettano sul mercato dello sfruttamento fino alla morte dei detenuti la società mineraria e metallurgica Teschen, l'Azienda fornitrice di Energia Alta Slesia, la Freidrich Krupp e tante altre ancora in un elenco ben nutrito.
Auschwitz diventa così nei progetti del Reich una città-modello: a un prestigioso architetto, Hans Stosberg, viene commissionato lo sviluppo urbano in modo da attirare lavoratori specializzati, professionisti, imprenditori. Nelle baracche del campo di sterminio l'orrore non conosce limiti ma ad Auschwitz fioriscono residenze spaziose e accoglienti, dotate di elettrodomestici, riscaldamento e lavanderia centralizzata, scuole (ben dodici), stadi con piscine e campi sportivi, e un teatro dove per le SS più volte la settimana vengono eseguite ottime rappresentazioni teatrali e concerti.
L'immigrazione è notevole e da settemila si raggiungono i 55 mila abitanti. Vivono e prosperano tutti all'ombra del campo di concentramento e fingono di ignorare - insieme con i dipendenti delle ferrovie nei cui ranghi in questi anni non si registrerà alcun caso di licenziamento - di che natura sia l'odore dolciastro che proviene dai forni crematori e di chi siano i cadaveri che ogni giorno si ritrovavano lungo i binari. Un mistero che si chiarirà quando nel pomeriggio del 27 gennaio 1945 i soldati della LX Armata del primo fronte ucraino entreranno finalmente ad Auschwitz e troveranno circa settemila sopravissuti e anche sette tonnellate di capelli umani già imballati e pronti per essere spediti.

1959, Levi risponde alla figlia di un fascista,
che chiede la verità
SU «SPECCHIO DEI TEMPI» APPARE LA LETTERA DI UNA TREDICENNE COLPITA DALLE IMMAGINI DI UNA MOSTRA SULLA DEPORTAZIONE
LO SCRITTORE LE SPIEGA CHE IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI IN QUESTO CASO È UN ERRORE ANZI QUASI UN DELITTO:
PUÒ MASCHERARE QUELLO COLPEVOLE DEI RESPONSABILI, DIFFERIRE E ELUDERE IL GIUDIZIO STORICO
di Alberto Cavaglion

TRA decennale della Liberazione (1955) e centenario dell'Unità (1961) si svolge in Italia, e segnatamente a Torino, una discussione che merita di essere ricostruita. Oggetto del contendere è la Resistenza: ci si chiede se sia lecito definirla un «secondo Risorgimento». Nel 1961 il dilemma troverà una sua niente affatto pacifica collocazione in una sala dedicata alla guerra partigiana dentro il Museo del Risorgimento di Torino. Schiacciato fra questi due contendenti non muniti della stessa forza (a quell'epoca la Resistenza fungeva da traino per la memoria collettiva) inutilmente s'affanna un convitato di pietra, che nessuno vuole ascoltare: il Deportato. Che spazio gli viene dato in questi musei e in questi studi? Scarso, del tutto occasionale. Solo dopo il processo Eichmann (1961), in Italia come in Francia, s'inizierà a parlare di Shoah. Oggi esiste una Giornata della Memoria, ma spesso dimentichiamo che la memoria di Auschwitz ha faticato non poco a farsi riconoscere un diritto di cittadinanza dalla storiografia.
A Torino la discussione si anima intorno ad alcune esposizioni, che danno origine a conferenze, opuscoli, articoli di giornale. Oggi, su questo interessante periodo si sta iniziando a lavorare con molta serietà: penso in particolare, per la memoria della Shoah in Italia, ma soprattutto, per una visione comparativa, agli studi che di qua e di là delle Alpi stanno realizzando Elisabetta Ruffini e Paola Bertilotti.
Il 28 maggio 1955, nella solenne sede di Palazzo Madama, s'inaugura una mostra sulla Resistenza; alla deportazione viene riservato un solo pannello, uno scarno disegno. C'è da ritenere che Levi abbia espresso il suo rammarico, tanto è vero che qualche settimana dopo la città di Torino, dedicando alla mostra di Palazzo Madama e al decennale della Resistenza un numero monografico della sua rivista ufficiale, chiede a Levi un articolo che è uno dei suoi primi e più intensi (Deportati. Anniversario). Nell'attesa lo scrittore lavora alla revisione di Se questo è un uomo, vi aggiunge un capitolo (Iniziazione), muta non poco lo stile. Ma il tempo passa e perché le cose riprendano a muoversi si deve attendere l'estate del 1959 quando il libro viene finalmente ristampato da Einaudi.
Il ritorno in libreria non avrà la stessa risonanza che qualche mese dopo avrà una seconda mostra, questa volta incentrata sulla deportazione e allestita, senza però la solennità dell'altra, al piano terra del Palazzo Carignano, nelle sale dell'Unione Culturale. Vi sono esposti non più soltanto un disegno, ma alcune decine di fotografie, qualche cimelio, una casacca, una gamella, un cucchiaio.
La mostra era stata allestita già nel 1955 del decennale della Liberazione, ma per iniziativa del sindaco di Carpi, Bruno Losi, deciso a onorare la memoria del campo di Fossoli, il grande campo di transito vicino a Modena, dove fu prigioniero lo stessi Levi. A Torino arriva alla fine di un periplo che dura quasi quattro anni, ma qui conosce un successo di critica, che non ha avuto altrove. Marziano Bernardi ne scrive in termini entusiastici sulla Stampa del 17 novembre, Luigi Carluccio sulla Gazzetta del Popolo. Visto il successo l'Unione Culturale organizza conferenze di approfondimento, ad una di queste Levi fa la sua prima uscita in pubblico. Agli incontri di dicembre partecipano: Alessandro Galante Garrone, Bruno Vasari, Sergio Sarri, Lidia Beccaria Rolfi, Franco Davide, Giovanni Floris, Alberto Todros, Norberto Bobbio, Raimondo Luraghi e altri. La mostra, per il suo contenuto, produce l'effetto di una scossa. Alla rubrica di Specchio dei tempi giungono decine e decine di lettere di visitatori colpiti soprattutto dalla durezza di quelle immagini raccapriccianti.
Fra i molti messaggi giunti in redazione vi è il piccolo carteggio fra una bambina senza nome e lo stesso Levi. Dei due scritti, paradossalmente, quello della ragazzina colpisce la nostra curiosità più della replica di Levi (finora sfuggita ai suoi critici e non inserita nella sua bibliografia). Come sempre Levi trova l'equilibrio giusto fra fermezza e disponibilità ad ascoltare, ma a rileggere il breve dialogo, colpisce soprattutto il coraggio di chi non esita a definirsi «figlia di un fascista che vorrebbe sapere la verità». «È la lettera che attendevamo», risponde Levi, sperando che l'innocenza, finalmente, riesca a scuotere l'indifferenza davanti a quei suoni provenienti dal sottosuolo.
Tredicenne nel 1959, la bambina di allora dovrebbe avere oggi una sessantina di anni. Mutato di molto l'orizzonte delle sue e delle nostre conoscenze che cosa penserà della sua sincera sorpresa di allora?

