La Repubblica, edizione di Palermo 30.11.03
L´INTERVISTA
Parla Adonis, vincitore per l'opera straniera
DALLA SIRIA CON AMORE
La donna abita ogni cellula del mio corpo e io la respiro per cercare me stesso
L'oppressione nel mondo arabo produce estremismi che non rispecchiano il volto della società
di SALVATORE FERLITA
È Ali Ahmad Sa'id Esber il vero nome del poeta siriano Adonis, autore della raccolta "Cento poesie d´amore" (Guanda) e vincitore quest'anno del premio Mondello, nella sezione autore straniero. Nato in un villaggio siriano nel 1930 da una famiglia di origine contadina, Adonis ha studiato filosofia in Siria, per poi trasferirsi a Beirut e, successivamente, insegnare all'Università di Damasco e alla Sorbonne di Parigi. Tra le sue opere tradotte in italiano "Desiderio che avanza nelle mappe della materia, Libro delle metamorfosi" e "Nella pietra e nel vento". Adonis oggi è considerato uno dei più grandi poeti arabi viventi, forse il massimo rappresentante della modernità letteraria araba. «È una grande responsabilità, se dobbiamo credere a quello che si dice in giro? afferma il poeta, che verrà premiato oggi pomeriggio alle 17 all'hotel Palace di Mondello - In verità mi considero uno dei tanti poeti del mondo, faccio parte della poesia universale. Il poeta, a mio avviso, è sempre un allievo che impara in continuazione. La situazione della poesia ci insegna che non si può orientare, guidare il mondo, senza prima imparare dal mondo stesso».
La sua raccolta premiata è un moderno canzoniere d'amore, il periplo di un'avventura amorosa. Cos'è per lei la donna?
«La donna per me non è solo un oggetto per scrivere poesie d'amore. Essa abita ogni cellula del mio corpo. Io respiro la donna, al punto che comincio ad ascoltare me stesso per trovare la mia parte maschile e quella femminile. Se l'uomo non possiede una parte femminile nel suo essere, la sua stessa virilità rimane incompleta. Anche per la donna, s'intende, vale lo stesso principio. A questo proposito, io credo fortemente in quello che disse Platone: la donna e l'uomo sono un unico essere».
È quello che ha sostenuto anche de Unamuno nel suo romanzo "Nebbia"?
«È vero, però tengo a precisare che Platone lo ha sostenuto prima».
Se dovesse in poche parole spiegare cosa sia oggi l'universo arabo, al centro della sua riflessione nella raccolta di saggi "La preghiera e la spada", cosa direbbe?
«Anzitutto direi che non è possibile identificare il potere politico e la società, perché si rischierebbe di vedere gli arabi solo attraverso un regime collettivo. La stessa cosa succede per l'Italia: non possiamo guardare al vostro paese solo attraverso Berlusconi. La società araba è una cosa, il sistema politico un'altra. Credo che la società abbia molte potenzialità, e possa vantare un gran numero di artisti e intellettuali. Però va detto che il sistema politico e la condizione storica hanno paralizzato queste potenzialità. Oggi la situazione di oppressione vigente non produce altro che radicalismi ed estremismi, che di sicuro non rispecchiano il vero volto della società araba».
E la religione?
«Quelli che parlano attraverso la religione non fanno altro che diffondere una chiusa, asfittica ideologia, invece che aprirsi a un orizzonte aperto. Da qui gli aspetti di natura violenta che essa spesso assume. L'ideologia non uccide soltanto la società, ma anche la religione. È un po' quello che è successo con il fondamentalismo cristiano e quello ebraico».
Qual è allora oggi la funzione della poesia? Fu detto che dopo i campi di sterminio non sarebbe stato più possibile scrivere versi.
«Certo, i campi di sterminio, e qualsiasi altra manifestazione di odio e violenza in questo senso, rappresentano un'esperienza tremenda da condannare con tutte le forze, una sorta di punto di non ritorno. Eppure il problema è un altro: dopo tragedie del genere va preso atto che non è più possibile praticare e tollerare lo sterminio. Ma tutto ciò non può che indurre a scrivere altri versi, a praticare ancora la poesia. Dai campi di sterminio, e oggi dalle stragi sempre più cruente che la televisione e i giornali ci mostrano, ci viene questa lezione: bisogna fermare la mano che uccide».
La poesia, in questo senso, cosa può fare?
