domenica 20 febbraio 2005

parade

corriereadriatico.it 20 febbraio 2005
Una mostra racconterà le terribili violenze
Gli abusi della psichiatria


ASCOLI - Il comitato dei cittadini per i diritti dell’uomo annuncia che presso la Loggia dei Mercanti in Piazza del Popolo in Ascoli, sarà allestita la prima mostra internazionale sull’abuso dei diritti umani nel campo della salute mentale. La mostra intitolata “Cosa la gente non sa riguardo alla psichiatria: abuso dei diritti umani”, sarà inaugurata venerdì alle 11 alla presenza del consigliere comunale Carlo Cannella e sarà aperta al pubblico tutti i giorni fino a lunedì 28 febbraio, dalle 10 alle 22. La mostra è una denuncia visiva di quello che la psichiatria ha fatto dall’origine degli ospedali ai giorni nostri praticando elletroshock, contenzioni, shock insulinici e tante altre terribili violenze.

laprovinciadisondrio.it 20 febbraio 2005
Quei drogati "al di sopra di ogni sospetto" Il tossicodipendente anche nella nostra provincia non è più riconducibile ad una tipologia precisa: lo "sballo per lo sballo" può interessare tanto lo stimato professionista quanto lo studente modello


Il consumo di droghe anche pesanti ma in dosi contenute rende meno identificabile rispetto a un tempo il tossicodipendente
Quello della droga è un fenomeno su scala nazionale, ma anche la provincia di Sondrio, a torto ritenuta ancora "isola felice" in una visione fideistica della realtà, non ne è affatto immune. Il dato significativo che emerge da una serie di colloqui avuti con addetti ai lavori (medici, assistenti sociali, gente che opera nel campo del recupero dei tossicodipendenti) è che l'uso della droga si va diffondendo in ceti che una volta ne sembravano immuni. E' poi anche in aumento la pratica della "droga part time" cioè quella del consumatore occasionale. Si assume la propria dose come una volta ci si rifugiava nel Martini o nel Campari: la cocaina da "sniffare" per chi se la può permettere (considerati i costi delle bustine), ma anche il "buco" d'eroina, di tanto in tanto, o poi il lunedì via al lavoro, o a scuola. Il tossicodipendente non è più riconducibile ad una tipologia tipica, com'è stato per anni. Oggi è un insospettabile, magari uno stimato professionista o uno studente modello. Con buona pace dei medici, a cui una volta bastava un'occhiata per individuare un paziente "diverso" tra quelli che si presentavano in ambulatorio. La "febbre del sabato sera" investe altre sfere dello svago. Un tempo, chi si drogava faceva tutto sommato una scelta di vita, abbracciando vecchi miti di controcultura. Scelta discutibilissima, ma pur sempre legata ad un'adesione ad un modello di vita. Oggi, lo sballo per lo sballo. Sia che si tratti di psicofarmaci, o di "ero", il danno sociale è gravissimo. Gli effetti non sono visibili nell'immediato, dal momento che non è più semplice come prima distinguere il "drogato" dalla persona normale, ma devastanti nel medio termine. I medici che abbiamo interpellato parlano di fenomeno non controllabile con i mezzi usuali, e quindi non trattabile come "emergenza medica", che a lungo andare può essere fonte di depressione ed indurre fortissimi problemi relazionali dell'individuo nel suo inserimento. Sono soprattutto i giovanissimi (mentre le generazioni precedenti fanno uso di droga per sopportare lo stress quotidiano o come rifugio dall'ansia) a cercare negli stupefacenti la risposta a tutti i loro problemi. E spesso non sanno nemmeno cosa stanno usando. Diversi medici possono confermare che si presentano ragazze o ragazzi chiedendo loro: "Dottore, ma cosa ho preso?". La totale disinformazione esistente sugli effetti di questa o quella droga può portare conseguenze fatali su metabolismi "impreparati" ad accoglierla. Né, d'altra parte, esiste più la gradualità. Una volta lo "spinello" era il primo gradino (anche se molti non sono andati oltre), adesso si passa direttamente all'assunzione di droghe pesanti, anche se i dosaggi sono solitamente leggeri. E l'attenzione alla dose può portare un fisico normale ad un'assunzione continuativa di droga senza dipendenza. Si può continuare quindi a condurre un'esistenza "al di sopra d'ogni sospetto", senza avere mai difficoltà con la legge. Il timore maggiore espresso dai nostri intervistati è comunque quello che il fenomeno, diffondendosi a livello di massa, possa in futuro divenire quasi accettato, un po' com'è stato per l'alcoolismo, che rappresenta ancor oggi in provincia di Sondrio una piaga sociale non indifferente.

