martedì 7 giugno 2005

gli articoli apparsi su "AVVENIMENTI" all'interno del "dossier" intitolato

tutti pazzi per gli embrioni

nelle loro versioni originali

pag.26
Un sì per chi viene alla luce
di Gabriella Gatti
docente di neonatologia e psicoterapeuta, Università di Siena

Qualunque tentativo di considerare l’embrione come persona giuridica fa riferimento implicito alla norma fondamentale del diritto naturale, cioè il diritto alla vita. In prima istanza il diritto dell’embrione come persona sarebbe diritto alla vita: non a caso nell’ideologia cattolica l’aborto viene spesso equiparato all’assassinio.
La discussione sulla legittimità dell’assenso alla abrogazione è chiaro porta alla inevitabilità di definire il concetto stesso di vita. L’onere di questa definizione tradizionalmente demandata ai filosofi sicuramente spetta anche al medico, nella fattispecie al neonatologo che ha un punto di osservazione molto particolare e privilegiato.
La scienza moderna si è sviluppata nel senso che la biologia si è dotata di uno statuto scientifico autonomo. Nel termine stesso di Biologia c’è questo legame fra il Bios ed il Logos è ciò esprime l’idea di un’indagine razionale, condotta con metodiche della scienza sperimentale su gli organismi viventi la cui esistenza si basa su leggi che sono le stesse che regolano il funzionamento del corpo umano.

Si potrebbe dire che la biologia considera la vita nei suoi aspetti più generali arrestandosi però di fronte a quello che per secoli è stato un enigma: la specificità della vita umana. Nella misura in cui il biologo, medico o ricercatore che sia, cerchi di risolvere l’enigma con la razionalità egli va incontro ad un riduzionismo biologico così come coloro che prescindono dai risultati acquisiti dalla scienza cadono in uno spiritualismo astratto.
Questa antinomia caratterizza lo stato attuale della discussione su ciò che va considerato specificamente umano.
Il neonatologo parte da precise conoscenze biologiche ed osservazioni cliniche.
Le conoscenze biologiche sono quelle dell’embriologia umana che considera lo sviluppo iniziale del feto come un moltiplicarsi iniziale di cellule indifferenziate. L’esperienza clinica sui parti prematuri indica che solo a partire dalla 24ª settimana il feto ha una possibilità di vita autonoma. Precedentemente a questa data non c'è nessuna possibilità di sopravvivenza.
Quindi si potrebbe pensare che c’è un momento preciso a partire dal quale più che di vita si possa parlare di una potenzialità di vita. Perché è ovvio per il medico neonatologo che si può considerare vivo il bambino solo alla nascita... Nessun cattolico d’altronde battezza un feto pur considerando vita un embrione, né peraltro viene battezzato un feto morto: nel Medioevo esistevano luoghi consacrati all’osservazione dei bambini nell’attesa di movimenti, a volte solo cadaverici, che potessero consentire la somministrazione del sacramento e la sepoltura in luogo consacrato.
Il neonatologo non si limita a considerare la vita generica, che è quella della cellula e degli organismi scarsamente differenziati, ma si spinge a individuare lo specifico della vita umana. a partire da quel momento in cui lo sviluppo morfologico e funzionale del feto è tale da permettere una nascita e non solo un prodotto abortivo.
Questo momento coincide con una maturazione corticale che rende possibili i processi primari aspecifici della sensibilità e lo strutturarsi di riflessi fra cui quello quello pupillare alla luce.
Come non ricordare che nel famoso film “Blade runner” al replicante non umano mancava proprio questo riflesso?
L’osservazione clinica del neonatologo mette in discussione quindi l’idea astratta di vita che prescinde dallo sviluppo biologico ed embriologico per contraddire la conclusione che è “vita” la morula come è “vita” il neonato,
Questa conclusione, erronea, inficiata da un presupposto spiritualistico, postula un “continuità" della vita umana che una volta instauratasi avrebbe sempre lo stesso valore e significato.
La neonatologia, basandosi sulla ricerca medica e quindi anche psichiatrica, parte dall’idea che lo sviluppo della vita fetale, a partire da un preciso momento, può, sotto l’influenza di stimolazioni specifiche fra cui quelle cutanee e della luce, che studi neurofisiologici, come quelli di Wiesel considerano fondamentali per l’inizio della maturazione corticale, andare incontro ad una trasformazione,
Se noi consideriamo la vita neonatale non solo sotto il profilo del “bios” e del “logos” potremmo poi spingerci a presupporre alla nascita l’attivarsi un pensiero alogico, irrazionale come matrice comune della vita mentale di tutti gli esseri umani.


pag.28

Nella fabbrica del doppio
Boncinelli: «La clonazione umana? Un bluff»
"Non è possibile produrre due persone identiche. La loro psiche sarebbe comunque differente"
di Simona Maggiorelli


I molti centri di fecondazione assistita all’avanguardia in Italia, da un anno, dacché è entrata in vigore la legge 40, lavorano a scartamento ridotto. I laboratori di ricerca sulle celule staminali embrionali sono fermi al palo, mentre gli scienziati italiani sono a un bivio: trasferirsi all’estero per continuare le ricerche oppure accettare di vedersi a poco a poco emarginati dalla comunità scientifica internazionale. Ma perché la ricerca fa così tanta paura a questa maggioranza? E da quali scenari di progresso scientifico l’Italia rischia di essere tagliati fuori? Lo abbiamo chiesto a Edoardo Boncinelli, docente di Biologia e Genetica presso l’Università Vita-Salute di Milano.
Professor Boncinelli quanto è importante la ricerca sulle cellule staminali e in particolare quella sulle staminali embrionali?
Tutti sono convinti, chi più chi meno, che il futuro della medicina, e quindi della salute, passa largamente per l’uso delle cellule staminali embrionali. Ma qui si pone un quesito. Ci sono tanti tipi di staminali: le embrionali, le fetali, quelle del cordone ombelicale e le adulte. Qualcuno dice che con le staminali adulte si può raggiungere ogni obiettivo. Se fosse vero, non varrebbe la pena discutere così tanto sulle cellule staminali embrionali. La verità è che nessuno oggi sa se questo è vero o falso. L’unico modo per saperlo è fare esperimenti. Certo quelle embrionali, per definizione, devono essere capaci di fare tutto, perché quello è il loro mestiere, dichiamo così, istituzionale. Per ora il tentativo di far regredire le cellule adulte non ha dato grandi risultati o sbaglio?
Dipende molto da chi parla, ognuno porta l’acqua al suo mulino. Bisogna distinguere anche qui, perché purtroppo c’è molta confusione. Infilare qualche cellula in un tessuto malato, nel cuore o in un nervo, dà grandi speranze. Non è detto, però, che l’efficacia immediata sia duratura. La vera speranza per il futuro, e di cui purtroppo si parla poco, non è seminare una cellulina qua e una là, ma fare in laboratorio parti di organo o interi organi. Per questo le adulte hanno probabilità piuttosto basse di funzionare. Negli animali, soprattutto nel topo, le embrionali si sono rilevate estremamente produttive. A priori, se non ci fosse la disputa ideologica, uno punterebbe tutto proprio sulle staminali embrionali.
Nel dibattito sulla legge 40 c’è chi, come il ministro Giovanardi, ha paragonato la fecondazione assistita all’eugenetica.Quanto a sproposito?
L’eugenetica è stata tirata in ballo contro la diagnosi preimpianto. Vietare questo tipo di esame è, a mio avviso, la parte più sbagliata della legge. È un presidio importantissimo, quasi miracoloso, rinunciarci lo trovo assurdo. Dicono che con la diagnosi genetica si sacrificano degli embrioni -in realtà a questo stadio molto precoci, sono solo di otto cellule - per fare dell’eugenetica, intendendo per eugenetica la scelta di certi individui piuttosto che altri. Ma se far nascere bambini non malati può essere inteso come un capitolo di eugenetica, si tratta, a mio avviso, di una pratica sacrosanta. Tutti più o meno consapevolmente tentano di dare ai propri figli il meglio possibile. Comunque sia non siamo minimamente a questo livello. La diagnosi preimpianto oggi serve solo a evitare persone sicuramente malate, non a produrre persone con questa o quella caratteristica biologica desiderata.
E la clonazione tanto paventata?
Un termine esecrando, in nessun laboratorio si parla di clonazione, si parla di clonaggio. Se ne parla da 30 anni ma i media se ne sono accorti ora. La clonazione è uno spauracchio agitato perché si confonde la cosiddetta clonazione riproduttiva dalla cosiddetta clonazione terapeutica che sono, peraltro, due dizioni inventate dai media. Uno scienziato non utilizzerebbe mai termini così babbei.
Proviamo allora a fare chiarezza.
Per clonazione riproduttiva s’intende fare un bambino o una bambina partendo da una o poche cellule. Non è detto che fra dieci anni non sia possibile, ma non è lo scopo che interessa davvero agli scienziati. Per clonazione terapeutica s’intende produrre, non un bambino, ma tessuti o parti di organo o organi interi. La parola clonazione è la stessa, ma ci si può accoltellare quanto si vuole, sono e restano due concetti completamente diversi. Chi non è mai entrato in un laboratorio e non sa come funziona può dire: ma se noi autorizziamo queste procedure finalizzate alla clonazione terapeutica e qualcuno, sotto banco, prosegue le ricerche e arriva alla clonazione riproduttiva? Io non credo che ciò sia possibile, né probabile, ma se questo dovesse accadere bisogna proibirlo come si fa per altre cose. Ma non posso, poiché qualcuno potrebbe usare un martello per ammazzare il vicino, impedire la vendita dei martelli.
Arrivare a fare due individui identici sarà mai possibile?
Facciamo un’ipotesi di scenario. Supponendo che fosse possibile fare una clonazione umana; cosa che ancora non è. Si prende una mia cellula e da lì si comincia. Ma devo - cosa non facile - trovare una mamma compiacente, che ospiti questo bambino nell’utero visto che, per ora questo passaggio, non è evitabile. Alla nascita poi questo bambino avrà avrà 65 anni di meno di me. Dovrò aspettare che abbia una certa età per vedere come è fatto, come si comporta, cosa pensa. Che garanzia ho che mi somigli? Certo se ne faccio un milioni di cloni ne troverò uno che mi somigli. Ma se ne faccio uno, due, tre o anche dieci con ogni probabilità non mi somigliano neanche fisicamente. Ma soprattutto non avrà mai una psiche identica alla mia, perché si sviluppa negli anni. Alla fine osa ci avrei guadagnato? Avrei un figlio, semplicemente un figlio, il quale tenderebbe a differenziarsi, come fanno tutti i figli che si rispettino. Sarebbe una clonazione per ridere. Certo una coppia che non ha avuto figli o che ne ha perso uno da poco, potrebbe voler fare una sostituzione, ma sarebbe un feticcio. Come chi gli muore il cagnolino e ne compra un altro, come un giocattolo e che non sarà mai identico al precedente. Qualcuno contrario alla clonazione potrebbe dire che non si tratterebbe di un’azione a favore del figlio ma per se stessi. Ma in questo caso allora vorrei sapere quanti genitori “normali” mettono al mondo un figlio solo per il figlio stesso. Il discorso, insomma, andrebbe allargato a una riflessione generale sulla genitorialità.
In Italia pare ci sia già chi fa sperimentazione su embrioni comprati all’estero. Con l’obbligo di cedere, però, i ricavi di eventuali brevetti.
Questo è possibile se si parla di linee cellulari, più che embrioni veri e propri. Ci sono molte linee cellulari in commercio. E tutti fanno finta di non saperlo, ecco un altro paradosso. Che ci possano essere dei brevetti mi pare dura. Non ho nessuna stima della ricerca nel nostro paese. O l’Italia dà una sferzata e cambia direzione, oppure parlare di ricerca italiana penalizzata diventa una barzelletta. Beninteso l’attacco alla ricerca oggi c’è ed è fortissimo. Ma in Italia né destra né sinistra hanno interesse che la situazione cambi. Il fatto è che la scienza produce nuove idee, produce novità e può dare una visione del mondo e dell’uomo che ai tradizionalisti proprio non piace.

pag.29
l'opinione
Cancellati 2000 anni di diritto
di Francesco Dall'Olio

sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma

Qualche tempo fa’ richiesto da un caro amico, direttore della Rivista “Il Sogno della Farfalla”, di scrivere alcune note di commento alla legge n.40\2004 in tema di procreazione assistita avevo iniziato quel breve articolo dicendo che “Abbiamo sempre creduto e ci hanno sempre insegnato che la legge non stabilisce quali sono i diritti inviolabili dell’uomo ma li riconosce e li garantisce” e d’altra parte questa è proprio la formulazione usata dalla nostra Costituzione Repubblicana all’ art. 2.
Leggendo invece le prime righe del testo della legge n.40\2004 - Norme in materia di procreazione medicalmente assistita - ci accorgiamo che una legge dello Stato, anziché limitarsi a disciplinare il concreto esercizio di un diritto fondamentale, quale è quello di generare un altro essere umano, in quelle ipotesi in cui, a causa di sterilità o infertilità non è possibile la procreazione spontanea, limiti tale diritto in nome di una ideologia non confessata ma chiaramente confessionale arrivando alla compressione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti e facendo a pezzi 2000 anni di diritto stabilendo, per la prima volta nella storia, che anche il “concepito” è un soggetto dell’ordinamento giuridico.
Oggi, nel rileggere quelle frasi, dico che forse mi sembrano insufficienti e non adeguate ad evidenziare l’inganno e l’ipocrisia di una operazione “culturale” che, dietro il volto formalmente ineccepibile della opinione popolare che, attraverso meccanismi formali e giuridici assume la forma della legge, vuole in realtà affermare che 2500 anni di storia è come se non fossero mai passati, che le enormi conquiste sociali, civili giuridiche e scientifiche degli ultimi due secoli è come se non vi fossero mai state, che le donne non devono pensare, ma solo partorire e partorire nei tempi e nei modi che vengono loro dettati dalla società, dalla chiesa, dalla morale, e infine dai mariti e poco male se nel partorire moriranno o daranno alla luce un povero infelice perché in fondo la morte non è che l’inizio di una vita migliore e assistere per tutta la vita chi la vita non saprà mai che cosa è è meglio che impazzire per il senso di colpa di aver rifiutato un “dono di dio”.
Inganno ed ipocrisia tanto più gravi se posti in essere attraverso la legge di uno Stato laico che ha abolito la “religione di Stato” (anche se solo pochi anni fa, che riconosce e garantisce da quasi trenta anni il diritto delle donne di abortire, che lega il concetto di vita umana a quell’evento di originalissima, personale ed irreversibile trasformazione che è la nascita...
Già, la nascita.
Ma se ci fermiamo un momento ad esaminare questo termine vediamo che possiamo accostarlo a quella locuzione così cara a noi legulei che lo traduce in “venire ad esistenza”. Proprio questa ultima espressione, per quanto molto meno poetica del termine nascita, è tuttavia illuminante ai nostri fini perché, nella misura in cui descrive un passaggio, una dinamica tra un prima e un poi, laddove questo “poi” è l’esistenza, necessariamente il “prima “ è la non-esistenza e poiché non può trattarsi di una non-esistenza materiale (il feto è tutt’altro che immateriale) deve per forza trattarsi di una non-esistenza concettuale.
In altre parole il feto non è un essere umano o per lo meno non lo è ancora.
La conclusione, che in questi termini può apparire addirittura sgradevole, è tuttavia pacifica da tempo immemorabile in diritto e affonda le proprie radici nel diritto romano per passare indenne nel diritto intermedio e giungere fino ai giorni nostri con la statuizione dell’art. 1 c.c. (la capacità giuridica si acquista con la nascita - i diritti che la legge riconosce al concepito sono subordinati all’evento della nascita) o le norme in tema di omicidio, ben differenziate da quelle in tema di procurato aborto.
Il feto nell’utero materno è una meravigliosa aspettativa di vita umana ma non lo è ancora.
Anche se però, questa frase potrebbe prestare il fianco ad una facile obiezione di tipo logico.
Si potrebbe infatti sostenere che il feto nell’utero pur non potendosi definire “vivo” è però sicuramente “vitale” e pertanto vi è “vita”; d’altro canto poiché il feto è il prodotto del concepimento tra due esseri umani la sua presenza nell’utero materno può senz’altro essere definita come “vita umana”.
L’obiezione può però essere superata con l’uso di termini che, a questo punto, appaiono senz’altro più appropriati dicendo quindi che se anche al feto può essere riconosciuta la qualità di vita umana ciò che invece certamente non gli può essere riconosciuta è la qualità di “essere umano” giacchè tale qualità è acquisita solo con la nascita o “venuta ad esistenza”.
Ma se tale è la situazione c’è da domandarsi in base a quale principio una legge dello Stato arrivi a travolgerne un’altra (e tra l’altro non una qualsiasi ma il primo articolo del codice civile!).
Senza entrare, come abbiamo detto prima, nella disamina tecnica delle singole norme, vogliamo però ancora una volta sottolineare quella petizione di principio contenuta proprio nell’art. 1 della legge che sotto la rubrica “Finalità” afferma che ”…la presente legge assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”.
La legge, finalizzata formalmente alla disciplina della procreazione assistita, si indirizza invece più nella direzione di delimitare la ricerca e la sperimentazione sugli embrioni umani arrivando a farlo con la minaccia di sanzioni penali gravissime (per la clonazione si arriva a prevedere la reclusione da 10 a 20 anni).
In realtà tale osservazione, pur corretta, è tuttavia limitata ad una visione statica del pensiero sotteso al provvedimento normativo nel senso che, come pure già è stato osservato da parte dei più avveduti, questo testo sembra essere solo il primo passo verso la affermazione di quel principio - esclusivamente religioso -secondo il quale la vita umana inizia con il concepimento e non con la nascita.
Tra le conseguenze sul piano giuridico della affermazione di un tale principio ci sarebbe la illegalità dell’aborto, anche solo terapeutico.
Che questa sia la finalità della legge è provato anche da quell’assurdo divieto di riduzione embrionaria in caso di gravidanze plurime che costringe ad impiantare nell’utero anche embrioni che si sa per certo sono affetti da alterazioni genetiche; l’inciso “salvo nei casi previsti dalla legge 194/78” - legge sull’aborto - appare, nella sua ovvietà e doverosità, così formale da risultare ipocrita e, ci si scusi il termine, anche schizofrenico, soprattutto nella misura in cui, da un lato, costringe la donna a subire l’impianto di un embrione malato, dall’altro le permette poi di abortire quello stesso embrione proprio perché malato.
Un altro elemento che dimostra chiaramente come l’intera legge sia il portato di una fortissima ideologia religiosa è quello costituito dal divieto della c.d.”fecondazione eterologa”.
Ora, a parte che, come è stato rilevato da eminenti clinici, la fecondazione può dirsi eterologa in senso biologico solo quando avviene tra specie diverse per cui tra esseri umani la fecondazione è, per forza di cose, sempre omologa, va comunque rilevato che nel nostro ordinamento giuridico non esiste alcun obbligo di procreare solo ed esclusivamente all’interno della coppia legalmente formata e riconosciuta (i coniugi) tanto è vero che, sparito il reato di adulterio e posto che la relazione extraconiugale in tanto può avere delle conseguenze giuridiche solo in quanto il coniuge “fedele” intenda attribuirgliene (magari intentando una causa di separazione) i figli eventualmente nati “fuori del matrimonio”, come suol dirsi, possono benissimo essere “riconosciuti” ed acquistare tutti i diritti e i doveri dei figli nati “nel matrimonio” senza contare che, fatta eccezione per il disconoscimento di paternità, lo Stato non interviene mai nella verifica della discendenza “biologica”.
Se invece decide di farlo, come nel caso della legge in esame, vietando la fecondazione medicalmente assistita mediante l’utilizzo di un donatore “esterno” alla coppia, ne dovrebbe trarre tutte le ulteriori conseguenze ripristinando il reato di adulterio e vietando il riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio avuti con un soggetto “estraneo” perché non sarebbero “figli della coppia” ma di uno solo dei due.
La violenza e la follia insite in simili conseguenze sono evidenti a tutti eppure, anche da esponenti della politica e della cultura c.d. ”laica” non mancano voci favorevoli al mantenimento del divieto argomentando che lo stesso troverebbe la sua giustificazione non in una generica “morale religiosa” quanto piuttosto nel diritto del nascituro a poter contare su una ascendenza biologica “certa” e “verificabile” cosa che non potrebbe aversi se uni dei due genitori “biologici” rimanesse anonimo come è appunto nel caso della fecondazione “eterologa”. Ora a parte la assoluta opinabilità circa la opportunità del riconoscimento di un simile diritto (ammesso e non concesso che lo sia!) ma chi sostiene questa tesi sembra dimenticare del tutto che nel nostro ordinamento l’istituto della “adozione” è tutto orientato nel senso esattamente opposto, nel senso cioè di ritenere che la vera ed unica famiglia è quella di adozione nell’ottica di un “hic et nunc” che appare l’unica via per un sano percorso di crescita e sviluppo dei minori
Questo ci induce a riflettere e dire che anche per il legislatore (non certo quello della legge 40) la figura genitoriale che rileva non è affatto quella “biologica” ma quella che nel rapporto quotidiano con il bambino, col ragazzo, con l’uomo, si propone e si rapporta come tale, provvedendo ai suoi bisogni e alle sue esigenze non per un vincolo di sangue ma per uno d’amore.

(Nella versione a stampa l'articolo è stato accorciato per motivi di spazio)
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