mercoledì 9 marzo 2005

il libro su Laura Lombardo Radice, la compagna di Pietro Ingrao

al proposito leggi anche il post pubblicao ieri: un articolo dall'Unità segnalato da Dina Battioni

il manifesto 9.3.05

Il lessico famigliare della passione
GIOVANNA PAJETTA
La storia di una madre, Laura Lombardo Radice, ricostruita, con amore di figlia, da Chiara Ingrao. Memorie di ieri, attraverso lettere, poesie, articoli, appunti, e riflessioni di oggi, in un confronto intimo e profondo tra due generazioni di donne. Storia familiare e politica dietro e dentro la biografia di una donna indomita. «Soltanto una vita» per Baldini Castoldi Dalai
I sessantanni di Auschwitz e del 25 aprile, la giornata della memoria e quella del ricordo, gli sceneggiati tv sulle foibe e i filmati d'epoca di History channel. Mai come quest'anno il Novecento e il suo punto cruciale, di svolta, sono stati sotto i riflettori. L'effetto però, non sempre è quello sperato. Perché, tra retorica e violente polemiche revisioniste, il rischio è che vada perduto proprio ciò che si dovrebbe ricordare, o scoprire di nuovo. A cominciare dall'esperienza di una generazione di giovani uomini, e forse ancor più di giovani donne che attraversarono quegli anni terribili. Per trovare nell'affannoso rincorrersi di carcere, morte e primi amori, quel nucleo di passione che molte di loro, come Laura Lombardo Radice, avrebbero poi portato con sé per tutta la vita. Scritto a quattro mani, le poesie, le lettere e gli articoli di Laura raccolti e commentati da sua figlia Chiara Ingrao, Soltanto una vita (Baldini Castoldi Dalai, pp.371, € 18) inizia in una famiglia molto speciale. I Lombardo Radice, coppia di pedagogisti che fanno dei loro figli i protagonisti dei loro libri, sono un po' la versione romana dei Ginzburg. Anche loro hanno un «lessico famigliare», anche da loro a tavola si parla dei classici, magari direttamente in latino. E quando i tempi si fanno magri, si cucina «l'aringa alla Vittorini», prendendo la ricetta da Conversazioni in Sicilia. Per servirla magari proprio a quel giovane comunista clandestino che, stupefatto, sbotterà «Ma Vittorini sono io!». Questo però avverrà molto dopo, perché negli anni Trenta in casa si vive solo quello che Chiara chiama «un antifascismo naturale». Così come naturale, anzi addirittura eterno, pareva a tanti italiani il regime di Benito Mussolini. E chi, come Laura e suo fratello Lucio e gli amici del cuore, l'amatissimo Giaime Pintor, i Natoli, Misha Kamenetzky (che proprio allora coniò lo pseudonimo che divenne il suo nome, Ugo Stille), cresceva cercando altro doveva presto scoprire che nemmeno i padri o i maestri tanto amati, come Benedetto Croce, avevano più voglia o capacità di dare risposte. Così mentre già giungeva l'eco della guerra di Spagna, mentre in Francia si installava il governo socialista del Fronte popolare ognuno diventò «maestro di se stesso». Aiutato solo dai fratelli maggiori. Glauco Natoli portava libri e documenti clandestini da Parigi, Bruno Sanguinetti, già comunista, faceva circolare i testi di Gramsci. Oppure, come racconta Laura si andava in biblioteca a leggere, tra le righe dei commenti di Croce, il «Manifesto dei comunisti» di Marx.
Ma sarà il 1939 a far precipitare le cose e trasformare quella ricerca ancora soprattutto intellettuale in qualcosa di molto diverso. La guerra in Europa, la fine dei repubblicani spagnoli e, per rimanere alla vita di Laura, l'arresto di suo fratello Lucio. «Se devo dare una data alla mia militanza comunista - scriverà anni dopo Laura, raccontando la nascita di quello che nella Resistenza si chiamò «il gruppo romano» - direi che si è chiarita in quei giorni, quando passammo da un antifascismo riflessivo alla coscienza di essere persone che il fascismo espelleva dal corpo sociale». Ma quel Natale per lei