domenica 10 luglio 2005

Flores d'Arcais contro il clerico populismo
...l'invettiva è qualcosa, ma non basta

L'Unità 10 Luglio 2005 (dalla prima pagina di oggi)
L’invasione dei clerico populisti
Il nuovo crociato? È il clerico populismo
di Paolo Flores d’Arcais

C’era una volta il clerico-fascismo. Per fortuna, adesso non c’è più. Contro la democrazia liberale, però, si annuncia ormai un nuovo crociato: il clerico-populismo videocratico e piduista, dell’aspersorio e dello squadrismo padano, che tra madonne di Medjugore e santi franchisti vuole salvare l’Occidente - ormai frollo e secolarizzato dal dubbio - imponendo per legge a tutti i cittadini i precetti e le verità di santa romana chiesa.
Tutto questo nell’indifferenza garrula dei «cittadini» retrocessi a consumatori (oltretutto sempre meno opulenti) dalla partitocrazia e dalla politica/spettacolo.
Tutto ciò nell’acquiescenza irresponsabile di gran parte del mondo «laico» (e delle sue «avanguardie» ormai dedite al bacio della pantofola), e nella lucidità emarginata di sparute minoranze democratico-coerenti (epperciò laiciste) bollate di neo-dogmatismo, nichilismo morale e dittatura del relativismo (tutto e il contrario di tutto, insomma, e tanti saluti all’abc della logica).
Il clerico-fascismo non c’è più, e nella storia nulla si ripete identico. Non ci si balocchi però con la favola che ogni tragedia si replica in farsa. Dietro (e dentro) la farsa di regime, che supera da tempo l’immaginazione comica più sfrenata, tracimano le tossine liberticide prodotte dalla santa alleanza tra peronismo mediatico e clerico-revanscismo.
Tracimano a tal punto, da sedurre anche chi si vuole liberale (il primo quotidiano del paese, ad esempio) e vede ormai ovunque timore e tremore di dirsi cristiani, anziché l’empia alleanza tra una fede dogmatica ridotta all’embrione e l’ateo-consumismo videocratico «tette e culi». Che alla «imitazione di Cristo» sostituisce l'ideale di vita «calciatore e velina».
La fede cattolica è compatibile con la democrazia? Dipende. Dipende dal tipo di fede che il cattolico vive, dal modo in cui «fonda» la sua fede, dai rapporti che pretende di stabilire tra la sua fede e la comune ragione umana. C’è la fede di Paolo, la «follia» della croce, che è «scandalo» per la ragione: è la fede delle prime generazioni di cristiani, perfettamente sintetizzata nella frase credo quia absurdum (introvabile in Tertulliano, cui è in genere attribuita, ma diffusa come sentire comune, addirittura ovvio, in quelle comunità). C’è la fede di Guglielmo di Ockham, francescano e logico, che col suo «rasoio» distrugge tutti le pretese di ogni teologia razionale. C’è la fede di Pascal, proposta allo scettico come vera e propria scommessa.
C’è, in tutti questi casi, la consapevolezza che la fede non è dimostrabile. Neppure per quanto riguarda un Dio creatore e l’anima immortale. E quanto al resto, un Dio che si fa uomo, morto sulla croce e risorto, che la fede è addirittura follia rispetto alla ragione. Absurdum.
La fede in quanto fede, insomma. Rivelazione, incontro, esperienza. La fede come dono. Che non può mai pretendere, dunque, pena il rinnegare se stessa, di essere argomentata in modo razionale, di convincere attraverso la ragione.
Una fede siffatta non entra in collisione con la democrazia perché non può pretendere di imporre i suoi contenuti (i suoi valori, le sue norme morali) a chi il dono della fede non lo ha ricevuto. Può dunque rispettare (anche se magari lo compiange) il non credente e i suoi stili di vita.
La fede cattolica diventa invece incompatibile con la democrazia non appena pretenda che un nucleo cospicuo di tale fede sia anche una verità di ragione, una norma naturale e obiettiva, iscritta nel cuore dell’uomo a somiglianza del patrimonio cromosomico, e che ogni uso «retto» della ragione possa scoprirla e debba dunque obbedirla.
Ogni qual volta avanzi tale pretesa, la fede cattolica diventa incompatibile con la democrazia. Incompatibile per natura e in potenza (per dirla tomisticamente). Che poi si scontri davvero con la democrazia, o si rassegni a un modus vivendi, dipenderà da circostanze storiche, rapporti di forza, addirittura personalità e psiche (inconscio compreso) dei singoli papi.
Se la morale della Chiesa è anche Verità di ragione, è norma naturale-razionale, essa deve diventare vincolante per ogni uomo. Chi non la riconoscesse e non la seguisse agirebbe infatti contro la ragione e contro l’umanità, sarebbe ir-razionale e dis-umano, e dunque andrebbe «persuaso» con la forza della legge. «Questa è la nostra libertà, assoggettarci alla verità», scriveva Agostino d’Ippona, che negli anni conclusivi del suo magistero pastorale inaugura una pratica fino allora impensabile tra i cristiani (e che egli stesso aveva in precedenza condannato): far intervenire il braccio secolare per dirimere a vantaggio della «Verità» le controversie di fede.
