giovedì 20 gennaio 2005

un'analisi di Edoarda Masi
sulla Cina

ilmanifesto.it 18 gennaio 2005
China-market, direttive di partito


La gestione autoritaria dello stato come premessa indispensabile per una via cinese al capitalismo liberista. E' questa la tesi dello studioso Wang Hui presentata in un recente seminario all'Università di Bologna. Una critica alla gestione del potere politico di Pechino che parte dalla rivolta di Tienanmen per rivendicare un libero mercato «non capitalistico» e libertà civili e politiche. E che chiama in causa il ruolo del nazionalismo nella «resistenza» alla globalizzazione economica
EDOARDA MASI

Su quanto è accaduto in Cina dal 1978 alla fine del secolo, sembra utile iniziare una discussione con le voci cinesi indipendenti: Wang Hui, che da anni dirige la interessante rivista Dushu («Letture»), ed è autore di numerose opere sulla storia della cultura cinese moderna, ha pubblicato nel 2003 presso la Harvard University Press la raccolta di saggi China's New Order: Society, Politics, and Economy in Transition, che muovono dal contesto delle ricerche e delle interpretazioni critiche emerse fra i giovani, gli studiosi e gli intellettuali nell'ultimo trentennio. (Lo studioso cinese è stato recentemente in Italia invitato dalla Facoltà di lingue dell'Università di Bologna, dove ha tenuto la scorsa settimana un seminario attorno proprio alla sue riflessioni sulla Cina). Centrale risulta la questione della rottura-continuità fra presente e passato socialista: su dove si collochi la rottura e dove la continuità. Wang Hui rileva che lo stato (post-socialista o sedicente socialista) totalitario repressivo delle libertà civili e sociali, contro il quale (ad un tempo con la critica al socialismo) si invocano democrazia, modernità e neoliberismo, esercita invece la sua funzione autoritaria per instaurare, con più forza, il liberismo capitalistico. Non solo non è contrario né assente nell'affermazione del cosiddetto mercato, ma quest'ultimo non avrebbe mai potuto prevalere senza l'appoggio pesante e dispotico dello stato. Secondo Wang, in Cina lo stato diventa esplicitamente e pienamente promotore-gestore del liberismo capitalistico dopo la rivolta del 1989.

Lo stato dello sviluppo
Quel movimento - al quale sarebbe seguita la svolta sociopolitica maggiore - è stato a parere di Wang un fenomeno complesso, nel quale confluirono componenti diverse e opposte: popolari, sostanzialmente (se pure in parte inconsciamente) orientate alla conquista di libertà non solo politiche ma anche economiche e sociali; «gruppi di interesse»; intellettuali (che si dividono in vari modi a favore dell'una o dell'altra componente). Credo che l'espressione «gruppi di interesse» designi in sostanza i gestori del capitale e i relativi esponenti e clienti politici e mediatici.

La crisi rivelata dalle molteplici istanze di libertà indusse lo stato a riaffermare la propria funzione repressiva e di imposizione dell'«ordine» e a rallentare momentaneamente il ritmo troppo veloce delle «riforme»: ma col fine, subito dopo perseguito, di procedere a queste ultime in termini irreversibili e - per così dire - imponendole dall'alto, senza più spazio alcuno per le «libertà».

Wang sottolinea la mistificazione che vorrebbe far passare per «libero mercato» la cancellazione della libertà e del mercato, attraverso l'imposizione di rigidissimi vincoli da parte di colossi transnazionali e grazie alla tirannide esercitata dalle burocrazie in complicità e a tutela degli stessi. Scrive nel saggio Alternative globalization and the Question of the Modern: «All'interno, attraverso il decentramento del potere politico, lo stato ha promosso un processo di privatizzazione con l'autonomia dell'impresa e la riforma del sistema finanziario; ha sviluppato rapporti mercantili in ogni settore della vita sociale e, pur con una grossa crescita economica, ha dissolto il sistema di garanzie sociali e ristrutturato i rapporti fra le classi e gli strati sociali. All'esterno, con le riforme del commercio estero e del sistema finanziario, gradualmente ha portato la Cina nell'ambito dei rapporti di mercato globali governati dall'Wto (l'Organizzazione mondiale del commercio, n.d.r.) e dall'Fmi, quindi ha riorganizzato i rapporti legali e contrattuali nella società in concerto con l'ordine economico del neoliberismo.[...] Dopo il 1989 meccanismi di interazione fra stato e mercato son venuti a sostituire quelli fra stato e società». Il compito assegnato agli intellettuali critici è di distinguere fra l'ideologia del mercato e le politiche effettivamente adottate, e di svelare i meccanismi anti-mercato entro la società del mercato.