finirà per significare anche qualcosa di più personale. Perché è proprio portando i pacchi dono a Lucio, nell'androne di Regina Coeli, che scoprirà l'esistenza di un'altra città. Le giovani popolane romane che parlano tra loro di aborti mal riusciti, quell'omone quasi storpio che a lei, vissuta sui libri, fa venire alla mente i bassifondi della Parigi di Victor Hugo e si rivelerà invece niente più che uno sfortunato facchino. Facce anonime che diventeranno compagni di lotta quando, nella Roma occupata dai tedeschi, Laura sarà spettatrice e organizzatrice della rivolta delle donne per il pane, testimone della morte di Teresa Gullace immortalata poi in «Roma città aperta» di Roberto Rossellini. E' un rapporto con un mondo diverso e lontano dal suo, non sempre facile, ma curioso, appassionato, mai paternalista. E, soprattutto, è un confronto che diventerà un punto mobile di tutta la sua vita.
Ironica e curiosa, insofferente al conformismo, non solo fascista, Laura Lombardo Radice mal si adatta al dopoguerra. Non le piacciono gli intellettuali romani che cancellano così facilmente i tempi bui dei nove mesi dell'occupazione ma non ama neanche, pur cadendo come tutti nel Pci nella trappola del mito sovietico, il suo burocratico partito. Quello in cui, come scrive a Zangrandi nel `56, si guarda agli altri come a «quella gente che agli occhi nostri fa sempre `massa': un tranviere, un artigiano.. Mentre noi siamo Giuliano, Marcello, Antonello...». La lettera in realtà non la spedirà mai. Più che alle discussioni nel partito preferirà, di cui rimarrà comunque sempre una militante, occuparsi per l'appunto degli altri. La sua famiglia, il suo amatissimo marito Pietro, le quattro ragazze e il piccolo Guido, gli studenti dell'Oriani che arrivavano a scuola dalle borgate della periferia romana. Ma il suo non è certo un ritorno a casa, come fu per tante donne e mogli comuniste. Perché Laura Lombardo Radice rimarrà per tutta la vita, per usare un'espressione decisamente fuori moda, una donna indomita. Capace di buttarsi con quella che sua figlia Chiara chiama «la sua foga», in una battaglia dopo l'altra. Sempre però con il suo tocco leggero, e profondamente femminile. Quello con cui cuciva i deliziosi vestiti di carnevale delle sue figlie, che lasciavano a bocca aperta tutti i bimbi comunisti di allora, o che si ritrova nelle poesie e negli articoli di costume che scriveva per Noi donne.
Così, a cinquantanni, come dice lei stessa, autoironica, Laura «fa il `68». Mette la foto del Che sul comò, accanto a quella di Giame, e si butta nelle assemblee studentesche, in quel «marasma stimolante e positivo». In tasca la tessera del Pci, legge con disappunto gli attacchi di Giorgio Amendola e apprezza le aperture del «cauto, insomma discreto» Luigi Longo. Ma non sarà l'unica avventura fuori tempo. Perché, come scriverà una delle sue nipotine, raccontando le passeggiate con la nonna, «bisogna sempre camminare senza fermarsi mai». E così a settanta anni suonati, ormai in pensione, Laura Lombardo Radice decide di tornare a insegnare. In una scuola molto particolare, a Rebibbia. Il carcere del resto, in quel lontano 1939, quando in cella c'era suo fratello Lucio, era stato un'esperienza cruciale, mai dimenticata. I suoi nuovi studenti sono ben diversi, tutti detenuti, condannati per furto, rapina o omicidio. «I miei assassinetti» come li chiamerà Laura, che aveva scelto loro, rifiutando invece di essere la maestra dei tanti «politici» finiti a Rebibbia negli anni di piombo. «Loro hanno già tutta l'attenzione, stanno sempre sotto i riflettori - spiegava cocciuta - Sono i comuni che sono dimenticati da tutti. E' con loro che bisogna lavorare». Figli e nipoti di quell'altra Roma che aveva incontrato per la prima volta a Regina Coeli e che da allora era sempre rimasta nel suo cuore.