martedì 12 luglio 2005

neuroscienziati americani ed epigoni
ansia...

Repubblica.it 11 luglio 05 07-11
Studio condotto dai ricercatori americani del Nimh
Sperimentazione su pazienti affetti da sindrome di Williams
"La causa genetica dell'ansia è scritta nel cromosoma sette"
Una ricerca in laboratorio

ROMA - I disturbi d'ansia avrebbero cause genetiche precise. Lo rivela uno studio condotto da un gruppo di ricercatori americani del National Institute of Mental Health Clinical di Bethesda, pubblicato su Nature Neuroscience. La ricerca è stata condotta su pazienti affetti da sindrome di Williams, una patologia congenita non ereditaria che interessa l'area cognitiva, comportamentale e motoria.
I soggetti colpiti da questa sindrome, che colpisce un neonato su 20mila, evidenziano livelli d'ansia superiori alla media. Per questo gli scienziati hanno esaminato 13 persone affette dalla sindrome (scelti tra quelle che non presentavano ritardo mentale, così da escludere effetti dovuti a problemi cognitivi) verificando le reazioni a immagini minacciose o paurose. Oltre ai 13 pazienti con sindrome di Williams, sono stati osservati altrettanti volontari sani, accoppiati in base all'età, al sesso e al quoziente d'intelligenza.
I dati raccolti hanno rivelato che nei pazienti affetti da sindrome, la parte del cervello da cui dipendono le emozioni negative come rabbia o paura, detta amigdala, funziona in modo anomalo: si attiva meno del normale in risposta a volti arrabbiati, mentre si iperattiva di fronte a immagini paurose. Da qui la conclusione degli autori: "Poichè la sindrome è causata dalla mancanza o dalla mutazione di alcuni geni del cromosoma 7, è probabile che alcuni di questi geni siano responsabili della formazione del 'circuito' da cui dipende il controllo dell'ansia".
Secondo i ricercatori, "ulteriori indagini sui geni implicati nella sindrome di Williams permetteranno di comprendere meglio il rapporto tra geni, caratteristiche cerebrali e sviluppo del comportamento sociale umano".

Il Mattino 12.7.05
Le radici dell’ansia nel cervello e nei geni
FEDERICO UNGARO

Le radici dell'ansia si nascondono nel cervello e forse anche nei geni. Le notizie emergono da due studi diversi, pubblicati su due prestigiose riviste scientifiche: Proceedings of the National Academy of Sciences e Nature neuroscience. Coordinati da Mohammed Milad, gli scienziati del primo gruppo appartenenti al Massachusetts General Hospital, pensano di essere riusciti a dare risposta a un interrogativo antico: perché alcune persone dopo delle esperienze traumatiche, dure, si trovano a fare i conti con attacchi di ansia per il resto della loro vita mentre altre persone, con le stesse esperienze, sembrano più forti e dimenticano? L'esempio classico dell'ansia generata da trauma è quello del soldato coraggioso, che al rumore di una marmitta bucata entra in uno stato di stress, pensando di essere finito nuovamente in trincea. Il fenomeno è ben noto agli psichiatri: un suono o un rumore risveglia nella mente il ricordo dell'evento traumatico e scatena una risposta da parte del nostro organismo. Generalmente però con il passare del tempo questi ricordi sbiadiscono e a poco a poco il fatto di risentire il rumore ma di non rivivere direttamente l'esperienza traumatica non scatena più la risposta emotiva esagerata. I ricercatori hanno scoperto che tutto dipende dalla corteccia prefrontale ventromediale, una regione che occupa la superficie inferiore del cervello. Sono le sue dimensioni infatti a regolare il modo con cui una persona reagisce all'evento e se riesce o meno a dimenticare nel tempo l'evento traumatico. Lo studio, condotto su 14 volontari, ha evidenziato che i pazienti con la corteccia prefrontale più spessa riescono a gestire meglio i ricordi stressanti. «La nostra ipotesi - commenta Milad - è che una corteccia più grande sia in grado di proteggere dai disturbi di ansia. Una più piccola al contrario potrebbe essere un fattore di predisposizione». Il secondo studio, invece, si è focalizzato su un'altra regione cerebrale, quella dell'amigdala. Questa struttura, a forma di mandorla, ha un ruolo molto importante nel regolare i comportamenti sociali. Per scoprire i meccanismi legati al suo funzionamento, i ricercatori del National Institute of mental health americano hanno osservato il cervello di due gruppi di volontari. Tredici erano sani; altrettanti invece erano soggetti colpiti da una malattia chiamata sindrome di Williams, di origine genetica, che dipende dalla mancanza di 21 geni sul cromosoma 7. Chi ne è colpito tende a essere particolarmente socievole: in pratica è così fiducioso che non teme mai di entrare in relazione con gli altri, anche quando in realtà avrebbe tutti i motivi per farlo, come di fronte a qualche brutto ceffo. I ricercatori hanno mostrato ai portatori della malattia delle immagini di visi spaventosi, mentre nel frattempo eseguivano una risonanza magnetica cerebrale del loro cervello. E hanno confrontato i risultati con quelli ottenuti sui volontari sani. Si è così visto che l'amigdala si attivava immediatamente nei volontari sani, mentre in quelli con la malattia genetica la risposta era molto più limitata. Al contrario, se la scena era priva di figure umane, ma era altrettanto paurosa (come un incidente aereo), l'amigdala dei malati funzionava a livelli maggiori di quella dei sani. E anche la reazione emotiva era molto più accentuata. Insomma in questi pazienti l'amigdala funziona nel momento sbagliato. Dunque lo stesso potrebbe avvenire nelle persone che soffrono di disturbi d'ansia, mentre il fatto che la sindrome di Williams sia genetica induce a sospettare che anche i geni mettano il loro zampino.

