L'Unità 7 Giugno 2005
FILOSOFIA Un pamphlet di Giovanni Jervis contro gli equivoci di nichilismo, ermeneutica e fondamentalismo
Il relativista? Prima diventa tiranno
di Bruno Gravagnuolo
Contro il relativismo vale a meraviglia il classico argomento di Aristotele contro i negatori d’ogni verità. E cioè: negare ogni verità equivale a negare ipso facto l’assunto negatore d’ogni verità. Argomento che compendia quello racchiuso nel libro gamma della Metafisica aristotelica: chi nega il principio di (non) contraddizione in realtà lo afferma. Proprio nel voler affermare la «non contraddittorietà» del suo affermare. Peccato invece che Giovanni Jervis, psicologo, studioso dell’individualismo, già compagno d’arme di Basaglia e oggi critico avveduto dell’antipsichiatria, nel suo ultimo pamphlet Contro il Relativismo (Laterza, pp.163, euro 10) ad Aristotele riservi solo uno sberleffo. Laddove citando il solito Bertrand Russel contro la metafisica, ricorda un passo dello stagirita in cui il filosofo greco sosteneva che le donne hanno meno denti che gli uomini (Aristotele è molto contaminato e interpolato e forse in quel caso si confondeva con i denti del giudizio!).
In realtà fuori di scherzo Aristotele è molto importante per le questioni di metodo e di sostanza che stanno a cuore a Jervis in questo libro, come peraltro ben sapeva Popper (che i filosofi greci li amava e chiosava da par suo) e il cui razionalismo critico sarebbe inconcepibile senza le confutazioni aristoteliche.
Ma qual è, per tornare a Jervis, il metodo e il merito di questo suo pamphlet? Presto detto: un’appassionata difesa della ragione critica laica e illuministica. Contro le oltranze del relativismo e del fondamentalismo. Che per l’autore sono le facce di una medesima medaglia. Infatti dietro il relativismo multiculturale, come argomenta Jervis, affiora non solo la dismissione della responsabilità etica, ma ancor più il trionfo dell’arbitrio, che alla fine si rovescia in intolleranza. Insomma l’agnosticismo sui valori e la loro relativizzazione si traduce in indifferenza verso le pratiche totalitarie, e all’insegna di una malintesa tolleranza storicistica e antropologico-culturale. Efficaci sono a riguardo le pagine del libro dove l’autore demistifica l’utopismo ingannevole, a misura di culture primitive ed «altre» che è invalso nel 900, sull’onda di Ruth Benedict e Margareth Mead, e che ha creato tanti equivoci poi rettificati dall’antropologia successiva. Come pure incisive sono le pagine di critica alle oltranze antipsichiatriche, negatrici della malattia mentale, a lungo ridotta a variabile dipendente del «sociale».
Insomma quella di Jervis è una requisitoria molto forte contro il soggettivismo, che maschera titanismo e prepotenza, in frode all’esperienza sottoposta a verifiche. Contro l’Ermeneutica radicale. Che diluisce fatti e teorie a pure interpretazioni. E contro il nichilismo, che prima o poi si risolve in fondamentalismo. Ovvero in riscoperta romantica e asseverativa dell’Autorità, proprio per colmare il buco del Nulla a lungo coltivato.
E del resto c’è l’esperienza storica a dimostrarlo. Se si pon mente a quanti, nichilisti e incendiari, son poi divenuti titani o titanelli. Come Mussolini, che da «trasformista» nietzscheano si converte in adoratore e coniatore di miti arcaizzanti, nei quali finisce per credere. Oppure come certi futuristi, divenuti ideologi di regime in feluca. Oppure ancora, un secolo prima, come quei romantici tedeschi paganeggianti, divenuti zelatori del ritorno alla religione. Fino agli ex comunisti, assurti a difensori della santità dell’embrione. E così, a tratti in forma di taccuino biografico, Jervis assesta forti colpi a tanta parte dell’ideologia contemporanea. Recuperando logica, esperienza e senso del limite. E persino le basi biologiche del comportamento umano, a sostegno di un’etica possibile: quelle basi irrise da un culturalismo cieco e relativizzante. E al centro di tutto una differenza chiave in Jervis: un conto è il pluralismo. Altro è il relativismo. Confonderli equivale a lasciare le differenze in una sorta di guerra della giungla. Mentre il problema dell’etica contemporanea è quello di trovare un paradigma storico e positivo, che consenta ad esse di convivere nel segno di valori minimi condivisi (senza guerre preventive!). Qui però c’è un deficit fondativo in Jervis, che lascia il tema per strada. Un po’ come nel caso dell’Aristotele deriso. A proposito. Per Aristotele ciò che è in potenza «non è», non sussiste prima di divenire atto. Perciò l’embrione non è persona. Non male, no?
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