domenica 15 maggio 2005

veterofreudismo
il prof. Gioanola e la letteratura italiana
...e Severino su Leopardi

L’ARENA Sabato 14 Maggio 2005
Follia sintomo di genialità
Esplorazioni nella psiche di scrittori e poeti italiani
Intervista a Elio Gioanola, autore di un saggio su «Psicanalisi e interpretazione letteraria», in cui si dice convinto che la creatività sia sempre figlia di una sottile nevrosi
Renzo Oberti

La follia è il primo sintomo della genialità, così come la creatività è generalmente figlia di una sottile nevrosi. Potrebbero sembrare dei paradossi, ma il professor Elio Gioanola, docente di Letteratura italiana all'Università di Genova, ne è convinto. E questo l'ha spinto a scrivere i venti saggi raccolti nel volume Psicanalisi e interpretazione letteraria (Jaca Book, 447 pagine, 24,00 euro), che sono altrettante esplorazioni nella psiche di Leopardi, Pascoli, D'Annunzio, Saba, Montale, Penna, Pavese, Quasimodo, Caproni, Sanguineti, Elsa Morante, Primo Levi, Mario Soldati e altri scrittori e poeti italiani. Poiché dietro e dentro un'opera letteraria c'è sempre la presenza di una sofferenza, si è sentito autorizzato a praticare "un'ermeneutica letteraria rigorosamente freudiana", ad avvicinarsi a questi autori con l'occhio del critico psicanalista. Tanto più che la psicanalisi "è insieme una teoria delle nevrosi e una teoria della cultura".
"L'artista - mi dice il prof. Gioanola - possiede sempre una sensibilità eccezionale, per cui è più soggetto di altri a subire delle ferite dal mondo esterno. A questa ipersensibilità reagisce con la malattia, sublimata dall'opera. Non tutti i malati psichici diventano artisti, ma è difficile che un artista non abbia qualche sofferenza della psiche."
Molti scrittori s'immedesimano totalmente con i loro personaggi, altri invece mantengono le distanze. Da cosa dipendono questi due diversi atteggiamenti ?
"Italo Svevo, ad esempio, si rispecchia nei suoi personaggi, perché la loro nevrosi non è dissimile dalla sua. Tutt'altra cosa avviene per Pirandello, i cui personaggi presentano una vasta gamma di caratteri e non hanno mai molti riscontri con lui, perché soffrono di un disagio psichico diverso dal suo. In Pirandello c'è un io diviso che va in frantumi, e da questo deriva tutta la sequela straordinaria dei protagonisti dei suoi drammi."
La nevrosi di Pirandello non fu scatenata dalla follia della moglie, che fu per lui una durissima prova ?
"La malattia della moglie fu la classica goccia che fa traboccare il vaso. Perché Pirandello già a 18 anni confessava alla sorella che aveva paura di impazzire, e prima di sposarsi scrisse i famosi dialoghi Fra il gran me e il piccolo me, che sono una specie di manuale della divisione dell'io, e l'io diviso è la condizione dello schizoide. Non è detto che uno schizoide diventi schizofrenico : può diventare anche un genio come Pirandello, il quale poi ebbe la sventura di avere la moglie pazza e per di più di subire un dissesto economico, per cui si trovò in una condizione tremenda e dovette tramutare il piacere della scrittura in un mestiere."
E Leopardi ? Anche la sua famosa malinconia era la spia di una nevrosi ?
"Ho scritto un lungo saggio che s'intitola Leopardi e la malinconia. Questo "male dell'anima" è sempre stato amico degli artisti, e già Aristotele avvicinava la condizione malinconica al genio. In Leopardi essa è vissuta sino allo spasimo, e c'è un legame profondo tra la malinconia e la sua poetica dell'Infinito. E' la ricerca di un bene perduto che non si sa cosa sia, una nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato. L'Infinito di Leopardi esprime questa ricerca che va al di là delle cose, del fenomenico."
Anche Giovanni Pascoli presenta patologie che mi sembra abbiano stimolato egregiamente il suo lavoro. Di cosa si alimentava la sua nevrosi ?
"Sì, Pascoli è un altro dei casi che ho studiato a fondo, tanto che su di lui ho scritto un libro, Sentimenti filiali di un parricida, che la dice lunga sul poeta della Cavallina storna. Il titolo è una frase di Proust che mi è sembrata adatta al suo caso, perché lui continuò per tutta la vita a piangere sulla morte del padre, e questo vuol dire che evidentemente era stato tentato da desideri parricidi, per cui quando poi il padre fu ammazzato si sentì talmente implicato in quell'omicidio da dedicare tutta la sua vita al tentativo di liberarsi dal senso di colpa."
Si dice che Pascoli annegasse spesso la tristezza in un buon bicchiere. Era un suo modo di dominare la nevrosi ?
"Cesare Garboli, a proposito della malattia che portò Pascoli nella fossa, ha scritto che la sua vita 'è il decorso di una malattia che abbandona progressivamente lo spirito e conquista, trasformata in cirrosi, il corpo'. Quando andò a Bologna per rimpiazzare Enotrio sulla più prestigiosa cattedra letteraria d'Italia, era già malato, ma continuò a farsi mandare damigiane di vino, rifiutandosi di ammettere il collegamento fra l'alcool e la sua infermità. D'altronde, come avrebbe potuto, senza il vino, far fronte agli assalti della malinconia, ai complessi d'inferiorità e alle ombre paranoidi che gli facevano vedere in tutti i colleghi dei nemici ?"
E dell'esibizionismo di D'Annunzio che diagnosi fa ?
"Si trattava di una forma di narcisismo portato all'esasperazione. Va naturalmente tenuto conto del clima dell'epoca, perché l'estetismo toccò anche scrittori di area inglese, francese e tedesca. Ma anche qui siamo di fronte a una forma di sofferenza, pur se mascherata da atteggiamenti gaudiosi. Anche il narcisismo, infatti, è una patologia, e nasconde spesso una pulsione di morte, e in D'Annunzio questa pulsione è molto forte. Nel Notturno e in alcuni romanzi emerge con forza il suo desiderio di volere tutto, un tutto non raggiungibile se non con la morte. Il suo stesso eroismo di aviatore è una dimostrazione dell'attrazione per la morte come raggiungimento dell'assoluto."
Nel suo libro lei si occupa anche di Federico Tozzi, un autore poco letto.
"E' stato soprattutto Debenedetti a rivalutare Tozzi nel suo Romanzo del Novecento, avvalendosi per primo in Italia di strumenti psicanalitici per far capire come il romanzo intitolato Con gli occhi chiusi sia anche una metafora della cecità come punizione. Abbiamo qui a che fare con un tema ricorrente nella letteratura del primo Novecento : la sofferenza nel rapporto tra padri e figli. In Tozzi un padre dominante schiaccia il figlio con la sua personalità fuori dal comune, e il figlio reagisce con la scrittura. Una condizione che si ritrova anche in Kafka e in Svevo, basta pensare alla Lettera al padre del primo e al capitolo La morte di mio padre nella Coscienza di Zeno del secondo."
Eppure, dopo aver formulato tante interessanti diagnosi, lei scrive che "il talento non è analizzabile". Perché ?
"Perché creare vuol dire inventare dal nulla.
E come si fa ad analizzare il nulla ?
Freud ha tentato di ridurre il più possibile il campo del non analizzabile, ma la creatività è al di fuori di qualsiasi possibilità di spiegazione, e se noi siamo ancora qui a parlare di Omero o di Dante, è proprio perché non c'è stata ancora una spiegazione.
Se fossimo riusciti a spiegare come sono andate davvero le cose nella loro creatività, avremmo esaurito la nostra comprensione. Invece noi non spieghiamo, interpretiamo all'infinito."

