martedì 7 giugno 2005

da Lombroso alla Lega Nord

Il Mattino 7.6.05
UN SAGGIO DELLA PETRACCONE
Scontri di civiltà il lato oscuro dei meridionali
Titti Marrone

Che i leghisti non abbiano inventato niente dando dell’Italia una rappresentazione dualistica da «scontro di civiltà» è cosa ben nota. Ma pochi sanno che il primo esplicito e organico teorizzatore di una vera e propria inferiorità razziale dell’«altra Italia» fu un meridionale, il ventiduenne siciliano Alfredo Niceforo, antropologo di scuola lombrosiana, allievo di Enrico Ferri e Giuseppe Sergi. Nel 1898 il suo L’Italia barbara contemporanea suggerì l’esistenza, visibile dalla forma del cranio, di due diverse razze, i mediterranei del Sud e gli arii del Nord. Con i primi dediti al brigantaggio che «non si manifesta nei paesi civili» essendo «lo stato normale delle tribù primitive»; e i secondi sicuri portatori di «un sentimento di organizzazione sociale», segno distintivo dal marasma collettivo che era l’unica sistematicità di cui fossero capaci i meridionali. Vero è che la teorizzazione di Niceforo era stata ampiamente preparata dai funzionari sabaudi inviati da Cavour a Napoli prima della proclamazione del regno. Uno di essi, Emilio Farina, dopo aver attraversato Abruzzo e Casertano, mentre era alle porte di Napoli già sentiva il bisogno di scrivere a Cavour: «Ma, amico mio, che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile». A ricostruire sia i prodromi della rappresentazione dualistica dell’Italia sia i suoi frutti successivi è ora Claudia Petraccone, storica napoletana, attenta analista del dibattito sul Mezzogiorno. Dopo Federalismo e autonomia in Italia dall’Unità a oggi e Le due civiltà - Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia, entrambi usciti da Laterza, con lo stesso editore pubblica Le due Italie - La questione meridionale tra realtà e rappresentazione (pagg. 330, euro 20). Ben più che una disamina del dibattito meridionalista dalle origini in poi, il libro è una ricostruzione giocata sui due piani evocati dal sottotitolo - dati di fatto e pregiudizi - e costantemente ancorata alla contemporaneità. L’ambizioso obiettivo del suo lavoro è quello di risalire all’origine dell’idea di «diverso grado di civiltà» di cui fu convinto anche un liberale, allievo di Pasquale Villari, come Leopoldo Franchetti. E di cui, senza necessariamente accedere a conclusioni razzistiche, finiscono per essere convinti sempre più meridionali. La lettura del libro della Petraccone è particolarmente illuminante nel momento in cui le cronache mostrano un Sud dove la legalità è violata da soprassalti di lazzaronismo e sopraffazioni camorristiche. Attualissime appaiono per esempio le pagine sulla centralità che Franchetti, nella sua inchiesta sul Mezzogiorno, attribuì alla «violenza come forma normale di espressione del diritto». E se da Gramsci e Colajanni arriva una confutazione efficace del legame razza-criminalità, con l’attribuzione dell’origine dell’arretratezza meridionale a fattori socio-economici, l’idea delle «due civiltà» riaffiora di continuo. Nel 1950, ai tempi della riforma agraria seguita alle lotte contadine del dopoguerra, si ripropone in forma diversa: allora l’incontro tra marxismo e cultura popolare, con Rocco Scotellaro, Carlo Levi e il concetto di «folklore progressivo» introdotto dalle ricerche di Ernesto De Martino, produce un’interpretazione della civiltà contadina come dimensione positiva, da recuperare e immettere in un circuito unificato di cultura nazionale. A questa visione non mancheranno critiche, anche da sinistra, come quelle di Mario Alicata a Carlo Levi e all’«idoleggiamento del primitivo». In tempi più recenti, con Robert Putnam la frattura tra le «due Italie» è identificata nell’assenza di spirito civico del Sud, che il sociologo inglese fa risalire all’età normanna. E ancor più di recente, a dare una risposta efficace allo «scontro tra civiltà» adombrato dalla Lega è un’analisi come quella di Gianfranco Viesti, che in Abolire il Mezzogiorno suggerisce di accentuare l’attenzione ai segni di cambiamento positivo. Unica possibilità di difendersi, oltre che dagli stereotipi negativi, dalla realtà che li provoca, cioé dal lato oscuro e barbaro di noi meridionali.