martedì 7 giugno 2005

un capolavoro cancellato dal cristianesimo
dionisismo, mito e ibridazioni nel V secolo

Corriere della Sera 7.6.05
Come un Omero della decadenza rianimò lo spirito del mito greco
di Mario Andrea Rigoni

Se mi si chiedesse qual è stato, nell’editoria letteraria italiana, l’avvenimento più importante degli ultimi mesi, anzi degli ultimi anni, non esiterei a rispondere: la traduzione integrale nella Bur, con testo greco a fronte e un impressionante commento erudito, de Le Dionisiache di Nonno di Panopoli, ultimo esponente della gloriosa civiltà poetica greca (4 volumi, a cura di Daria Gigli Piccardi, Fabrizio Gonnelli, Gianfranco Agosti e Domenico Accorinti, pagine 3167, 76), mentre un’analoga impresa sta conducendo l’Adelphi (che ha finora pubblicato, a cura di Dario Del Corno, tre dei quattro volumi previsti). Non per nulla la critica italiana, sempre pronta a inseguire i più effimeri e pretestuosi dibattiti, non sembra essersene neppure accorta. D’altronde Nonno non solo non gode di una «voce» autonoma in alcuni repertori degli scrittori classici, ma perfino nel Dizionario della letteratura Garzanti lo spazio che gli viene riservato è pari o inferiore a quello elargito a tanti poetastri, professori e critici odierni, dei quali il tempo farà presto, se non lo ha già fatto, giustizia, cancellandone dalla nostra memoria perfino il nome. Ma Nonno, egiziano di lingua greca vissuto nel V secolo d. C., è poeta di splendore e potenza intramontabile, degno di essere considerato quasi un Omero redivivo, benché sia un Omero della decadenza, anziché delle origini. Le ragioni della sua grandezza e del suo interesse sono di natura molteplice: linguistica, stilistica, prosodica, poetica e culturale. Chi non è greco o grecista perderà inevitabilmente parte dell’esperienza che dettò l’elogio di Kavafis nella poesia Esuli (una delle sue inedite):
«Versi di Nonno l’altro ieri leggevamo.
Che immagini, che misura, che lingua, che armonia.
Il poeta di Panopoli rapiti ammiravamo»
(traduzione di Massimo Peri). Ma chiunque, anche in traduzione, non potrà non percepire la bellezza e la forza fantastica di questo poema sterminato di 48 libri che, narrando la storia di Dioniso dagli antefatti della nascita fino alla conquista dell’India e all’ascesa in cielo come salvatore dell’umanità e dio della gioia, riepiloga e rianima l’intero universo del mito greco.
Il dionisismo è innanzitutto il tema religioso e poetico della metamorfosi, come fuga dal dolore e dalla morte, che ispira tutta l’opera. Ma coincide anche con il principio compositivo, formale e stilistico de Le Dionisiache , che è quello della proteiforme varietà, enunciato nell’invocazione proemiale alle Muse:
«Evocate per me l’immagine di Proteo multiforme, mentre si unisce alla vostra danza (...), perché appaia nella varietà dei suoi aspetti: un inno variegato io voglio intonare» (II, 13-15).