Il Giornale di Brescia 14.5.05
Severino e Leopardi
di Alberto Ottaviano

È noto che, per Emanuele Severino, Giacomo Leopardi è uno dei più grandi pensatori dell'Occidente: è lui il più coerente interprete di quella linea di pensiero dominante nel mondo, la quale, avendo avuto fede nel divenire dell'essere, ha portato al trionfo del nichilismo. È una linea che comincia da lontano, con Eschilo, il poeta greco che sta all'inizio del «sentiero della Notte», dunque della «follia dell'Occidente», che ha pensato che l'essere possa coincidere col nulla. L'affermazione che non esiste nulla di eterno - sottolinea Severino - è il centro della filosofia e della cultura di oggi. E Leopardi, abbastanza ignorato come pensatore nonostante le rivalutazioni, non solo ha aperto la strada alla filosofia contemporanea, ma è stato - secondo il filosofo bresciano - quello che meglio ha visto il futuro dell'Occidente: l'approssimarsi del paradiso della civiltà della tecnica e l'inevitabilità del suo fallimento. Si muove attorno a queste considerazioni un libro di Emanuele Severino pubblicato la prima volta nel 1990: Il nulla e la poesia, con sottotitolo Alla fine dell'età della tecnica: Leopardi. Quel libro, in una nuova edizione riveduta, è ora diventato un tascabile uscito nei mesi scorsi per la Bur di Rizzoli (9,20 euro). Severino segue il pensiero di Leopardi - nello Zibaldone, ma anche nell'Epistolario e nei Canti, «La ginestra» in primo luogo - mettendo in luce come il poeta abbia anticipato i «maestri del nulla» del pensiero contemporaneo, a partire da Nietzsche; e sottolinea come la poesia rappresenti per Leopardi l'ultima illusione di salvezza offerta agli uomini. Il libro è il primo dei due volumi che il filosofo bresciano ha dedicato al pensiero del Recanatese: il secondo volume è uscito nel 1997, sempre con l'editore Rizzoli (Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi).