martedì 15 marzo 2005

Gabriel Levi, psichiatra
la depressione nei bambini

La Stampa 15 Marzo 2005
Il problema dei bambini depressi
Gabriel Levi
Ordinario di Neuropsichiatria Infantile
Università La Sapienza di Roma


SI è fatto un gran parlare, negli ultimi anni, sul problema dei bambini depressi. Il centro della discussione è stato messo sulla realtà e sulla consistenza del fenomeno. Ma veramente esistono bambini depressi? E quanti sono? E perché prima non se ne parlava? Abbiamo nuove conoscenze che ci permettono di fare nuove diagnosi? Oppure viviamo in una società che produce bambini depressi?
Dietro queste prime domande, che coinvolgono sia il grande pubblico sia gli specialisti, si intravedono altre questioni, ancora più dure e compromettenti. Ma allora depressi si nasce? E quale rapporto esiste tra la depressione dei bambini e quella degli adulti? Un bambino depresso sarà un adulto depresso? Oppure un adulto depresso sarà particolarmente debole nel difendere i propri figli (o alunni) dalla depressione?
Sono tutte domande giuste e pertinenti. E ancora più pressante e necessaria è la domanda di saper riconoscere i sintomi che costituiscono, o preannunciano, la depressione dei bambini. Eppure il quesito più basilare, il filo che ci aiuterebbe a sbrogliare la matassa, sta nel cercare di comprendere l'esperienza e i sentimenti dei bambini depressi. Quali sono le emozioni contro cui combatte un bambino depresso? Come ne prende coscienza oppure come le oscura? Come fa il bambino depresso a localizzare, dentro di sé, queste emozioni? Come riesce a dar loro un nome e a trovare le parole per comunicarle, o per nasconderle, agli altri?
Curiosamente, la nostra esplorazione sullo sviluppo dei sentimenti depressivi è più reticente. Ci sembra troppo difficile, o forse troppo dolorosa. Tuttavia questa esplorazione è inevitabile ed è anche la più utile. Perché ci aiuta a comprendere il mondo dei bambini depressi. Perché individua un'ampia area di transizione tra la realtà di tutti i bambini (e degli adulti) e la realtà dei bambini clinicamente depressi.
La depressione è un fenomeno complesso che risulta difficile da comprendere. Primo: perché tocca in profondità una patologia dei sentimenti. Secondo: perché molto precocemente diventa una guerra tra sentimenti, o meglio una mascherata attraverso cui un sentimento combatte o maschera un altro sentimento. Sentirsi depressi, per un bambino, significa sentirsi tristi, molto tristi, e specialmente non saperne e non trovarne il motivo. Avere una tristezza senza motivo porta a sentirsi soli. Senza aiuto perché non si sa cosa e a chi chiedere. Senza speranza (e per i bambini la speranza è la certezza che i desideri si realizzeranno sempre), perché si hanno meno desideri e meno forza e piacere di desiderare.
La prima esperienza di un bambino che diventerà depresso è esattamente questa: sentirsi spento, perché non ha l'energia, il gusto, la rabbia allegra di esternare quello che gli piace e quello che non gli piace. Se io fossi fuoco! E se non ce la faccio a essere fuoco? Come faccio a sentirmi riscaldato e a vedere i tanti colori della luminosità? I sensi di colpa, contro il pregiudizio più comune degli adulti, vengono molto più tardi. La primissima reazione che un bambino può sviluppare quando sente che, in un modo o nell'altro, non può farcela (e che non è all'altezza del suo desiderio di piacere) è di provare una rabbia cattiva e soffocata. Tanto più cattiva quanto più soffocata. Con una prima sintesi: il bambino triste si accorge di avere poca forza nell'esprimere i suoi desideri e si confonde quando cerca di distinguere tra la propria rabbia e la sensazione di cattiveria. In qualche modo queste percezioni, anche se confuse, creano in questi bambini una convinzione crescente di essere poco amati e poco degni di amore. È difficile capire dove inizia, in questo percorso, anche la percezione di non essere capaci di voler bene, forse perché si è cattivi.
La sensazione di essere inadeguato tende a generalizzarsi sino a diventare un aspetto visibile della persona. La rabbia che cresce e ti esplode dentro, con sempre maggior silenzio, è percepita, ma in maniera molto indiretta, e con un forte equivoco. Chi ti fa capire di essere un secchio d'immondizia e ti brucia con la sua rabbia, sotterranea e compressa, ti sembra falso, cattivo, prepotente, orgoglioso... ma più di tutto passivo, pigro. Non a caso la risposta dell'adulto, a questo punto, è molto spesso: «Metticela tutta. Se ti sembra di affogare, nuota. Se credi di essere solo e se la lingua ti si incolla in bocca, per la vergogna, impara a buttarti nella mischia. Sii socievole. È così difficile essere spontaneo? Sforzati di essere spontaneo».
La vergogna è una brutta balia. Mentre ti allatta, ti riempie di rancore e ti dissangua. Dalla sensazione di non essere amato si passa alla sensazione di non voler bene e di non esserne capace. Dal vedersi allo specchio come un incapace si può passare, in un tentativo automatico di recuperare il controllo, al sentirsi colpevole e, forse, al desiderio di fare qualcosa di colpevole.
Molti bambini non coltivano la loro vergogna, in parte perché gli adulti intorno a loro non sono disponibili e/o vulnerabili a favorire questo strumento di crescita. In questi casi, spesso, la tristezza e il senso di solitudine tendono a manifestarsi con altre modalità. Qualche bambino diventa un po' buffone e recita anche la parte dello stupido. Pulcinella, Pierrot, Calandrino e Gian Burrasca sono i gemelli che nascono da questo percorso. Se ricomponiamo queste quattro figure possiamo meglio capire il gioco delle parti in cui il bambino depresso può cadere e diventare prigioniero.
Qualche bambino triste si dimentica della sua tristezza diventando, magari favorito da qualche episodio occasionale, un piccolo grande malato. I disturbi di cui soffre, e che vengono regolarmente esclusi come non-medici, sono tanti. Dietro questi disturbi ci sono però quasi sempre due canovacci: 1) una grande ricchezza nel modo di descrivere o di paventare i dolori del proprio corpo; questa ricchezza corrisponde al bisogno che questi dolori vengano capiti per quello che sono, e cioè dolori psicologici; 2) un grande senso di stanchezza, con cui il bambino triste rivela la sua lotta e cerca di comunicare con il silenzio, sfinito dal silenzio.
Se esaminiamo la storia della tristezza, in tutti i bambini, riusciamo a porci delle domande corrette sulla sostanza dell'educazione sentimentale. Ci spaventerà non poco un certo nostro analfabetismo. È più rapido parlare di depressione piuttosto che di tristezza. Eppure se comprendiamo che la tristezza esiste, come fenomeno normale e persino positivo, nei bambini, con qualche fatica e senza dannosi sensi di colpa, possiamo ricostruire i percorsi della tristezza. Da giusto sentimento a pericoloso organizzatore di una personalità in crescita.
I bambini depressi vanno curati. I bambini tristi vanno ascoltati. Il punto è che loro proprio non sanno parlare della loro tristezza e che noi adulti non sappiamo farli parlare di qualcosa che non sappiamo e che spesso, comunque, temiamo. Bisogna riaprire un discorso sul vocabolario dei sentimenti.