Le SS ci guardavano
per loro eravamo
come gli scarafaggi

di Massimo Numa

SESSANT’ANNI dopo Auschwitz. Nedo Fiano, 80 anni, fiorentino residente a Milano, è uno dei pochi ebrei italiani sopravvissuti al campo di sterminio («Non sono rimaste più di quindici persone, oggi», dice commosso). In questi giorni è impegnato ovunque in una serie innumerevole di incontri: scuole, centri culturali, varie associazioni. Ogni volta racconta l’Olocausto vissuto sulla pelle, ripetendo - spiega - le stesse parole, gli stessi accenti. Ripercorrendo come in trance lo stesso dolore. Un modo estenuante di mantenere viva la memoria. Ma, invece di sentirsi rassicurato, il dottor Fiano - che è un combattente nato - è in preda a un crescente senso di inquietudine. Come se i decenni passati, nella coscienza di molti, specie nei più giovani, avessero lentamente dilavato il segno unico e profondo dell’Olocausto. «La ritualità, ecco. Il pericolo di trasmettere alla società di oggi quasi il senso di una “memoria obbligata”, mentre attorno a noi sembrano riemergere, in tutta Europa, le antiche ombre dell’antisemitismo», dice. Le vicende medio-orientali hanno trascinato Israele nel vortice di un odio che unisce le due estreme, destra e sinistra. Il newswire di Indymedia, il sito degli antagonisti, vomita ogni giorno post carichi di un odio che va ben oltre alle critiche (legittime) allo Stato di Israele. Il termine «nazisionisti», per esempio, è condiviso, martellante, ripetuto sino alla nausea.
Fiano: «E’ una situazione che ci rattrista immensamente; fa riflettere anche sul significato del “giorno della memoria” qui, nel cuore dell’Occidente. Ma non importa. Continueremo a raccontare Auschwitz, a ripetere con le stesse parole ogni minuto particolare del lager». Difficile aprire varchi nuovi nella sensibilità collettiva per spiegare Auschwitz, che è il «non luogo» per eccellenza, dove - nella parte delle SS - recitano i «non uomini». Il pensiero deve partire da questo punto».
Nel suo lungo racconto, lui che parla perfettamente il tedesco, ama sottolineare le sfumature che solo chi era in grado di conoscere la lingua dei «non uomini» era in grado di cogliere subito, appena sceso sulla banchina della stazione del campo. Aveva 19 anni, erano i primi di giugno 1944: «...I nazisti ci guardavano come fossimo stati degli scarafaggi. E come per gli scarafaggi, nessuno prova ritegno a schiacciarli, così era per noi. Il nazista disse che aveva bisogno di qualche interprete. "Chi parla tedesco?" chiese. Ero impietrito, immobile. E proprio quando pensavo che questo esame fosse finito, ho sentito una spinta sulla schiena, una mano che mi mandava avanti a offrire la mia disponibilità d’interprete. Eravamo dei privilegiati, lavoravamo sulla banchina d’arrivo della stazione di Auschwitz-Birkenau».
Il «non luogo», sessant’anni dopo, va raccontato in ogni dettaglio. Il distacco, l’analisi storica, Fiano li ha dentro di sé. Ma è di nuovo sulla banchina di Birkenau-Auschwitz, mentre fa il suo lavoro. Cioè, accogliere i deportati che arrivano da tutta Europa. «Avevamo lavorato duro per trasferire sui camion centinaia di valigie, mentre i nostri occhi vagavano con partecipazione tra quella povera gente impaurita, che sarebbe stata gassata e cremata nel giro di poche ore. “Dove siamo? Dove ci portano? Cosa ci faranno?”, erano le domande angosciate di ognuno. “Non vi accadrà niente. State tranquilli, andrete a fare una doccia. Coraggio!”. Malgrado cercassimo di tranquillizzarli, potevamo forse dir loro la verità? A cosa sarebbe servito?».
