mercoledì 9 marzo 2005

Jürgen Habermas
conferma: «L'illuminismo? È figlio del Cristianesimo»

L'Eco di Bergamo 8.3.05L'illuminismo? È figlio del Cristianesimo
Habermas: concetti come uguaglianza o dignità umana hanno radici evangeliche Il filosofo tedesco: la storia della religione appartiene alla storia della ragione
Giulio Brotti

Si è sempre descritto come un erede dell'Illuminismo, ancora convinto che la ragione umana abbia il compito di migliorare la nostra vita, di liberare le persone «dall'incanto del pensiero mitico, perché si sottomettano soltanto alla libera costrizione dell'argomento migliore». È stato anche definito, Jürgen Habermas, il «laico più puro nell'attuale mondo di lingua tedesca», per la sua concezione modesta («postmetafisica») del pensiero e del linguaggio, considerati da lui incapaci di elevarsi all'altezza dell'Assoluto (e semmai importanti, nelle relazioni tra gli esseri umani, come strumenti per raggiungere un riconoscimento reciproco, degli accordi, delle procedure condivise).
Dialogando con Habermas, siamo però partiti da un tema ricorrente, da alcuni anni a questa parte, in molti suoi saggi e volumi: l'interesse che egli laicamente nutre nei confronti delle grandi religioni storiche, il cristianesimo in particolare (fino a dichiarare esplicitamente la sua ammirazione per San Tommaso d'Aquino: «Se sfoglio le pagine della sua Summa contra Gentiles – ha affermato –, io resto incantato dal livello di complessità e differenziazione, serietà e coerenza, con cui è stata costruita dialogicamente l'argomentazione». E ancora: «Io non avrei nulla da obiettare, se qualcuno mi dicesse che la mia concezione del linguaggio sviluppa un'eredità cristiana»).
Professor Habermas, lo scorso anno, a Monaco di Baviera, lei ha incontrato pubblicamente il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Quel vostro colloquio sul rapporto tra religione, ragione e laicità è stato commentato in modo singolare da alcuni giornali italiani: hanno scritto che «il filosofo ateo Habermas – sorprendentemente – sarebbe corso in aiuto della Chiesa cattolica», in un periodo nel quale «questa stessa Chiesa si sentirebbe minacciata da una crescente ondata anticristiana». Lei si riconosce in una descrizione di questo tipo?
«Il cardinale Ratzinger ha proposto che discutessimo circa le origini “prepolitiche” – i valori basilari – dello Stato di diritto democratico: perché non avrei dovuto accettare quest'invito? Da parte mia, ho sostenuto la tesi che lo Stato costituzionale laico di norma poggia sulle proprie gambe, e, di conseguenza, non necessita di alcuna giustificazione religiosa – il che non esclude che esso debba trattare con riguardo le stesse tradizioni religiose. Il vero problema, al presente, mi pare però un altro. Una democrazia si nutre dell'impegno dei suoi cittadini (un impegno che non può essere estorto con la forza), del loro interesse per le questioni pubbliche, del loro coraggio civile. Anche prendendo spunto dal cambiamento del clima pubblico in Italia, ci si deve chiedere se (di fronte a una modernizzazione capitalistica attuata sconsideratamente, sempre meno governata in senso politico) possiamo essere sicuri che la società moderna saprà nuovamente rigenerare, riattualizzare questi temi morali, a partire dai propri fondamenti».
Alcuni anni fa, in un dialogo con il filosofo e teologo Eduardo Mendieta, lei ha affermato: «Una filosofia che oltrepassa i limiti dell'“ateismo metodologico” non può che perdere la sua serietà filosofica». Che cosa intendeva propriamente dire? Che senso ha, per lei, questo «ateismo metodologico»?
«La filosofia moderna si è sviluppata sul versante del pensiero secolare, laico. Naturalmente, essa si è impegnata in compiti molto diversi e si è orientata in direzioni differenti. Tuttavia, deve necessariamente fare ricorso a una lingua che sia in linea di principio accessibile a tutti, allo stesso modo. Al contrario, noi preghiamo e professiamo una certa fede in un linguaggio espressivo, che può certamente essere ricco di sfumature, ma rimane legato alla prassi rituale di una determinata comunità religiosa. La filosofia, invece, con i suoi enunciati, rinvia a dei criteri di validità rigorosamente universali, che devono risultare accettabili per chiunque, a prescindere – in linea di massima – dalla sua appartenenza religiosa o ideologica. “Ateismo metodologico” significa dunque per me due cose: non fare ricorso a dei prestiti dal vocabolario religioso (di cui invece si alimenta, ad esempio, il sussurrare evocativo dell'ultimo Heidegger); e non basarsi su verità rivelate, che operano ancora, nascostamente, in coloro che usano lo strumento filosofico per degli scopi apologetici».
Vorrei citare ancora alcuni passaggi della sua conversazione con Mendieta, chiedendole di approfondirne il significato: «Per l'autocomprensione normativa della modernità – lei afferma – il Cristianesimo non rappresenta solo un precedente o un catalizzatore. L'universalismo egualitario – da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, di autonoma condotta di vita ed emancipazione, di coscienza morale individuale, diritti dell'uomo e democrazia – è una diretta conseguenza dell'etica ebraica della giustizia e dell'etica cristiana dell'amore. Questa eredità è stata continuamente riassimilata, criticata e reinterpretata senza sostanziali trasformazioni. A tutt'oggi non disponiamo di opzioni alternative. Anche di fronte alle sfide attuali della costellazione postnazionale continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne». Lei ritiene che lo stesso Illuminismo, nei suoi aspetti più positivi, sia stato un figlio dell'Antico e del Nuovo Testamento?
