domenica 20 febbraio 2005

al congresso della Società italiana di psicopatologia
con il prof. Pancheri

Il Messaggero Domenica 20 Febbraio 2005
CURA AL CACAO
Cioccolato, la “terapia” che diventa dipendenza
C.Ma.

ROMA - Compare anche la cioccolata nel programma del congresso della Società italiana di psicopatologia. Venerdì, infatti, come evento serale alle 21, tre psichiatri, Paolo Pancheri, Luca Pani e Icro Maremmani, parleranno proprio del cacao. Che verrà ”raccontato“ attraverso le conoscenze della neurobiologia molecolare e analizzato nella trasformazione del suo consumo: da abitudine della gola a malattia. Non è un caso che il titolo della sessione è proprio ”Cioccolato: dal piacere alla dipendenza”.
«Saranno presentati dei quadri clinici precisi - spiega Roberto Brugnoli, psichiatra coordinatore del congresso -. Il cacao risulta essere molto spesso un tentativo di autocura per i pazienti. Venerdì tracceremo, su basi scientifiche, il percorso che spesso avviene dalla ”terapia“ fai-da-te con le tavolette di cioccolata ad una vera e propria forma di dipendenza. Non in forma, possiamo dire “romanzata”, ma con riferimenti psicobiologici saldi».
L’analisi degli psichiatri arriva in un momento in cui l’Italia vede crescere di anno in anno i consumi di cioccolato. Siamo arrivati a 4 chili a testa. Con un’impennata delle preferenze che si sta orientano verso il fondente. Nel 2003 è stato valutato un più 14,8%. Ma, nonostante la maggior diffusione della cultura del cioccolato e la conseguente apertura di negozi di nicchia superspecializzati nelle diverse varietà, l’uscita di film e montagne di libri, il consumo di ogni italiano resta il più basso d’Europa. Perché? Rispondono artigiani e industriali: qui sono ancora in molti a mangiare il cioccolato con un senso di colpa.

Il Messaggero Domenica 20 Febbraio 2005
Da martedì a Roma congesso di Psicopatologia
«La tristezza non si cura con le pillole»
Lo psichiatra Pancheri: crescono le richieste di farmaci contro lutti e dolori
di CARLA MASSI

ROMA - «Ci viene chiesta la pillola per sopportare l’abbandono del fidanzato, le difficoltà al lavoro, gli insuccessi all’università. C’è una consapevolezza diffusa che esiste una cura per ogni emozione. Sta cambiando la psichiatria e, con lei, il nostro lavoro e le domande dei pazienti. E, per questo, dobbiamo rivedere il nostro modo di fare diagnosi». Così, il professor Paolo Pancheri, docente di Psichiatria all’università di Roma spiega la filosofia del Congresso, da lui presieduto, della Società italiana di psicopatologia in programma a Roma da martedì a sabato.
Lei parla della necessità di rivedere la psichiatria in un mondo in trasformazione. Mutano le malattie?
«Il nostro lavoro deve misurarsi con quello che ci accade intorno. Ogni giorno bussano al nostro studio persone con disturbi diversi da quelli di una decina di anni fa. Anche per questo da tempo, come faremo anche durante questo congresso, analizziamo i film per mettere a confronto le rappresentazioni della realtà»
Patologie nuove?
«Sarebbe meglio dire patologie modificate, riviste e adattate alla vita di oggi. Sono aumentate le cosiddette patologie sub-sindromiche. Quelle, cioè, che i libri “sacri” della psichiatria mondiale disegnano con un ventaglio di caratteristiche che questi pazienti non hanno. Eppure, se pur in forma cambiata, parliamo di depressione e di ansia»
E’ banalizzante parlare di forme più lievi?
«Stiamo comunque parlando di persone che soffrono ma non corrispondono al profilo dato fino ad oggi dalla letteraura scientifica. I pazienti chiedono aiuto, raccontano il loro male anche attraverso malesseri riferibili allo stomaco o alla testa»
Parla di somatizzazione?
«Dico che è ormai diffusa la consapevolezza che il disagio psichico oggi si manifesta anche attraverso un mal di schiena insopportabile. Certo è che cresce la domanda di farmaci per curare ogni tipo di sofferenza del tono dell’umore»
Sono dolori che una volta uomini e donne sopportavano?
«Sì. Per questo dobbiamo stabilire i nuovi confini delle malattie psichiatriche. Per capire quali disturbi possiamo annoverare in un quadro patologico e quali no»
Così, non si rischia di psichiatrizzare le emozioni? Medicalizzare ogni difficoltà che la vita regala?
«Proprio perché questo non accada dobbiamo confrontarci. E’ un problema di tutti i paesi occidentalizzati. Va, in qualche modo, affrontata la sempre più comune difficoltà, meglio dire incapacità, a fronteggiare gli ostacoli quotidiani»
Avete anche capito perché?
«L’eccesso di competizione, la violenza e un palpabile disagio sociale scatenano insicurezza e paure. E si crede, erroneamente, che basta una medicina per “guarire”. Le terapie farmacologiche ci aiutano, permettono di affrontare malattie psichiatriche gravi ma non possono essere scambiate per pozioni magiche»