Ad accogliere queste persone sulla soglia della camera a gas c’era fra gli altri Shlomo Venezia, ebreo originario di Salonicco, in Italia dal ‘45, casa a Roma. Oggi ha 81 anni. Fece parte del Sonderkommando di Auschwitz, un gruppo di prigionieri obbligati a rimuovere i cadaveri dopo le gassazioni di massa. In tutto il mondo sono sopravvissuti in «quattro o cinque, non di più», dice. L’ultimo Sonderkommando si va estinguendo. Shlomo, nel lager, ha perso la mamma e le sorelline. Ricordi lucidissimi: «Il tedesco che ci comandava si chiamava Moll, l’hanno giustiziato i polacchi. E poi un mio amico, Leone C. che faceva il bancario ad Atene, incaricato di strappare i denti d’oro ai morti, anche lui non c’è più». L’orrore si muta in nuove lacrime: «...Quando hanno aperto la porta di una camera a gas, non era come la prima sera, allora era il sotterraneo, la sala dove la gente si svestiva. Quando veniva la gente, la prima cosa che diceva il tedesco era: “Achtung, achtung”, con quella voce che ti entrava dentro le ossa. C’erano in quella stanza degli attaccapanni e ognuno di questi aveva un numero. Il tedesco diceva a tutti di appendere la loro roba e di ricordarsi il numero del proprio attaccapanni così da ritrovarla all’uscita dalla doccia. La gente era convinta di andare a fare la doccia e, infatti, c’era una grande stanza con tante docce finte. Alcuni cercavano di andare per primi, per esempio le donne con i bambini piccoli... Chiudevano la porta, simile a quella dei frigoriferi dei macellai, una doppia porta con al centro lo spioncino per vedere l’interno... Il tedesco apriva la botola che era camuffata dall’erba quando non c’era la neve e metteva dentro questo gas velenoso che si chiama Ziklon B. Dopo dieci minuti tutti quelli che stavano dentro erano asfissiati. Allora entrava il Sonderkommando. Io dovevo tagliare i capelli».
E Goti Bauer, milanese che fu schiava nel campo di lavoro di Birkenau: «In lontananza vedevamo una bianca casetta di contadini. Sembrava un miraggio, gente vi entrava, gente ne usciva: era la vita. Dal camino saliva un filo di fumo: immaginavi la pentola sulla stufa, la famiglia intorno al desco. Ricordo quella casa come il più grande desiderio che io abbia mai avuto: potervi arrivare, scaldarmi al tepore di quella stufa, passarvi il resto dei miei giorni».
Giuliana Tedeschi, 91 anni, torinese, mamma di due figlie, per molto tempo dopo il ritorno non ha mai parlato di Auschwitz: «Una questione mia, una forma di ritegno. Ma una volta, andando a scuola, vedendo da lontano una ciminiera, precipitai nello sgomento. Mi ricordava il crematorio, che per noi era l’ossessione di ogni minuto, un incubo che per anni ho cercato di spiegare a tutti. Potevamo finire in cenere per nulla, anche quando non te lo aspettavi... E’ sempre più difficile far capire alle nuove generazioni cos’è l’Olocausto. I ragazzi leggono poco, e non per colpa loro. Andrebbero indirizzati dai professori, e questo accade raramente; alcuni non lo sanno fare. Ed è forte il rischio di commemorazioni rituali, che non incidono più nelle coscienze».
E non si possono non ricordare le parole di Rudolph Hoss, il comandante di Auschwitz, impiccato il 16 aprile 1947 proprio davanti al Krematorium 1 del «non luogo»: «Non potevo permettermi di giudicare se questo sterminio in massa degli ebrei fosse o no necessario, la mia mente non arrivava tanto in là. Se il Führer in persona aveva ordinato la “soluzione finale della questione ebraica”, un vecchio nazionalsocialista, e tanto più un ufficiale delle SS, non poteva neppure pensare di entrare nel merito».