Il processo rilevato da Wang Hui è analogo a quello in corso nelle democrazie liberali, dove lo stato va trasformandosi in un agente diretto del capitale, con la progressiva cancellazione dei margini di autonomia politica che in una fase precedente gli venivano assegnati. Ma la descrizione è assai meno semplice a proposito della Cina - dove il punto di partenza è una società postrivoluzionaria, caratterizzata per un verso da una forte interazione fra stato e società, e per l'altro (prima e durante la rivoluzione culturale, quando si andò molto oltre l'esperienza sovietica nella ricerca di una via socialista) attraversata da una critica «rivoluzionaria» dei suoi aspetti non democratici e non socialisti.

Il capitale postcapitalistico
Il concetto di «via capitalistica», allora largamente divulgato, non era lontano da quello di una «via del capitale postcapitalistico»: incompatibile con la realizzazione della piena umanità dei lavoratori. In Cina, va qui sintenticamente ricordato, c'era un'alta consapevolezza del problema. Era venuta alla luce nelle discussioni, negli esperimenti e nei conflitti degli anni Sessanta e Settanta non solo l'espropriazione del potere decisionale dei lavoratori attraverso il processo di accentramento e la sottrazione del lavoro in eccedenza attuate per via politica, ma in primo luogo l'incompatibilità fra gli interessi dei lavoratori e la gestione dell'economia ereditata dal capitalismo e tuttora dominata dal meccanismo di riproduzione del capitale. Si era arrivati a una critica, ma non a proporre un'alternativa capace di sradicare il capitale: il ritorno al sistema autoritario, col fallimento della rivoluzione culturale, è finalizzato a mettere a tacere in primo luogo i lavoratori, ai quali pure era stata offerta una chance; e che in assenza di una proposta alternativa oltre la pura ribellione hanno necessariamente subito una sconfitta.

Con la vittoria delle forze loro antagoniste, era inevitabile che il paese finisse, a passo a passo, col volgersi al ritorno al vero a proprio capitalismo. Il fallimento del processo rivoluzionario ha lasciato una situazione estremamente confusa, dove nei dati oggettivi e nelle interpretazioni si intrecciano frammenti di diversa origine e spesso in reciproca contraddizione.

Mentre le esperienze delle società postrivoluzionarie e specialmente di quella cinese confermano il legame necessario - e già presente come aspirazione nell'originaria ipotesi socialista - fra l'istanza del socialismo quale «autogestione dei produttori» e la democrazia, nelle formulazioni di Wang Hui si inserisce l'aspirazione a un «libero mercato» effettivo, differente e anzi opposto al capitalismo neoliberista. Quasi che libero mercato e democrazia dovessero necessariamente fare tutt'uno. È una posizione assai vicina a quella di Noam Chomsky. Distinguere fra mercato e «mercato» capitalistico è utile per non confondere fra loro le diverse forme di scambio di merci esistite nel corso della storia (incluso un mercato mondiale, almeno a partire dalla fine del XVI secolo) e per aver chiara, d'altra parte, la specificità e unicità del sistema del capitale; piuttosto dubbia appare invece l'idea di un «ritorno» a forme di mercato non capitalistiche, alternativa all'ipotesi socialista, la quale però è in ogni caso da riformulare.

È opportuno considerare quanto Wang Hui scrive sulla questione della modernità nel saggio Alternative Globalization and the Question of the Modern. In realtà la cosa riguarda non solo la specificità cinese: nei fatti e nelle idee, l'epoca fondata sul progresso e sulla modernità si è esaurita. Non c'è più spazio per quei fatti e quelle idee nella versione borghese e, per contro, nella versione «proletaria»: neppure uno spazio residuo in paesi come la Cina, già «arretrati» e socialisti. Andrebbe quindi discussa anche la «crescita», se applicata a un'ipotesi socialista. [Sulla messa in questione del concetto di crescita vanno ricordati, fra gli altri, i recenti testi di Serge Latouche Pour une sociétè de décroissance, «Le monde diplomatique», novembre 2003; Il Sud avrà diritto alla decrescita?, «Le monde diplomatique-Il manifesto», novembre 2004]. E andrebbe riconsiderata la storia culturale della Cina del XX secolo.

Qui la «modernità», dalla fine dei Qing a Mao Zedong, è stata sempre collegata all'ipotesi anticolonialista e socialista; d'altra parte, viene introdotta, ripetutamente, dalla colonizzazione. Il paradosso, non cinese ma universale, si trova già nell'ambito del marxismo, là dove, in una visione di «filosofia della storia», il proletariato è concepito come erede della borghesia. Nella teoria il paradosso è apparentemente superato con lo strumento della dialettica. Ma nella concretezza storica ha portato il socialismo alla crisi. Questo infatti ha assunto l'ideologia della crescita, che non equivale al graduale arricchimento delle conoscenze e al miglioramento delle condizioni materiali, e non è insita necessariamente in ogni società storica.