Assoggettare il potere politico alla «Verità» è stata da allora la dottrina della Chiesa. Qualsiasi potere politico. E quello democratico più che mai, perché il più refrattario a piegarsi. La Chiesa, insomma, e checché se ne dica, non ha mai riconosciuto la democrazia liberale in quanto tale.
Perché una democrazia sia «vera e sana» lo Stato deve essere «unità organica e organizzatrice di vero popolo» e il governo vedere «nella sua carica la missione di attuare l’ordine voluto da Dio (…) Se l’avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale del suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa».
Sono parole - davvero inequivocabili - pronunciate da Pio XII nel radiomessaggio Il sesto Natale di guerra. Inutile girarci intorno: la democrazia, per essere «vera e sana», deve «attuare l’ordine voluto da Dio». Insomma, si scrive democrazia, ma si pronuncia teocrazia. Nulla di più pretendeva il Sillabo di Pio IX, quando nella «proposizione LVII» gettava l’anatema contro ogni legge che non si conformasse «alla divina ed ecclesiastica autorità».
E Karol Wojtyla non sarà da meno di Eugenio Pacelli: di fronte al primo parlamento polacco liberamente eletto dopo oltre mezzo secolo di dittatura comunista, ribadirà la pretesa ad una Grundnorm teocratica e costantiniana: quel parlamento, se deliberasse in difformità dalla norma naturale (cioè dalla morale della Chiesa!) diventerebbe ipso facto illegittimo.
La democrazia è un’altra cosa. Agli antipodi. La democrazia è la prima forma di convivenza umana che non si fonda sull’eteronomia ma sull’autonomia. Che non tra la sua legittimità da un aldilà, ma da se stessa, cioè dagli uomini che si danno da sé (autos nomos) le leggi cui obbedire. Non più la sovranità di Dio e dei suoi vicari su questa terra (non a caso «unti del Signore»), ma la sovranità dei cittadini.
Per questo la democrazia è la forma politica più fragile, Perché priva di fondamento. Perché costretta a sostenersi da sé nel vuoto del disincanto, esattamente come il barone di Münchausen che si teneva in aria per il suo bavero (o il suo codino?). La democrazia è infatti sempre esposta al rischio che una maggioranza preferisca - alla fatica delle libertà e al dolore di essere individui - inedite sirene di servitù volontaria.
Il costituzionalismo è il meccanismo che deve neutralizzare l’onnipotenza della maggioranza. Ci sono cose che nessuna maggioranza può imporre a nessuna minoranza, fosse anche quella di un singolo dissidente. Ma cosa appartiene all’individuo in modo inalienabile e imprescrittibile? Le condizioni di possibilità dell’esercizio della sua quota di sovranità. Dunque, la «proprietà» sulla propria vita (ma non la proprietà in generale), le libertà (e le condizioni materiali) senza le quali la sua scelta non sarebbe autonoma. Il suo stile di vita, insomma, fino a che non prevarichi sulle libertà - speculari e simmetriche - di ogni altro. Papa Ratzinger, esplicitando una volta di più l’ostilità tradizionale della Chiesa verso la democrazia, pretende invece che la convivenza civile avvenga veluti si Deus daretur. Ma quale Dio? Karol Wojtyla ha scritto ad Ali Agca: «Perché mi hai sparato, se ambedue crediamo in un unico Dio?». Perché ciascuno crede nel suo «unico Dio», e se vuole imporne la morale agli altri torniamo alle guerre civili di religione (per non parlare dei cittadini che non credono a nessun Dio).
I vescovi chiedano pure ai fedeli di non usare il preservativo e la pillola, di non divorziare, di non abortire per nessuna ragione, di non porre fine con l’eutanasia a una vita ridotta a tortura. Ogni volta che pretendono di imporre queste norme per legge, a chi credente non è, aggrediscono e calpestano la democrazia. Trasformare il peccato in reato è peccato (e reato) contro la democrazia. Come se il testimone di Geova imponesse una legge che vieta le trasfusioni, e il fedele islamico il Corano come costituzione.
Pretese egualmente teocratiche. Contro le quali, non solo «laicismo è bello» ma è più che mai indispensabile. Altrimenti, la democrazia è già in coma.
La fede in quanto fede non entra in collisione con la democrazia. La fede cattolica, invece, diventa incompatibile quando si pone come verità di ragione, norma naturale e obiettiva. Solo il laicismo può contrastare queste pretese teocratiche