corriere.it 19 febbraio 2005
Donne, ecco perché vi bocciano in scienze

La polemica
Di LAWRENCE H. SUMMERS

Un mese fa il rettore di Harvard, Lawrence Summers, affermò in un discorso a porte chiuse che l’universo femminile è biologicamente svantaggiato nel campo scientifico. L'intervento suscitò polemiche e indignazione. Ora l’accademico ha deciso di rendere pubblico il testo. Summers spiega come di fronte agli obiettivi professionali, la donna sia portata (più per natura che per condizionamenti sociali) a non investire tutte le energie nella carriera
Mi avvio a esaminare un aspetto del problema, o della sfida, che abbiamo preso in considerazione, ossia quanto le donne siano presenti ai vertici delle università e delle istituzioni nei campi della scienza e dell’ingegneria, non perché sia, questo, il problema più importante o più interessante che possiamo affrontare, ma perché è il solo al quale mi sia dedicato in maniera davvero seria.
Esistono tre articolate ipotesi sulle origini delle disparità sostanziali tra uomini e donne. La prima è quella che io definisco l’«ipotesi del lavoro intenso». La seconda riguarda la capacità di dedicarsi totalmente ad alti obiettivi, la terza le diverse risposte alle dinamiche sociali e la discriminazione nell’ambiente di lavoro. Ritengo che le tre ipotesi rispettino l’ordine di importanza che ho appena riportato. Ci sarà forse di aiuto estendere preliminarmente il problema oltre i confini della scienza e dell’ingegneria. Ho avuto l’opportunità di affrontare la questione con dirigenti di grandi aziende, amministratori di giovani imprese, direttori di ospedali all’avanguardia, capi di società leader in diversi settori, infine con colleghi accademici. In ciascun ambiente professionale, la sostanza dei discorsi è sempre la stessa. Da venti o venticinque anni a questa parte il numero di donne che hanno accesso a un’istruzione di livello superiore è significativamente cresciuto. Le persone che hanno beneficiato di questa tendenza sin dall’inizio hanno oggi un’età compresa tra i quaranta e i cinquant’anni. Se consideriamo i gruppi dirigenti in ambiente accademico, registriamo un’età media che non si aggira affatto sui cinquanta, ma neanche su quella che ci saremmo aspettati di trovare all’inizio, venti o venticinque anni fa, quando cioè le studentesse della facoltà di Legge costituivano un terzo degli iscritti. Tra le poche donne che occupano posizioni di leadership sono tante le non sposate o senza figli.
Quali considerazioni possiamo ricavarne? Mi pare evidente — e, tengo a precisare, parlo su una base meramente descrittiva, non normativa — che le attività e le professioni più prestigiose chiedono, a quanti abbiano intenzione di fare carriera e arrivare ai vertici intorno ai quarant’anni, una quasi totale dedizione al lavoro. Professioni che impongono di trascorrere intere giornate in ufficio, che richiedono flessibilità e capacità di risolvere le emergenze, continuità di prestazioni per l’intera durata del ciclo vitale, che pretendono — tanto più difficile da appurare — che la mente sia sempre concentrata su questioni collegate al lavoro, anche fuori dagli orari lavorativi. È un fatto che nella nostra società sono sempre stati gli uomini sposati a garantire il livello di impegno qui esemplificato, in misura di gran lunga maggiore rispetto alle donne. Non si tratta di un giudizio su ciò che dovrebbe essere, né su ciò che sarebbe giusto pretendere sul posto di lavoro. Mi pare, tuttavia, estremamente complicato esaminare simili dati senza trarne la conclusione che le aspettative non sono in contraddizione con le scelte individuali, e che contribuiscono a determinare risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Un’altra prospettiva dalla quale esaminare il problema ci porta a indagare quante giovani donne sui venticinque anni decidano di non volere un lavoro che le costringa a non pensare ad altro per ottanta ore la settimana. Pensiamo poi a quanti sono i giovani uomini che prendono la stessa decisione e soffermiamoci sulle differenze.