«Lo Stato costituzionale moderno, come aveva già sottolineato Hegel, è una creazione del razionalismo e dell'Illuminismo. Con questo Stato secolare la Chiesa cattolica ha fatto pace solo da alcuni decenni, con il Concilio Vaticano II, e del resto, anche in campo protestante, non è che un simile atteggiamento di accettazione sia maturato rapidamente. D'altra parte, si deve tener conto del complesso rapporto tra la filosofia greca e la tradizione giudaico-cristiana. L'attuale pensiero “postmetafisico” attinge da un'eredità religiosa i significati forti, che esso storicamente ha attribuito a concetti di origine greca, come “autonomia” e “individualità”, o di origine romana, come “emancipazione” e “solidarietà”. Uno sfondo cristiano hanno anche quei principi universalistici (come l'eguaglianza e la dignità degli individui) in cui i nostri ordinamenti giuridici si riconoscono».
Vi è stata insomma un'osmosi profonda, nel corso dei secoli, tra la Bibbia e il pensiero profano.
«Le grandi religioni mondiali non hanno soltanto avuto origine contemporaneamente alla filosofia greca, attorno alla metà del I millennio a. C. (nell'epoca che Karl Jaspers ha chiamato “periodo assiale”, per indicarne il valore fondante, rispetto allo sviluppo successivo della storia umana). Esse hanno anche compiuto uno sforzo cognitivo affine a quello filosofico, uno sforzo che le ha portate a sostituire le antiche narrazioni mitiche con un modello di spiegazione della realtà completamente diverso, basato sulla chiarificazione di concetti logico-ontologici, come “essere” e “apparire”. La storia della religione appartiene perciò alla storia della ragione. Ma ciò non implica che la religione, oggi, abbia esaurito il suo contenuto razionale, cedendolo del tutto – come sosteneva Hegel – alla filosofia. Dal punto di vista di un illuminismo divenuto autocritico, che abbia cioè superato il proprio iniziale “secolarismo”, dobbiamo lasciare aperta tale questione».
Lei è molto amico del cattolico Johann Baptist Metz, uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “teologia politica”. Non le chiederei, qui, di raccontare la storia della vostra amicizia, ma piuttosto di spiegare quali motivi d'interesse trova nel metodo teologico di Metz.
«Di lui mi ha sempre interessato la capacità di elaborare un'autentica morale politica, dal punto di vista di un teologo devoto. La generazione cui noi due apparteniamo è cresciuta nel segno della rivelazione della verità su Auschwitz. A partire da questo fatto, Metz ha rinnovato la tradizionale questione della teodicea (il problema del rapporto tra l'esistenza di Dio e quella del male, ndr. ) con una particolare radicalità: egli ha ricollegato la riflessione teologica alla dimensione esistenziale della fede, in tutta la sua pienezza; una pienezza che non contraddice, ma comprende la stessa esperienza del dubbio all'interno della fede. Riguardo a questa problematicità interna del credere: chi, come me, ha ricevuto un'educazione protestante, può trovare una qualche consonanza con il principio luterano “Semper justus, semper peccator”...»
... per cui il credente sarebbe allo stesso tempo giustificato in Cristo, e manchevole, per quanto dipende dalle sue sole forze. Vorrei ora affrontare un'ultima questione. Mi ha colpito il fatto che lei parli dell'attualità della questione della teodicea, del «lamento di Giobbe» di fronte all'apparente strapotere del male, come di un vero, attuale problema filosofico. Nella seconda parte del XX secolo, la questione è stata spesso formulata in questo modo: «Come ha potuto Dio permettere Auschwitz?» Primo Levi rispondeva però a questa domanda dicendo che la realtà dei campi di sterminio basterebbe a confutare ogni fede religiosa: «C'è Auschwitz – scriveva –, quindi non può esserci Dio».
«Io nutro un profondo rispetto per la figura di Primo Levi – per il suo dolore, e per l'esistenza in genere di chi, come lui, è stato segnato dall'esperienza dei lager. Inoltre, non ho alcun motivo per contestare l'affermazione che lei ricordava. Semplicemente, non sento il bisogno di alcuna dimostrazione della non esistenza di Dio. In ogni caso, l'evento storico dello sterminio sistematico degli ebrei in Europa ha costituito un fatto eccezionale, sconvolgente: ha significato la negazione di tutti i più elementari scrupoli morali, fino a quell'epoca considerati ovvi. Questa negazione getta anche chi oggi si professa laico in una situazione problematica quanto quella di Giobbe. Così, che per tutti noi, in un modo o nell'altro, si riproponga la questione della teodicea, mi pare del tutto naturale. Nella lingua tedesca c'è la bella parola Menschenunmöglich , “umanamente impossibile”: si riferisce al fatto che, per un essere razionale, vi sono cose assolutamente “impossibili a farsi”. Ma dopo aver assistito alla realizzazione concreta di ciò che sembrava umanamente impossibile, come si può ancora confidare, appunto, nella “costituzione razionale” dell'uomo? È stato Kant, a parlare di una simile costituzione. E tuttavia, come possiamo aver ancora fiducia in questa eredità concettuale e valoriale dell'Illuminismo, dopo Auschwitz? Nell'arco di tutta la mia vita, il lavoro filosofico che ho condotto si fondava sul presupposto che una soluzione positiva di questo problema dovrebbe in ogni caso essere possibile. Ma lo è davvero, possibile?».