L'ideologia della crescita
L'associazione dell'idea di progresso con quella di cresscita economica è inesistente prima dell'introduzione dell'economia capitalistica. Possiamo accettare la categoria di «progresso» quale ci è stata trasmessa dal pensiero ottocentesco? Il modo in cui oggi è possibile ipotizzare la fine del dominio del capitale e un'alternativa ad esso si configura negli stessi termini in cui veniva descritta nella tradizione marxista?

Che cosa può intendersi per sviluppo, che sia diverso dall'ideologia della crescita - copertura teorica della riproduzione allargata del capitale, da chiunque e comunque gestita? Impossibile quindi senza il profitto, e lo sfruttamento del lavoro - cioè di interi strati sociali: in Cina, e oggi nel contesto globalizzato, in primo luogo del lavoro nelle zone rurali. Che il cosiddetto «sottosviluppo» dei paesi ex colonizzati o neocolonizzati sia risultato e parte integrante dello «sviluppo» capitalistico globale è stato ampiamente dimostrato. Il concetto di sottosviluppo come condizione di partenza di alcuni paesi è impraticabile e fa parte dell'ideologia del capitalismo. Dopo gli esperimenti sovietico e cinese, dove la scelta della riproduzione allargata del capitale associata all'idea di «progresso» è stata fra le condizioni di fondo piuttosto che l'effetto del sistema autoritario, quale strada si può indicare, che escluda nella sostanza la riproduzione del capitale (da chiunque gestito)?

Del pensiero marxista la storia ha confermato però un punto essenziale: la contrapposizione, oggi esasperata, di capitale e lavoro. Quindi l'uscita dalla modernità non si può prospettare per la via «postmoderna», né il proletariato può essere sostituito da una a-classista «società» (o «società civile»), che includa in un'unica entità strati sociali polarmente opposti, in conflitto non conciliabile; né gli appartenenti alla stessa nazione. Si tratta di mistificazioni ideologiche introdotte per celare il luogo e la sostanza del conflitto. Il problema, finora non risolto ma in generale neppure impostato, è per il lavoro di trovare la strada che conduca all'uscita dalla soggezione al capitale. Vanno individuati i soggetti nei quali si incarna il lavoro (è il nemico stesso a indicarceli) e va definito come sia possibile collegarli (giacché il capitale opera attivamente per frammentarli e isolarli). In una nuova «analisi delle classi» delle società andrebbe affrontato, fra l'altro, il problema complesso e centrale delle nuove estese «classi medie», che in gran parte sono formate da lavoratori eppure, nella veste di consumatori, per ideologia introiettata costituiscono la base di consenso degli stati globalizzanti e dei politici neoliberisti di ogni colore.

La resistenza nazionale
Protagonisti della ricerca sono senza dubbio i lavoratori più sfruttati dell'Asia e dell'America latina, in gran parte abitanti delle zone rurali, sempre più direttamente controllate dal capitale. In questa ricerca e in questa lotta il contributo cinese è importantissimo, sia per il peso del «continente Cina» nell'economia e nella cultura mondiali, sia per l'alto livello teorico che potrebbe caratterizzarlo. A patto che almeno una minoranza illuminata della cultura cinese sappia uscire dalle secche del nazionalismo. Infatti, è impressionante come l'ambiguo intreccio di resistenza al capitale e nazionalismo si ripeta oggi (perfino, a volte, nelle pagine di un autore di pensiero indipendente come Wang Hui) negli stessi termini di settant'anni fa. Come se non fossero esistite la critica di Lu Xun e la stessa rivoluzione cinese.

Va però riconosciuto che l'ambiguità era rimasta nel seno di questa e nella politica di Mao Zedong. Che non sia stata mai esplicitamente affrontata ed effettivamente risolta pesa oggi duramente - in un contesto mondiale dove sui nazionalismi conta e fa leva il nemico, come su ogni altra ideologia o religione che allontani lo spettro della lotta di classe.

Un reale internazionalismo è irraggiungibile se non si crea un fronte internazionale del lavoro contro il capitale, e si punta invece al sistema difensivo dei singoli stati-nazione entro il quadro del capitalismo globale (che è poi la linea di fondo dell'attuale governo cinese). Wang Hui lo ammette, quando chiede la «globalizzazione del movimento del lavoro». Ma ricade subito dopo nella trappola del nazionalismo, magari allargato all'intera regione est-asiatica - allargamento dell'Asean, ecc. per resistere agli Usa: metodi validi, purché ne sia preliminarmente riconosciuta la funzione tattica e strumentale.