Il secondo elemento che ritengo occorra considerare, è la combinazione degli obiettivi peculiari di scienza e ingegneria e dei motivi per i quali la rappresentanza femminile nei suddetti campi è assai limitata e contrastata se paragonata ad altri settori. Ci aiuterà qui un semplice ragionamento. Rispetto a numerosi fattori che non sono determinati culturalmente — altezza, peso, propensione al crimine, quoziente intellettivo totale, capacità matematiche e abilità scientifiche — si riscontra una innegabile differenza nei valori medi che individuano le popolazioni maschile e femminile. Prendiamo il caso di fisici ai vertici di un istituto universitario di ricerca: mi pare ragionevole figurarsi persone che non superino soltanto di due o tre volte i valori medi. Parliamo di persone che sono tre volte e mezzo, quattro volte al di sopra della media: persone di questo tipo sono in una scala di uno su cinquemila, uno su diecimila. Ho fatto un calcolo elementare. Ho scorso il testo di Yu Xie e Kimberlee Shauman (autori del libro «Donne nella scienza: Carriera e Risultati», Harvard University Press, ndr) ed esaminato i valori ricavati dall’analisi delle differenze di genere, raggruppati in tabelle. In base alle stime fornite dai due studiosi, il 50% delle donne, una donna ogni due uomini, rispetta il profilo del lavoratore che si prefigge alti obiettivi. È in seguito emerso che i test utilizzati nel libro non costituiscono criteri valutativi altamente affidabili. Non credo, tuttavia, che la questione possa essere del tutto liquidata. Perché, se la mia interpretazione del lavoro è corretta, possiamo concluderne che, indipendentemente dai fattori presi in considerazione, restano inconfutabili differenze di genere, rispetto ai valori medi.
La mia impressione è quindi che combinando l’«ipotesi del lavoro intenso» e le differenze valoriali di genere, sia possibile chiarire numerosi aspetti del problema. Restano ancora due fattori da prendere in considerazione. Il primo: la risposta alle dinamiche sociali. In certo modo le bambine socializzano facilmente attraverso attività che richiamano il compito di prendersi cura di un altro essere, mentre i bambini sono attratti, ad esempio, dalle costruzioni. Questi sono fatti indiscutibili. Esito tuttavia ad assegnare grande valore a questo tipo di ragionamento. Per due ragioni. In primo luogo, la psicologia empirica ci ha insegnato negli ultimi quindici anni che si tende a interpretare i processi di socializzazione in maniera erronea e fuorviante. Siamo rimasti sbalorditi di fronte ai risultati degli studi su gemelli separati alla nascita. La certezza che l’autismo fosse un riflesso di caratteristiche proprie dei genitori, sostenuta senza esitazione alcuna e rafforzata da riscontri basati sull’osservazione diretta, si è rivelata infondata. Il secondo dato empirico è che le ragazze sono tenaci e ostinate. Quando non c’erano ancora laureate in chimica, né in biologia, era facile incolpare i condizionamenti familiari.
Oggi è sempre più evidente che il vero nodo sta nei comportamenti delle ragazze di venti o venticinque anni, rispetto agli obiettivi che non prendono in considerazione. Ben più controverso appare infine il ruolo della discriminazione. Fino a che punto è possibile parlare di aperta discriminazione? È innegabile che forme di discriminazione esistano. Ritengo, però, che il fenomeno più significativo sotto questo aspetto sia il verificarsi di un vero e proprio scontro tra quelli che sono i legittimi desideri dei membri di una famiglia e l’aspirazione individuale a ricoprire posizioni di rilievo. Nel caso specifico della scienza e dell’ingegneria, esistono motivazioni intrinseche delle differenze tra i generi, e questi fattori non fanno che essere rafforzati da fattori di minore rilevanza, come le dinamiche sociali e la persistente discriminazione. Sarei felice se mi si dimostrasse che sono in errore. Permettetemi di concludere precisando che le considerazioni qui riportate si avvalgono di una vasta attività di consultazione della letteratura scientifica e di osservazioni sul campo. Sarò soddisfatto del lavoro compiuto, se riuscirò a stimolare una riflessione sull’argomento trattato e a provocare il desiderio di approfondire una ricerca che si proponga di contraddire le mie conclusioni. Siamo di fronte a una materia che richiede un’accurata riflessione: abbiamo esaminato nodi troppo importanti per appiattire l’analisi su posizioni sterilmente sentimentali. Occorre un esame rigoroso.

kataweb.it 19 febbraio 2005
Autismo, decisiva la diagnosi precoce
Stefano Pallanti (allievo fiorentino del Cassano)


Il tema che vorrei affrontare questa volta riguarda l’autismo: mi è capitato il caso di una signora madre di un bimbo di dieci anni autistico. La signora ha anche un’altra bimba di diciotto mesi e mi ha espresso il suo timore relativo al manifestarsi del disturbo anche nel secondo figlio. Le domande che mi ha posto sono quelle relative a come fare per individuare il disturbo, se esiste un modo precoce per poter intervenire il prima possibile.
Fino a 20, 30 anni fa era molto difficile riconoscere i segnali caratteristici dell’autismo. Oggi la diagnosi sfugge molto più difficilmente all’osservazione dei genitori e dei pediatri, grazie ai tests ideati dai neuropsichiatri dell’infanzia. L’ideale sarebbe scoprire i bambini “difficili” e silenziosi entro i 2 anni. Decisiva è quindi la precocità della diagnosi. Negli ultimi due anni molto è cambiato: la via è stata la presa di consapevolezza pubblica e l’evidenza che un trattamento precoce con una terapia comportamentale può aumentare le possibilità future del bimbo.
Le indicazioni del DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) per l’individuazione del disturbo autistico sono le seguenti:
Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno due dei seguenti:
- marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale;
- incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello dello sviluppo;
- mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi od obiettivi con altre persone (per esempio non mostrare, portare, né richiamare su oggetti di proprio interesse)
- mancanza di reciprocità sociale o emotiva.
Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno uno dei seguenti:
- ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica);
- in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri;
- uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico;
- mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo.
Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno uno dei seguenti:
- dedizione marcata verso uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomala o per intensità o per focalizzazione;
- sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici e manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o complessi movimenti di tutto il corpo);
- persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti.
Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei tre anni di età:
- interazione sociale
- linguaggio usato nella comunicazione sociale gioco simbolico o di immaginazione.
Il test inglese CHAT (Check List for Autism in Toddlers), che serve per formulare un sospetto diagnostico sotto i 36 mesi, di solito confermato nel 90% dei casi ad un anno di distanza. La CHAT è stata formulata per la diagnosi di autismo nei bambini di 18 mesi. Si compone di due sezioni distinte, una per le risposte dei genitori, una per quelle degli operatori, e considera vari aspetti dello sviluppo, quali il piacere del gioco motorio e condiviso, la socializzazione, lo sviluppo motorio, il gioco sociale, il gioco simbolico, l’indicazione protorichiestiva, l’indicazione protodichiarativa, il gioco funzionale, l’attenzione congiunta e il gesto del mostrare. Una caduta nei suoi item critici o in alcuni di essi è indicativa di un rischio alto o lieve di autismo.
Questi strumenti rendono operativa la possibilità di individuare la presenza di un disturbo pervasivo dello sviluppo in bambini di due anni di età o persino in età precoci. Poiché la sovrapposizione tra bambini con ritardi nello sviluppo e bambini con autismo sembra essere molto ampia nell’infanzia, l’approccio diagnostico più efficace dovrebbe basarsi su pattern di combinazioni di comportamento piuttosto che sulla presenza o assenza di comportamenti singoli. La diagnosi di autismo dovrebbe tener conto delle informazioni ottenute tramite le interviste strutturate ai genitori, l’osservazione diretta del bambino, l’interazione con lui e le scale di valutazione standardizzate. In particolare, l’identificazione precoce dovrebbe porre grande enfasi sui comportamenti comunicativi e sociali.
Delineare le caratteristiche precoci del disturbo autistico è fondamentale per migliorare la comprensione dei deficit primari di questo disturbo, delle modalità atipiche di sviluppo e dei fattori associati ai cambiamenti nella sintomatologia. Una diagnosi precoce ha la potenzialità di migliorare gli outcomes nell’autismo, consentendo al bambino di beneficiare di un trattamento riabilitativo precoce che si associa ad un miglioramento nella produzione del linguaggio, allo sviluppo di abilità cognitive e allo sviluppo dei comportamenti sociali.
Ai genitori sono rivolte 9 domande e viene richiesto loro di osservare i tre comportamenti “strani “ dei figli: quando non guardano la palla, non indicano la mamma, non capiscono i giochi di finzione. Attualmente c’è sufficiente concordanza sul fatto che sia possibile formulare una diagnosi di autismo tra i due e i tre anni di vita, ma tra gli otto e i diciotto mesi è possibile individuare alcuni segni che, pur essendo aspecifici, devono essere considerati di allarme e quindi impongono una consultazione specialistica al fine di formulare una diagnosi di attesa.
Ma la difficoltà maggiore risiede nel fatto che i sintomi precoci possono essere difficili da scoprire anche per il medico più esperto. Un aiuto significativo può essere fornito proprio dalla mamma che, generalmente, è la prima a captare, durante il primo anno di vita, alcuni segni “strani”, come lo sguardo che tende a perdersi nel vuoto e le scarse capacità comunicative. Gli esperti sono ormai concordi nel sostenere che fino a due anni il bambino autistico sembra conservare ancora una piccola voglia di comunicare con il mondo, che esprime attraverso vaghi comportamenti, anche molto difficili da riconoscere. Quando tutto questo è possibile, allora si possono coordinare degli interventi con i genitori, in grado di favorire la gestione della malattia ed i medici possono prepararsi ad affrontare la difficile crescita di un bambino con un grave disturbo dello sviluppo. Spesso però il genitore non trova nel pediatra un interlocutore adeguato: lo specialista può sottovalutare il sintomo e la preoccupazione della madre, attribuendo il comportamento del bambino a normali tappe evolutive di tipo regressivo che pur interessano il 40% circa dei bambini, o peggio quell’ansia dei genitori. Ecco quindi che il treno della prevenzione è irrimediabilmente perduto.
Solitamente i bambini con autismo non ricevono una diagnosi definitiva prima dei 4 anni di età, periodo in cui è possibile operare una valutazione sulla base di sintomi canonici quali una compromissione qualitativa della comunicazione e delle abilità di gioco, la presenza di comportamenti ripetitivi e stereotipati. Il disturbo tende invece a manifestarsi in età precoce, attorno ai trenta mesi di vita con una certa sintomatologia che sembra insorgere a partire dai 16-20 mesi.
I bambini con autismo vengono spesso diagnosticati per ritardi dello sviluppo motorio, emotivo, sensoriale e/o problemi comportamentali. Una diagnosi formale in età precoce è resa difficile dal fatto che i bambini non hanno ancora raggiunto il livello di sviluppo cognitivo e linguistico richiesto per soddisfare alcuni criteri diagnostici.
La terapia comportamentale è un ponte verso il mondo esterno e mentre esperti dicono che può fare la differenza ad ogni età, tutti sono concordi sul fatto che abbia il più ampio effetto sul linguaggio dei bambini, sul comportamento sociale e sul quoziente intellettivo quando inizia prima di quattro anni di età.
L’intervento dovrebbe partire a tre anni e certamente prima dei quattro: dopo un certo punto si può ancora insegnare ad un bimbo autistico certe cose, migliorare i comportamenti distruttivi, ma non si può cambiare il “sentiero” comportamentale che si è formato.

