martedì 12 luglio 2005

inglesi... e altri
libri ed emozioni

La Stampa 12 Luglio 2005
Psicologia? No, grazie
Un saggio inglese contesta la dittatura delle emozioni nella nostra società
I PERICOLI DI UN USO SCONSIDERATO
Elena Loewenthal

C’era una volta il bambino scalmanato: quello che ispirava un miscuglio di rabbia e compiacenza. Ora non esiste più, estinto dalla vita e dal vocabolario. Al suo posto è sorto il bambino «iperattivo» oppure affetto da una sindrome: carenza di attenzione. Insieme al bambino scalmanato ne sono spariti tanti altri, esuli in chissà quale isola che non c'è: uno per tutti, a titolo d'esempio, quello incline alla malinconia. In compenso, pullulano i bambini depressi e tanti altri sono capaci, già a cinque o sei anni, di dire di sé che sono «stressati». Queste mutazioni non sono né genetiche né lessicali: rientrano invece, secondo Frank Furedi, professore di sociologia all'università del Kent in Inghilterra, nel contesto di quello che lui chiama Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, ed è anche il titolo del suo libro (pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Lucia Cornalba, pp. 294, 25 euro). Questo conformismo ha prodotto, secondo Furedi, la morte del difetto, sostituito dal «disturbo». E come in una proiezione speculare dagli interessanti risvolti semantici, invece del binomio colpa-responsabilità ecco affermarsi l'universo delle «carenze».
Furedi parte da un'analisi di alcuni fenomeni collettivi per riscontrare una presenza capillare, quasi endemica, della terapia di supporto psicologico. Nel mondo del lavoro, in quello della scuola, nell'attualità più cocente, si è ormai creato uno stato di necessità permanente, in fatto di sedute per medicare i sentimenti. Negli ultimi anni una buona strategia di marketing terapeutico avrebbe creato una massiccia domanda di servizi terapeutici, tale da rendere inevitabili il ricorso a questo supporto e la totale fiducia nella sua efficacia. A dire il vero Furedi se la prende più con le istituzioni e l'opinione pubblica che con gli esperti, cioè i terapeuti. Ma questo libro lascia scossi.
Perché in fondo mette in discussione ciò che è il vero, unico tabù del nostro mondo: l'inviolabilità dei sentimenti. Mentre Martha Nussbaum ci racconta che le emozioni non sono un residuo della conoscenza bensì la sostanza vera dell'umano pensare (L'intelligenza delle emozioni, pubblicato in italiano da Il Mulino), Furedi dichiara con buona dose di scorrettezza politica di non voler sottostare alla dittatura delle emozioni che, oggi come oggi, esigono secondo lui un'attenzione costante, prioritaria e infarcita di luoghi comuni. Il caso del lutto è esemplare: per Nussbaum la summa della sua riflessione intorno alle emozioni parte proprio dall'esperienza della perdita della madre. L'elaborazione del lutto è maieutica, è il battistrada verso la conoscenza. Per Furedi il lutto è il caso più tipico di un'evoluzione che non gli piace troppo. Venuti meno i canoni della religione e abolito - se non formalmente certo nella percezione della sua rilevanza - il rituale di lutto, quest'ultimo è divenuto un procedimento mentale, più cervellotico che sofferto. Invece del dolore, una introspezione tanto macchinosa quanto stereotipata. Si è persa, qui come in tanti altri casi, la spontaneità del sentimento, che la terapia vuole invece inquadrato entro i propri canoni: il sociologo constata l'affermazione di un vero e proprio determinismo delle emozioni, incapace di ammettere pulsioni e comportamenti «alternativi» a quelli catalogati.
In questo senso, tale «nuovo conformismo» ha ben presto creato una serie di stereotipi e alcuni guai cui va rimediato prima che sia troppo tardi. Innazitutto, il codice terapeutico stabilisce una scala di valori nelle emozioni: ci sono quelle «buone» e quelle «cattive». «Gli uomini che si comportano da donne vengono nettamente preferiti alle donne che si comportano da uomini. Nella gerarchia emotivamente corretta del comportamento virtuoso, al primo posto vengono le donne femminili. Al secondo posto, prima delle donne mascoline, vengono gli uomini femminili. E naturalmente l'uomo mascolino, il “macho”, si colloca al gradino più basso». Eppure oltreoceano sembra già avviato un processo di riabilitazione del maschiaccio. Una risposta serenamente polemica a Furedi si trova implicita nel nuovo libro - denso di sfumature - di Marina Valcarenghi, L'insicurezza. La paura di vivere nel nostro tempo (Bruno Mondadori).
L'enfasi sulle emozioni, così coccolate sul lettino, determina ancora per Furedi un involontario isolamento dell'io, la tendenza all'individualizzazione. Zeno e la sua ultima sigaretta la dicono lunga in proposito: la psiche è un essere esigente, piuttosto geloso, incline al solipsismo.
Il conservatorismo indotto da troppa psicologia, conclude Furedi, provoca un processo che potrebbe risultare, alla lunga, pericoloso. Perché a forza di catalogare le emozioni si finisce per proietttare «un'immagine di un sé passivo che non corre rischi, ma piuttosto è a rischio. In questo scenario il ruolo dell'individuo come soggetto di sperimentazione e di trasformazione è semplicemente estinto.» Si può essere e non essere d'accordo, ma non ci si può esimere dal riflettere intorno all'implicito imperativo con cui il saggio si conclude e che si riassume più o meno così: «Provare, per non credere».