Nonno disarticola l’intero ordine dell’epos classico, in gara e in contrapposizione con Omero: all’unità sostituisce la molteplicità, alla logica l’analogia, alla profondità la superficie, all’azione la descrizione, fornendo un nuovo modello al quale si ispirerà molti secoli dopo il nostro Marino, che senza questo precedente non avrebbe mai potuto concepire né la struttura né lo stile dell’ Adone .
In astratto si potrebbe congetturare che una tale «poetica» conduca a un effetto d’insieme inevitabilmente debole: accade invece che Le Dionisiache si distinguano proprio per l’energia immaginativa e retorica. Un’altra singolarità di Nonno è che, nonostante l’ispirazione soteriologica e sacra, egli ama la digressione e l’aneddoto, l’arguzia e il motteggio, il gesto e il colore. Nello stesso tempo pratica tutta la gamma dei toni: epico, apocalittico, tragico, amoroso, bucolico e comico. È capace della più alta ispirazione cosmica, come testimoniano i primi due canti dedicati alla Tifoneide, ossia all’assalto di Tifeo contro l’Olimpo:
«Notte fonda: le schiere dell’Olimpo montano la guardia
intorno alle sette zone e come dall’alto di torri
risuona un allarme notturno: sono le voci delle stelle che si propagano
immense, ognuna con diversa intonazione, e l’eco che risuona intorno all’asse
della barriera di Saturno giunge fino alla Luna» (II, 170-174).
Esperto nelle guerre stellari, Nonno non lo è meno nell’erotismo visionario con cui descrive una Baccante
«E ce n’è una che ha legato il ventre intatto
con un serpente tre volte avvolto, cintura assai intima,
che apre la bocca vicino alla coscia, sibila dolcemente
e scruta insonne la verginità della fanciulla quando è assonnata per il vino» (XIV, 363-366),
o la voluttà di una morte per amore:
«Uccidimi, poiché sono amante sventurato, non risparmiare l’arco.
Tu doni grazia femminea al ferro, se tocchi i dardi; e io mi fermo, volontario bersaglio, a guardare
con occhio intenerito le tue dita splendere sulla cocca,
e poi tirare, tutto disteso, il tuo dolce tendine
e avvicinarlo al roseo seno destro» (XV, 329-334).
Infine Nonno conosce il tono comico-farsesco. È il caso della deliziosa storia di Afrodite che, abbandonato il cinto d’amore per la spola, tenta maldestramente l’opera della filatura riservata ad Atena, crea una tela rozza e aggrovigliata e provoca sulla terra l’interruzione di ogni attività amatoria, finché, derisa dagli altri dei, abbandona il lavoro e torna a Cipro, ristabilendo l’ordine delle cose (XXIV, 242-329).
Ma il poema contiene aspetti di più sottile ed enigmatica complessità: quello principale è una certa ricorrente somiglianza, tematica e linguistica, fra dionisismo e cristianesimo. Nonno è infatti anche l’autore di un’altra opera in esametri, la Parafrasi del Vangelo di S. Giovanni. Come si spiega questa clamorosa ibridazione di due religioni opposte? Secondo la persuasiva ipotesi di Daria Gigli Piccardi, coordinatrice dell’impresa e curatrice del primo volume, la chiave risiede nel sincretismo: un atteggiamento e un fenomeno, tanto segreto quanto notevole, che dalla tarda antichità si estende al Rinascimento e alla stessa età moderna. Per restare al nostro caso, si può ricordare che la coppia Dioniso-Cristo visiterà ancora la mente di Nietzsche.