«È la poesia che ci dà proprio questa sensazione»
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 30 novembre 2003
Theodor W. Adorno
La Repubblica 30.11.03
EPISTOLARI
Il filosofo ha lasciato migliaia di pagine che ancora attendono di essere pubblicate
Solo quando giunse a New York si accorse pienamente di che cosa fosse il nazismo
Attinse al "Dramma barocco" di Benjamin senza rendergli il giusto riconoscimento
Per il centenario della sua nascita si moltiplicano celebrazioni e varie iniziative editoriali
Scrisse di musica, filosofia, sociologi e saggistica letteraria. A volte il tono della sua prosa disturbava
ADORNO. La sua fama di intellettuale oscurata da una certa doppiezza
di GEORGE STEINER
Si può definire "l'estate di Adorno" questa appena trascorsa, a Francoforte e altrove nel mondo letterario ed accademico di lingua tedesca. Francoforte ha intitolato una piazza al maestro. Settembre ha visto un congresso internazionale - assente, purtroppo, Bernard Williams. All'Adorno compositore e teorico musicale rendono omaggio rappresentazioni delle suo opere, delle opere della seconda Scuola di Vienna, culla della sua filosofia musicale, e presentazioni dei suoi arrangiamenti di Trakl, Brecht e Stefan George sia dal punto di vista poetico che musicale. Traduttori francesi, italiani e inglesi si incontrano per discutere pubblicamente delle difficoltà che implica rendere il linguaggio proprio di Adorno, notoriamente oscuro e peculiare. Mostre, dibattiti, recital si protrarranno fino a dicembre per culminare in una tavola rotonda di poeti chiamati a confrontarsi con il famoso detto di Adorno, di norma erroneamente citato ,che non può esistere, che non dovrebbe esistere poesia lirica dopo Auschwitz, una dichiarazione che egli smentì alla luce (se il termine è appropriato) del genio di Paul Celan.
In questo centenario è essenziale il ruolo della casa editrice Suhrkamp. Indefesso oratore accademico, saggista, autore di conferenze radiofoniche, di notazioni ai programmi musicali e articoli di critica, Theodor W. Adorno lasciò una massa di testi postumi paragonabile quanto a volume a quella di Heidegger (le analogie tra antagonisti sono profonde). Editori devoti, Rolf Tiedeman in testa, sostenuto dal generoso supporto tecnico e dal prestigio della Suhrkamp, pubblicano tutto, volume dopo volume. Sono usciti i volumi su Beethoven e la riproduzione musicale, quindi il saggio su Schelling e la sua analisi del concetto di libertà. Abbiamo poi il pensiero di Adorno sulla metafisica, la sua introduzione alla sociologia, le sue lezioni sulla dialettica negativa. Devono ancora uscire cinque volumi di "osservazioni" filosofiche, un'epistemologia, un'introduzione generale alla filosofia, un'attesissima sthetik - il fantasma di Lukács - due volumi di "lezioni improvvisate", tre di incontri letterari e interviste e, tra tutti il più intrigante, un volume dal titolo Poetische Versuche.
In tandem Suhrkamp ha pubblicato la colossale corrispondenza di Adorno: con Walter Benjamin, con Ernst Krenek, con Alban Berg. Ad oggi è disponibile il primo volume, che copre il decennio 1927-37, della corrispondenza tra Adorno e Max Horkeimer, suo mecenate e partner intellettuale, nonché principale esponente della Scuola di Francoforte. Attendono la pubblicazione altre centinaia, forse migliaia di epistole di uno scambio ideologico e critico tra i più rilevanti del secolo. Dalla quasi totale distruzione dell'esistenza ebraica tedesca emerge un'enorme mole di dibattito e di presenza umana. Questo diluvio che cade sui venti volumi di scritti già pubblicati conferma o aiuta a comprendere la statura di Adorno? È prova dell'ammirevole accuratezza e generosità con cui si pubblicano opere serie in Germania o piuttosto di una maniacale aspirazione alla totalità hegeliana - tanto più ironica nel caso di un pensatore che proclamò che "tutto ciò che è completo è falso" e definì la modernità come era del frammento?
Emergono un certo numero di aspetti decisivi. Adorno fa parte dei pochissimi, tra cui Rousseau e Nietzsche, che hanno posto la lingua scritta in rapporto con la musica, che hanno scritto di composizione musicale, del significato dei suoi significati, dell'esecuzione musicale, con intelligenza contemporaneamente filosofica e tecnica. Gli scritti di Adorno su Mahler, su Berg, su Wagner, su Beethoven nella monografia postuma incompleta, costituiscono un'impresa monumentale. Andando oltre i suoi rari predecessori inoltre Adorno pose le basi di una sociologia della musica, di un inserimento della musica nel tessuto dinamico della storia sociale, dell'ideologia e dei media. Basterebbero le Klangfiguren e i saggi successivi su Schoenberg e Webern a garantire ad Adorno un posto nella storia dell´estetica e, cosa più importante, nel tormentato rapporto tra parola e musica. È giusto che una delle festose celebrazioni dedicate al maestro a Francoforte si intitoli "La musica, la seconda lingua di Theodor W. Adorno".
