domenica 22 maggio 2005

un libro di storia:
tutta la violenza del Novecento

il manifesto 21.5.05
I trionfi della violenza nel XX secolo
Tra guerre e genocidi il secolo trascorso è il più sanguinario che la storia abbia conosciuto. Un panorama agghiacciante e articolato che Marcello Flores ricostruisce nel suo saggio edito da Feltrinelli con il titolo Tutta la violenza di un secolo
Simon Levis Sullam

«Si calcola, in sintesi, che nel corso del Novecento le persone uccise in atti di violenza di massa siano state tra i cento e i centocinquanta milioni (qualcuno propone addirittura la cifra di duecento)». Con questa agghiacciante contabilità prende avvio la riflessione di Marcello Flores in Tutta la violenza di un secolo, recentemente edito da Feltrinelli (pp. 206, 13 euro). Il Novecento è considerato uno dei secoli più violenti della storia: i numeri da cui Flores prende le mosse rinsaldano questa convinzione, basti pensare alle guerre del secolo scorso, che «rappresentano il 95% dei morti nelle guerre degli ultimi tre secoli», ai milioni di morti dei regimi totalitari, a quelli dei massacri coloniali e post-coloniali. Ma l'analisi proposta dallo storico non è, naturalmente, solo quantitativa, e procede rapidamente a scomporre in dieci sintetici quadri il problema della violenza politica, militare, di stato ed etnica che ha martoriato il secolo, proponendone una sorta di antropologia politica, saldamente fondata su basi storiche e costantemente incalzata da interrogativi etici. Flores prende le mosse dalle forme, dagli obiettivi e dai contesti della violenza, passando per un confronto tra guerre e genocidi e per un'analisi dei loro rapporti, fino ad interrogarsi sui responsabili della violenza e sulle diverse modalità di partecipazione ad essa. Giunge quindi al problema della giustizia, della memoria e anche della negazione della violenza, e infine ai possibili perdoni e alla riconciliazione. Ma la riflessione non si conclude su questo punto, articolato del resto in forma interrogativa, bensì sulla questione delle responsabilità dell'Occidente e degli stati democratici rispetto alla violenza. Responsabilità troppo spesso attribuite ad altri: altre culture e religioni, altre forme politiche; e immaginate come estranee alla democrazia. Ma in cui tanta parte - parte centrale e decisiva - ha avuto invece l'Occidente civilizzato, culturalmente più avanzato e teconologicamente progredito.
È il paradosso che, del resto, sta dietro alla distruzione degli ebrei d'Europa nella Shoah - vertice della violenza del secolo - a partire dai perversi rapporti tra «modernità e olocausto» (già studiati in un magistrale saggio di Zygmunt Bauman); ma anche alla violenza coloniale che inaugura il Novecento con la guerra anglo-boera in Sudafrica o il massacro degli Herero da parte tedesca nel 1904. In forme diverse questo paradosso si ritrova nelle guerre che, come già in Corea e in Vietnam cinquanta o quaranta anni fa, hanno preteso di «esportare la democrazia» nei Balcani o nel sud-est asiatico e nel medio oriente, ormai nel nuovo secolo.
Lo storico non si accontenta dunque di attribuire le cause della violenza alla natura umana e ai suoi istinti; ancor meno accetta di ricondurle a specifiche tradizioni culturali o religiose. Studia di volta in volta i contesti specifici delle violenze, ne ricostruisce a ritroso le tappe della genesi e della loro evoluzione, individua e scompone un insieme di motivazioni in parte strutturali in parte contingenti, stabilisce responsabilità molteplici e gradi diversi di implicazione. Nell'analisi di Flores ha un ruolo centrale l'elemento politico, anche nei contesti dove sembrano prevalere fattori religiosi o etnici: come in India all'indomani dell'indipendenza, nella ex Jugoslavia della «pulizia etnica», nel Ruanda del genocidio dei Tutsi. L'obiettivo della strage o del genocidio è, secondo Flores, comunque politico, e la «ragione politica presiede in ogni caso alla decisione di usare la violenza, e quasi sempre anche alle forme con cui colpisce le sue vittime». Fondamentale è, in questi processi che conducono alla violenza e alla guerra, l'individuazione - spesso la «costruzione» e l'«invenzione» - di un «nemico»: l'obiettivo da sconfiggere per la conquista territoriale o l'egemonia politica o economica.