Corriere della Sera 7.8.05
Nuove versioni italiane di un capolavoro risalente al V secolo dopo Cristo, in cui la letteratura ellenistica tocca l’apice della sensualità
E Dioniso donò agli uomini l’eros e l’ebbrezza

di Giorgio Montefoschi

Stupore e meraviglia colmano Le Dionisiache, la sterminata opera in versi di Nonno di Panopoli, nella quale, al tramonto dell’età pagana, il poeta egiziano in lingua greca volle «mettere un po’ tutto»: il bene e il male; gli dei e i nemici degli dei; Omero ed Esiodo; Apollonio Rodio e Senofonte; le Metamorfosi e L’Antologia Palatina ; la nascita di Dioniso e l’affermazione del suo culto; il suo viaggio in Oriente per sconfiggere gli indiani, simile al viaggio di Alessandro, e la fondazione delle città; Era e Zeus; Artemide e Afrodite; Ermes e Apollo; Cadmo e Armonia; Europa e il toro; Teseo e Arianna; le ninfe e i giganti; Micene e Tebe; Atene e Nasso; le selve e i pascoli; il mare e i monti. Non c’è vicenda, umana o divina, narrata in questo straordinario poema lungo da solo come l’ Iliade e l’ Odissea (48 canti) che non cada nella luce sgomenta di una illimitata libertà. Qui, fantasia e immaginazione non conoscono confini. Tutto si trasforma in tutto: gli dei in uomini; gli uomini in animali, pietre, piante; le piante in eserciti; le ninfe in rocce, sorgenti; gli eroi in polvere; le amanti deluse in corone di stelle. I giganti sollevano montagne e le tengono in pugno, prima di scagliarle contro gli odiati dominatori dell’universo. Nel cielo, carri luminosi trascinano in corse folli lo Zodiaco, scompigliando le stagioni e il tempo, capovolgendo la notte e il giorno. Guerrieri s’innalzano a toccare con un dito la cima dell’Olimpo. Diluvi universali sommergono la terra. Sul dorso di tori luccicanti, fanciulle rapite percorrono l’azzurro Egeo. Venti impetuosi sorgono dalle caverne; mostri feroci, dai denti di un drago conficcati nel suolo. E nulla, nulla è precluso alla forza, all’ardire, alla istantaneità del volo. Qualcuno - aveva raccontato Plutarco almeno tre o quattro secoli prima - navigando al largo delle coste della Tessaglia o del Peloponneso, aveva ascoltato una voce misteriosa annunciare che gli dei erano morti, non esistevano più. Da quel momento in poi, gli uomini avrebbero dovuto abituarsi a non veder più apparire gli dei sulle rive del mare o nelle selve; a non essere accecati dalla luce o fasciati dal sonno, per accogliere indisturbati ospiti o essere trasportati altrove. Avrebbero - molto semplicemente - dovuto «fare da sé». Rinchiudersi nel recinto domestico: a sperimentare la solitudine e l’incertezza del futuro; coltivare la nostalgia e la memoria. Lo sterminato poema di Nonno, questo immenso compendio mitologico e di generi letterari ormai defunti, non ci appare forse, nel morire di un mondo, come il tentativo tragico - più tragico quanto più decadente - di fermare una morte che è già morte, ricomporre una memoria svanita, riaccendere una nostalgia che non ha più fondamento?
Certamente, il delirio erotico segna, ne Le Dionisiache, il desiderio di congiunzione con il passato sepolto. È un vero e proprio delirio che la letteratura greca - nemmeno nei frammenti lirici, nei luttuosi precipizi della colpa e del sangue - ha mai conosciuto; una fiamma che non si deve spegnere. Quando Zeus vede per la prima volta Semele, ha un trasalimento e, per scrutarla più da vicino, muta diabolicamente aspetto. Diventa un’aquila. La vergine nuota nuda nel fiume. Eccitato dal pungolo del desiderio, il padre degli dei spia i riccioli umidi sul collo, le gambe candide, i seni paragonati ad «Arceri d’Amore»: nel momento in cui si congiunge a lei sul letto, «nel nodo amoroso delle braccia», cambia di nuovo sembiante. E, prima è un toro che muggisce, perché vuole generare un figlio virile e forte; poi, si fa pantera e leone irsuto, perché vuole un figlio coraggioso; quindi, trasforma i suoi capelli in tralci di vite, perché il nascituro sarà il dio del vino; infine, si fa serpente sinuoso e con «labbra di miele» lecca lascivamente «la rosea nuca della giovane sposa», arrotolandosi sulle rotondità del petto.