Ma ciò che questa sequela di testi postumi va decretare è il valore di Adorno come filosofo, come illustre voce in campo ontologico, epistemologico, nell'esplorazione della metafisica. I "Minima Moralia", la "Dialettica dell'illuminazione", e l´attacco ad Heidegger in Jargon der Eigentlichkeit sono stati esempio del ruolo eminente di "critico culturale" che Adorno ha rivestito. In tedesco il termine è più incisivo, attiene sia ai philosophes francesi che all'aura della Kritik di derivazione kantiana. Nell'ambito dell'eredità tedesca e centroeuropea il Kulturkritiker, da Lessing a Karl Kraus occupa una nicchia essenziale. Le opere di Adorno che spaziano dalla critica letteraria e musicale alla politica dell'istruzione, lo collocano tra i testimoni decisivi del turbolento spirito dell'epoca.
Nelle sue lezioni sulla metafisica del 1965 (pubblicate nel 1998), Adorno si domanda se sia possibile vivere dopo Auschwitz. Ho vissuto personalmente il tormento di sogni ricorrenti in cui ho la sensazione di non essere più realmente vivo ma una semplice emanazione dei desideri di una delle vittime di Auschwitz.
Il suicidio va evitato, aggiunge Adorno, solo in quanto farebbe il gioco dei macellai. Ma il percorso verso questa intuizione, destinata a dominare le opere successive di Adorno, ebbe inizio solo quando si ebbe vere e propria notizia della Shoah nel 1944-45. Fino ad allora le cose erano state più fuorvianti.
Potendo contare su un'agiata posizione economica familiare, Adorno, a differenza di Walter Benjamin, che fu perseguitato dalla miseria, poté permettersi di portare avanti un doppio apprendistato, in campo musicale e filosofico. Studiò composizione con Schoenberg e Berg, ottenne quindi l'Habilitation, il più elevato titolo accademico tedesco, sotto l'egida di Paul Tillich nel 1931. A quell'epoca era già stato accettato presso l'Istituto per la Ricerca Sociale diretto da Max Horkheimer ed era entrato a far parte dell'élite ebraico-tedesca di Francoforte. Benché privato del diritto all'insegnamento nel 1933, Adorno dimostrò stranamente una scarsa perspicacia e una certa leggerezza (la madre era di origine italiana e cattolica). Nella sua macabra cecità insistette perché Benjamin si candidasse ad entrare a far parte della nuova "Associazione Nazionale degli Scrittori", istituzione totalmente nazista. Nel giugno 1934 Adorno pubblicò nella rivista Die Musik un'appassionata recensione dell'adattamento delle poesie di Baldur von Schirach, uno dei più brutali criminali hitleriani. Benché ora con una certa apprensione T. W. Wiesengrund-Adorno nel 1938 si recava ancora in visita nel Reich. Fu solo a New York, dove emigrò quell´anno, che Adorno divenne pienamente consapevole del proprio stato di esiliato e dell'ipoteca che la catastrofe tedesca poneva su di lui.
Questo primo volume della corrispondenza tra Adorno e Horkheimer disegna un ampio scenario psicologico e concreto di quel periodo. Un certo numero di lettere hanno le dimensioni di breve saggio filosofico e sociologico. Horkheimer si spostava tra Ginevra, dove l'Istituto da lui diretto aveva trovato inizialmente rifugio, e Manhattan, ove ben presto venne rifondato in collegamento con la Columbia University. Tutto questo richiese una profusione di lettere. Passati gli anni critici, i rapporti tra i due mutarono impercettibilmente ma decisamente. Al principio Adorno si mostrava deferente di fronte alla posizione e all'anzianità del suo corrispondente. Nelle missive la forma di cortesia non cedette il passo al "caro Max" e al "Caro Teddy" prima del settembre 1937. Di indole prudente e mondana Horkheimer, che era in grado di dispensare favori vitali, non cedette immediatamente alle esortazioni e ai progetti di Adorno. Mirava a distogliere il suo geniale accolito da interessi puramente epistemologici e metafisici, soprattutto in riferimento alla proposta esegesi del pensiero di Husserl. Vedeva con favore l'impegno di Adorno nella musicologia, spingendolo però verso interessi sociologici, come ad esempio il ruolo del jazz nella crisi dei valori culturali. Gradualmente tuttavia la forza pura delle analisi di Adorno, il modo in cui seppe sviluppare tutto ciò che nel programma di Horkheimer era vago e incerto, si imposero. Le lusinghe furono sempre meno necessarie. La nomina ufficiale a membro dell'Istituto nel 1938 (un atto formale che avrebbe potuto salvare la vita a Benjamin) conferì ad Adorno autorità magistrale. Ne risultò un partnerariato straordinariamente produttivo.
