Repubblica 5 LUGLIO 2005
A proposito di alcune recenti discussioni e di un tema eterno
Il vero incontro tra chi crede e chi non crede
Il ricordo di un confronto con un giovane padre gesuita
C'è un libro di Rusconi che riflette sull'argomento
ALBERTO ASOR ROSA
Curioso. Anzi, doppiamente curioso. Papa Ratzinger, nel suo ultimo libro (di cui il Corriere della sera, 16 giugno u.s., pubblica lo squarcio probabilmente più significativo, inteso come proposta di pace ai laici), suggerisce loro, dal momento che non riescono a trovare la via dell'accettazione di Dio (sic), che dovrebbero «comunque cercare di vivere e indirizzare la loro vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse». È una proposta che il Presidente del nostro Senato, quella laicissima figura d'intellettuale laico che è Marcello Pera, si affretta, nella prefazione al libro, a dichiarare pienamente accettabile e che a me invece sembra avviare ancora una volta il dialogo tra laici e cattolici, fra credenti e non credenti, lungo rotte assolutamente inconciliabili.
Io pensavo infatti che la credenza in Dio fosse un fatto sostanziale e non puramente comportamentale o addirittura pedagogico (e quindi necessariamente strumentale: «come se...»). Se dovessi comportarmi da laico come se Dio esistesse, troverei molto più semplice e corretto credere che Dio esista: in caso contrario avrei tutti gli svantaggi e nessun vantaggio dal fatto di non aver fede. Se sono laico seriamente, bisogna che il mio sistema di valori, buono o cattivo che sia, discenda dalla mia assenza di fede, e non dalla supposizione che, pur non essendoci fede, potrei/dovrei comportarmi come se ci fosse.
È curioso che un teologo come Ratzinger non avverta i limiti e la pretestuosità un po' offensiva della sua proposta (sul cui senso tuttavia tornerò più avanti).
Doppiamente curioso che non tenga conto, neanche per opporlesi, che la formula che ha avuto più corso nel dibattito etico-religioso degli ultimi decenni è l'altra, quella opposta alla sua: veluti si Deus non daretur, come se Dio non ci fosse. Anche a prescindere dal fatto che proprio in queste ultime settimane l'ha ripresa su MicroMega Paolo Flores d'Arcais, ricorderò che solo pochissimi anni fa un intellettuale (laico, ma inquietamente attento ai problemi della spiritualità religiosa) come Gian Enrico Rusconi, ha pubblicato un libro intitolato per l'appunto Come se Dio non ci fosse (Einaudi, 2000), che io recensii allora su queste colonne (la Repubblica, 13 febbraio 2001).
Piuttosto che riassumere imperfettamente i contenuti, preferisco suggerire di leggerselo (o rileggerselo).
Mi basta qui rammentare soltanto che Rusconi (il quale, è appena il caso di rilevarlo, sottoponeva da laico la sua proposta a quanti fra i cattolici svolgessero attività nella vita politica e civile democratica) poggiava gran parte delle sue argomentazioni sulle posizioni teologiche ed etico-politiche di Dietrich Bonhoeffer. Ora, è ben vero che il pensiero di un pastore protestante tedesco, tacciato di deviazioni immanentistiche anche dall'interno delle sue stesse file, e finito impiccato dagli aguzzini nazisti, non può esser paragonato a quello di un Pontefice Romano, per giunta in un momento in cui la Chiesa cattolica appare particolarmente triumphans. Il richiamo serve però a dimostrare inequivocabilmente che due forme dello stesso (alla fin fine) pensiero religioso, quello cristiano, misurato al metro del medesimo problema, possono andare in due direzioni completamente diverse.
Per evitare che ancora per qualche secolo (o millennio) credenti e non credenti si rimbalzino reciprocamente il consiglio di usare una delle due formule, la domanda corretta secondo il mio punto di vista potrebbe essere: non esiste una terza posizione, un veluti si diverso e meno coercitivo, fra il veluti si Deus daretur, che il Papa attuale chiede autorevolmente ai non credenti, e il veluti si Deus non daretur, che alcuni intellettuali laici, forse non altrettanto autorevolmente, ma, penso, con identica onestà intellettuale, chiedono ai credenti?
Alcuni anni or sono fui invitato da un giovane e intelligentissimo padre gesuita a discutere in una sede ecclesiale dei rapporti tra fede/non fede ed etica. Mi dispiace di non poter argomentare tutti i passaggi della ricca discussione, che vide in veste di mio interlocutore un altro prelato, anch'esso di molta dottrina e grande apertura, ma mi sembra che possa qui bastare riassumerne la conclusione. La diversità delle tradizioni, delle esperienze, dei modi di vita e... delle fedi non ci impedì, mi pare, di convenire che il punto d'incontro, proprio in questo particolare momento storico (fra l'una e l'altra guerra irachena, per intenderci), andava cercato nel «partecipare alla passione dei propri simili, condividerne le sofferenze e le gioie, aprirsi all'aiuto dei bisognosi».
Una formula eterna, mi si obietterà, ma che vuol dire? In questo campo quel che valeva nel III secolo vale anche per il XXI, e oltre.
E cioè: «Solidarietà» (parola mia) e «Compassione» (parola del mio interlocutore), ma soprattutto la loro pratica attiva e conseguente, sia che Dio ci sia sia che Dio non ci sia, perché l'effetto sugli uomini in ambedue i casi sarebbe stato lo stesso. Non a caso il mio interlocutore citava, a sostegno del nostro ragionamento, quel famoso passo del Vangelo di Matteo, in cui si descrive il momento in cui il Figlio dell'uomo separerà i salvati dai dannati:
«Venite, benedetti del padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo.
Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ecc.» (Mt 25, 34,35). E aggiungeva il mio interlocutore: «E questi li considera salvati per la vita eterna, anche se non conoscevano il Cristo».
Insomma: c'è chi crede nella vita eterna e c'è chi non crede. Ma questa distinzione radicale, che io considero onestamente un valore, non impedisce la comunione dei giusti, se giusti sono e se non pretendono, proprio in quanto giusti, d'imporre agli altri, a seconda dei casi, la propria fede o non fede. Non bisogna richiedere una condizione, bisogna esser capaci di offrire una disponibilità, un dono.
Mi rendo conto che è più facile enunciare queste proposizioni che poi, una volta enunciate, tradurle in realtà. Vorrei aggiungere tuttavia un'ulteriore considerazione, relativa all'altra battaglia che Ratzinger non da oggi animosamente conduce, quella contro il «relativismo" della cultura laica radicale. Qui si potrebbe sommariamente osservare che una parte della cultura laica è tutt'altro che relativistica: anzi, crede con assoluta fermezza nei propri valori, pur senza pensare che la loro fonte sia da cercare in qualche entità o insegnamento soprasensibili. Tra questi valori, non c'è dubbio, occupa uno dei primi posti la libertà. Credere con assoluta fermezza nel principio di libertà significa credere che ogni libertà è accettabile e dunque va promossa? Non credo: anche se credo che la spinta di libertà sia il movimento di fondo del mondo moderno che nessuno può arrestare o costringere dentro i lacciuoli di un qualsiasi magistero, laico o ecclesiale che sia.
Qui m'arresto, consapevole, lo ripeto, che proprio qui cominciano i problemi decisivi: quelli dell´etica individuale e collettiva, del rapporto uomo-natura, della biologia, della ricerca scientifica. In generale non mi sentirei di dir che la pratica del principio di libertà debba andare esente da una regolata misura di equilibrio, da un criterio di com-partecipazione che magari rallenti il processo ma lo renda più condiviso e più solido. Anche questo, nella mia visione, è laico.
Ma, per concludere, non mi pare che il problema in questo momento sia la tracotanza di una cultura laica, piuttosto in difficoltà se mai a causa delle esperienze storiche degli ultimi decenni. Non userò una parola altrettanto forte. Ma non c´è dubbio che in Italia il problema sia la forte pressione della gerarchia cattolica a re-impadronirsi egemonicamente di tutti i terreni dove trovano la loro peculiare collocazione le libertà di coscienza, di ricerca, di espressione e di comportamento. Chiederci di comportarsi veluti si Deus daretur, è come dirci: guardate che da soli non ce la potete fare. Bene, io penso che ce la faremo.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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