Dal connubio, nasce Dioniso: il dio che farà conoscere all’umanità la follia amorosa e l’ebbrezza del vino. Da questo momento, ogni angolo della natura è percorso da un fremito misterioso. Dioniso fa la lotta con Ampelo, il giovane che ama come Achille amava Patroclo; nuota nel fiume accanto al suo corpo nudo, sfiorando i potenti muscoli delle sue braccia; morto, lo copre di fiori. Nei boschi, il pastore Inno vede comparire una meravigliosa ninfa: Nicea. Il pastore la insegue; la ninfa fugge. Fuggendo - questo capita assai spesso alle fanciulle in fuga nel Poema di Nonno - la veste si solleva mostrando le bianche cosce, le caviglie purpuree, il «giardino di rose» tra le membra di neve. I boschi ascoltano i lamenti disperati di Inno. Rispondono al suo dolore, così come parteciperanno del palpito amoroso, allorché la ninfa sarà privata da Dioniso della sua verginità nel sonno. Dioniso, infatti, l’ha vista; subito ha sentito la mente perdersi «nel dolce delirio indotto dalla punta del fuoco», e l’ha inseguita ovunque. Quindi, aiutato da Nemesi, la dea della vendetta che non tollera che l’amore non sia corrisposto, slaccia con mano delicata il velo che difende il pudore della dormiente, affinché non si svegli. Ed ecco, gli alberi, le piante, si scuotono, gioiscono: intrecciano foglia a foglia come fanno i due amanti.
Se è vero che la natura primitiva e selvaggia - con i suoi prati pieni di fiori, i suoi stagni immoti, le tenere ombre, i meriggi incandescenti - è l’alcova più propizia all’amore (sovente illanguidito dal torpore provocato da sorgenti di vino purissimo che all’improvviso sgorgano dal suolo), è altrettanto vero che non esiste luogo della terra e del cielo, non esistono circostanze che possano impedire il sorgere del fremito amoroso. Gli dei amano sulla terra, ma sciolgono i veli anche nelle dimore eterne: dove hanno specchi per riflettere il viso, profumi, preziosi unguenti per ammorbidire la pelle. Nelle battaglie più cruente, sorgono di colpo fanciulle splendide, seminude, a ferire il cuore e indebolire le membra. Se una Baccante muore, un indiano stupefatto, rischiando la morte, si ferma nella polvere dello scontro ad ammirare i seni «simili a pomi», a scrutare «la piega tra le cosce scoperte», e la tocca, vorrebbe congiungersi a lei, dopo aver baciato le fredde labbra. Dal fondo del mare, Poseidone vede il corpo nudo di Beroe (la ninfa che più tardi darà origine alla città di Beirut) e la contende a Dioniso con fiera battaglia. Infine, alla conclusione del poema, Dioniso legherà mani e piedi alla ninfa Aura, pure lei addormentata, perché dall’imeneo silente nasca il terzo Dioniso di nome Iacco; dopo se stesso, e il primo Dioniso di nome Zagreo. E mai, mai, ripetiamo, la poesia epica ha visto una tensione erotica simile a questa scorrere nei suoi versi.
Intanto, dopo la vittoriosa spedizione indiana, il mondo conosciuto è stato unificato nei culti dell’amore e del vino. Sono state fondate importanti città. Altre hanno accolto il dio: alcune festosamente; altre, come Tebe, negando la sua provenienza divina e pagando codesta negazione con la più barbara follia. Il fuoco d’amore oramai nessuno potrà distruggerlo; nessun tramonto potrà estinguerlo; chiunque saprà riconoscerlo: anche nelle città cristiane; anche dopo secoli, mille anni. Dunque, Dioniso può salire in cielo; sedersi al cospetto del padre che lo ha generato e partorito tenendolo nascosto in una coscia; e banchettare con lui, insieme a Ermes e Apollo.

Le due edizioni dell’opera
Sono due le edizioni del poema Le Dionisiache di Nonno di Panopoli, poeta egiziano di lingua greca vissuto nel V secolo d.C., a disposizione del lettore italiano. I quattro volumi della Bur (in tutto 3167 pagine, 76) sono a cura di Daria Gigli Piccardi, Fab rizio Gonnelli, Gianfranco Agosti e Domenico Accorinti. Ancora incoma lplet’edizione Adelphi a cura di Dario Del Corno (traduzione di Maria Maletta) giunta al terzo volume in attesa del quarto e conclusivo (finora 1024 pagine, 83,65).