Il Mattino 12.7.05
«Ma biologia e psicologia sono fattori inestricabili»
f. ung.


Terapie a base di farmaci ma anche esposizione graduata a ciò che ci causa l'agitazione. Questi i segreti per battere i disturbi legati all'ansia. Lo spiega Alberto Oliverio, psicobiologo dell'Università La Sapienza di Roma e autore di molti saggi sul cervello umano. Professor Oliverio, i disturbi di ansia sembrano in grande crescita soprattutto nei Paesi occidentali. Come possiamo batterli? «Oggi si tende a usare una duplice strategia che vede il ricorso agli psicofarmaci, ma anche l'esposizione graduale del paziente alla sorgente della sua paura». Cioè? «È molto semplice: se io ho le vertigini, a poco a poco inizio a cercare di vincere la mia paura esponendomi a essa. Ad esempio prima salgo su una sedia, poi mi sporgo dalla finestra al primo piano, poi da un terrazzo, fino a salire in montagna. Generalmente i risultati sono positivi». Come funzionano invece gli psicofarmaci? «I più usati e moderni sono i cosiddetti inibitori della noradrenalina. Il principio del loro funzionamento si basa su quanto scoperto dagli studi recenti e cioè il fatto che particolare aree cerebrali, tra cui l'amigdala, si attivano in modo molto forte quando il soggetto sperimenta un evento traumatico. Il farmaco interviene cercando di riportare il funzionamento su standard più regolari». Esistono controindicazioni al loro uso? «In effetti si discute molto sulla loro utilità anche dal punto di vista etico. L'esempio è quello dei soldati che tornano traumatizzati da una guerra. Quando i ricordi riemergono, è possibile usare questi farmaci per tenerli sotto controllo. Però si finisce con l’inibire le emozioni. E magari, allo stesso soldato durante il conflitto erano stati somministrati altri farmaci che ne stimolavano l’aggressività». Come la grappa distribuita ai soldati prima degli attacchi durante la prima guerra mondiale? «Anche, ma penso soprattutto alle anfetamine, diventate di uso comune dall'ultima guerra in poi. In questo caso il problema etico di che cosa sto facendo alle emozioni del mio paziente non è secondario». E la soluzione a questo problema? «Se ne discute ancora. In America è prassi comune usare questi farmaci sulle vittime di traumi come le violenze sessuali per tenerle più calme quando vengono ricoverate in pronto soccorso». Le ultime ricerche puntano su geni e cervello. L'ansia ha dunque radici biologiche più che psicologiche? «Non possiamo dirlo con certezza. O meglio si tratta di un circolo. In realtà i due fattori sono inestricabili».