farmacia.it 18 Febbraio 2005 - 12:20
CERVELLO: LOCALIZZATE AREE LEGATE A SCHIZOFRENIA


SYDNEY, 18 FEB E' stato individuato il legame fra alcuni sintomi della malattia e particolari strutture del cervello. La scoperta, condotta in Australia e pubblicata sulla rivista internazionale Neuroimage, promette di favorire una migliore comprensione delle cause genetiche della malattia e quindi diagnosi e terapie piu' tempestive. Lo studio, condotto nell'Istituto di neuroscienze dell'universita' di Sydney, ha permesso di correlare i processi di pensiero deteriorati, in particolare l'incapacita' di risolvere problemi e di programmare, con un assottigliamento della materia grigia in un'area del cervello nota come corteccia prefrontale. I ricercatori, guidati da Vaughan Carr, direttore scientifico dell'Istituto stesso, ha utilizzato la risonanza magnetica per esaminare la struttura e le funzioni del cervello in dieci soggetti nelle prime fasi di schizofrenia mentre eseguivano compiti di programmazione richiedenti attenzione e memoria. Confrontando i risultati con quelli di un gruppo di persone sane, si e' osservato che le persone colpite da schizofrenia avevano difficolta' ad eseguire i compiti richiesti. L'analisi computerizzata ha rivelato che i processi di pensiero deteriorati e l'inabilita a risolvere problemi, nei malati di schizofrenia, erano direttamente legati all'assottigliamento dello strato esterno di materia grigia e ad un'attivita' ridotta nella parte del cervello interessata. La scoperta, afferma Carr, apre la strada a nuove aree di ricerca con l'esame di campioni di tessuto cerebrale prelevati dopo la morte di pazienti colpiti dalla schizofrenia. "Potremo ora concentrarci sulla genetica di un'area molto specifica del cervello - ha osservato Carr - ed esplorare piu' a fondo le ragioni per cui il tessuto situato in quell'area si deteriora negli schizofrenici". L'obiettivo e' identificare i geni che potrebbero essere attivati o disattivati nei pazienti, e quindi formulare nuove terapie. (ANSA).