Il «nemico» costituisce infatti un fattore di coesione per il gruppo, di mobilitazione delle masse e di legittimazione del potere e, naturalmente, della violenza. Secondo l'autore di Tutta la violenza di un secolo, «è l'intreccio tra la creazione di un clima favorevole alla criminalizzazione del nemico e un fatto concreto capace di suscitare allarme e timore, a fare da detonatore alla scelta politica [della violenza] già compiuta e predisposta dai governi e dalle autorità civili e militari». Partendo dall'analisi classica del totalitarismo dovuta ai politologi di Harvard Friederich e Brzezinski, ma anche dall'interpretazione del processo di civilizzazione del sociologo tedesco Norbert Elias, Flores enfatizza la centralità del monopolio della violenza acquisito dagli Stati (e da «minoranze radicali» alla guida di essi), ricordando che «i tre quarti almeno delle morti del XX secolo» si devono ai totalitarismi fascisti e comunisti, ma non dimenticando la parte avuta dagli Stati liberali. Nelle guerre coloniali e imperiali, dall'Indocina all'Algeria per la Francia, all'India per l'Inghilterra; e prima di allora nelle guerre «giuste» per la democrazia dei conflitti mondiali e di tanti altri che seguiranno fino ad oggi. La violenza, del resto, non è affatto un problema specifico dei contesti culturalmente o socioeconomicamente arretrati, perché è potenzialmente presente in tutte le civiltà e in tutte le fasi del loro sviluppo.
Pagine particolarmente dense sono dedicate ai rapporti tra guerra e «genocidio», termine creato nel corso della seconda guerra mondiale dal giurista ebreo americano Lemkin per tentare di definire la Shoah mentre essa si stava ancora consumando. Tuttavia, gli storici estendono questa categoria anche a esperienze come quella degli Armeni nella prima guerra mondiale o del Ruanda negli anni Novanta. Una costante di queste vicende su cui spesso non si riflette, perché apparentemente estrinseca, è l'indifferenza generalizzata della comunità internazionale che faceva da cornice. L'indifferenza morale contò per altri versi anche nell'atteggiamento dei carnefici, fosse essa il frutto di una fedeltà nazionale o etnica, o dell'obbedienza all'autorità. Secondo Flores, nel rapporto spesso fondamentale tra guerra e genocidio (la prima ne costituisce il contesto ideale quando non necessario), il genocidio appartiene alla «logica» estrema della violenza come «limite» verso cui la guerra inevitabilmente tende quando abbia alla base «una forte impronta nazionalistica, una rivendicazione identitaria assoluta» o «un carattere etnico marcatamente esibito».
Nelle conclusioni, Flores lascia tra l'altro la parola allo storico americano Charles Maier, che in un suo «bilancio storico alla fine del Novecento» aveva individuato nel XX secolo due storie parallele: «lo scontro titanico tra ideologie collettive omicide, ormai giunte al termine, e il dramma persistente dello sviluppo globale e della diseguaglianza». Dimostrando con la sua indagine e le sue riflessioni che non esistono risposte univoche di fronte alla violenza contemporanea, e che lo storico può offrire i suoi strumenti anche per la comprensione delle maggiori tragedie del secolo, delle manifestazioni più irrazionali e perverse dell'animo umano tradotte in azioni collettive omicide, dell'intreccio tra disegni ideologici, progetti di dominio e potere, guerre teconologiche o arcaiche (come, apparentemente, il «genocidio del machete» in Ruanda).
Gli strumenti dello storico stanno in particolare nell'illuminazione dei contesti, nella moltiplicazione delle cause, persino nell'identificazione con le «ragioni» dei perpetratori, cioè nello scandaglio anche emotivo delle «presunte o parziali verità, percepite come reali da un intreccio distorto di bisogno identitario e di interessi materiali». Infine, nella comparazione delle forme, degli obiettivi, e delle modalità della violenza attraverso il tempo e lo spazio. Ciò in cui questi strumenti consistono è, in definitiva, un esercizio e un intreccio della ragione, dell'immaginazione e delle emozioni dello studioso e dell'uomo.