domenica 20 febbraio 2005

la famiglia e le violenze ai minori

Brescia Oggi Domenica 20 Febbraio 2005
Un convegno all’Università Cattolica ha tracciato gli scenari degli abusi e suggerito i percorsi del recupero
Minori violati, la sfida della vita
150 ragazzi bresciani in comunità-alloggio e centri di pronto intervento
di Lisa Cesco

Partire da una forte situazione di rottura e degenerazione come quella dei casi di pedofilia, per avviare una ricostruzione, per continuare a farsi carico «di quell’altra parte della città, meno distruttiva - secondo la definizione dell’assessore Carla Bisleri - che facendo tesoro delle esperienze più difficili vuole proseguire nell’impegno per la cura e l’educazione dell’infanzia».
Quella parte di città che ha fatto sentire la propria voce riempiendo di studenti, insegnanti, cittadini l’Aula magna dell’Università Cattolica, per la giornata di studio dedicata a «La relazione educativa tradita - Famiglia e violenza sui minori», organizzata dall’ l’Assessorato alla pubblica istruzione del Comune e dalla Cattolica con il Centro studi sulla vita matrimoniale e familiare e il Gruppo di studio e ricerca sul maltrattamento dei minori.
Se è vero che la stragrande maggioranza delle violenze sui minori sono commesse nel contesto famigliare, sono molteplici i versanti per avvicinare un fenomeno dai profili ancora sfuggenti, ad incominciare da quelli numerici: nel Bresciano sono 150 i bambini e ragazzi accolti dalla rete di 26 fra comunità alloggio e servizi di pronto intervento, ma ci sono forti motivi per credere che, fra affidi ai parenti e situazioni che rimangono nascoste, il fenomeno abbia una portata ben più ampia.
Complessi, quindi, gli interventi a sostegno del minore violato, cercando di integrare due scenari d’azione confliggenti fra di loro, quello dell’accertamento giuridico dei fatti, che richiede percorsi conoscitivi non sempre allineabili con l’approccio clinico e quello della relazione di cura.
Per i minori violati, allontanati per decreto dalla famiglia d’origine, una risposta è quella della comunità alloggio dove - come ha spiegato Emanuela La Fede, coordinatrice delle comunità per minori «Come un albero» e «Geopandea» -, si cerca di ricostruire quel qualcosa che si è spezzato, «cercando di vincere la scommessa che la normalità guarisce, la quotidianità cura, e dedicando un’accoglienza abitativa e relazionale non trovata nella famiglia d’origine».
«Accoglienza è anche avere la delicatezza di non azzerare la loro storia, pur intrisa di sofferenza, osservare una privacy rigorosa sulle loro vicende di ragazzini che ormai sono convinti di essere pubblici, che la loro storia sia di tutti, dopo che l’hanno ripetuta magari sei o sette volte fra udienze in Tribunale e psicoterapeuti: si cerca di lasciare loro l’intimità, senza pietismo, assecondando i loro salti nel tempo, i loro incubi notturni e il rapporto difficile con le persone e le cose, per scoprire magari che, nonostante tutto, sono ancora innamorati della vita», dice La Fede.
Se per le comunità alloggio la sfida sarà quella di inglobare in progettualità comuni anche le famiglie, per realizzare buoni recuperi familiari riscattando le funzioni genitoriali compromesse, soggetti da non trascurare sono anche gli autori dell’abuso, come ha ricordato nel suo intervento il criminologo Carlo Alberto Romano, docente alla Cattolica di Brescia.
«Dal ’95 ad oggi abbiamo assistito ad un trend di crescita dei reati a sfondo sessuale, e nonostante gli autori di tali reati rappresentino solo il 2% della popolazione penitenziaria, quindi non più di 1000-1200 persone in Italia, c’è da credere che esista un forte problema di dimensionamento reale del fenomeno», spiega Romano.
Un fenomeno sottostimato, come già confermava l’inchiesta di vittimizzazione realizzata dall’Istat nel 1998, da cui emergeva che il 2% della popolazione italiana complessiva ha subito una violenza sessuale, quindi circa un milione di persone, cui, specularmente, dovrebbero corrispondere indicativamente un milione di abusanti.
Dai dati del Ministero dell’Interno risulta inoltre che nel 76% dei casi c’è una relazione di conoscenza fra l’autore del reato e la vittima, relazione che nel 94% dei casi è di tipo familiare, e chiama in causa le categorie del conoscente, del genitore e del convivente-genitore.
«L’autore del reato, nel nostro sistema, rimane al centro dell’attenzione fino alla sentenza di condanna definitiva - dice Romano -. Successivamente, il colpevole viene avviato in una sorta di "ibernazione penitenziaria", con la minore visibilità possibile del problema e una bassa accessibilità agli strumenti previsti dalla legge per la tutela dei propri diritti di persona: finchè questa prospettiva non verrà ribaltata, sarà difficile farsi davvero carico di tali persone, a beneficio finale della stessa comunità, cercando spazi di azione e intervento nel contesto carcerario".