Nonostante tutto l'interesse e i pettegolezzi suscitati nell'ambiente intellettuale, Briefwechsel, l'epistolario, è un libro deprimente. La condizione di profugo nel labirinto di visti, permessi di lavoro o sussidi di beneficenza risulta macabra persino in presenza, come nel caso di Adorno, di disponibilità di mezzi. L'ostracismo derivante dalla propria lingua mistifica persino i rapporti intimi. La necessità di blandire, compiacere, chi è in grado di aiutarti, può farsi mendace. Elogiare gli scritti di Horkheimer, accentuare il proprio obbligo nei suoi confronti era un imperativo per Adorno. Ma oltre alla generale fausse situation, emergono aspetti del carattere di Adorno niente affatto attraenti. Benché dovesse a Tillich il titolo accademico scrisse di lui ad Horkheimer con malcelato disprezzo. Cercò di convincere Horkheimer del "fascismo" di Marcuse sulla base del complesso rapporto di quest'ultimo con Heidegger. Ma la cosa più triste è il ruolo di Walter Benjamin in questa corrispondenza.
Come contestatogli dallo stesso Benjamin, nello studio su Kierkegaard Adorno aveva attinto, abbondantemente e senza renderne riconoscimento alcuno, all'estetica e alla teoria del dramma di Benjamin. Col peggiorare della situazione e la conseguente sempre più pesante dipendenza di Benjamin dallo scarno sostegno offertogli da Horkheimer e dal suo legame marginale con l'Istituto, Adorno iniziò a fargli da patrono. (I dettagli di questa squallida vicenda vengono ripresi in esame nel numero di maggio del periodico francese Lignes, intitolato "Adorno e Benjamin"). Le critiche mosse da Adorno al saggio di Benjamin su Baudelaire, al progetto Passagen, al pensiero di Benjamin sull'industrialismo e la decadenza dell'aura estetica, sono spesso acute e validamente motivate. È il tono che disturba, lo sfoggio di potere nei confronti di un individuo sempre più disperato e bisognoso di comprensione. L'aspetto peggiore è rappresentato dalla doppiezza, forse inconscia, nelle osservazioni destinate a Horkheimer. Benjamin è, fuor di dubbio, un pensatore e un allegorista di straordinaria originalità, tuttavia nei suoi scritti molto necessita delle benevole revisioni dispensate da Oxford e da New York. Indubbiamente Benjamin merita sostegno materiale, ma nei suoi metodi di ricerca, nella sua vicinanza a Brecht, nel suo marxismo messianico, molto necessita di un'attenta osservazione e dei benefici della disapprovazione.
L'orrenda fine di Benjamin mutò radicalmente la situazione. Adorno si trasformò nell'indefesso paladino e divulgatore dell'eredità di Benjamin. Né lui né Horkheimer nascosero il debito delle proprie opere nei confronti dell´intuizione capitale di Benjamin che alla base di tutta l'arte e la cultura elevata c'è uno zoccolo di barbarie e inumanità. Sarà questo il tema dei "Minima Moralia" e della "Dialettica Negativa". Negli anni abbracciati dall'epistolario però, e in quelli precedenti al 1941, la storia è una storia triste.
Adorno provava al contempo fascino e repulsione nei confronti di Heidegger, era in soggezione di fronte alla sua statura e rabbiosamente determinato a smascherarla come fondamentalmente fittizia. Tuttavia tra i due esiste una sorprendente analogia. Entrambi nelle proprie opere pubblicate fecero della prosa un mezzo contorto, spesso quasi impenetrabile, mentre le lezioni accademiche, oggi rese disponibili post mortem, sono modelli di lucidità, di attento ritmo e metodo pedagogico. Il che risulta ancor più intrigante laddove Adorno fa propri i principali temi di Heidegger. Le ventitré lezioni su Ontologie und Dialektik furono tenute tra il novembre del 1960 e la fine di febbraio del 1961. Rappresentano un modello di retorica e mostrano il professor T. W. Adorno al massimo delle sue capacità di docente, ironico ma equanime.
Una sorta di tabù, una "specie di terrorismo" circondano la magia del linguaggio di Heidegger e il suo postulato della priorità dell´essere sugli esseri. Ironicamente l´esaltazione del linguaggio ad assoluta supremazia, ad autonoma singolarità, trova un parallelo nella scuola filosofica più in antitesi col pensiero di Heidegger, quella del positivismo logico e della logica linguistica anglo-americana. Gli spiriti benigni invocati da Adorno saranno quelli di Aristotele, e di Kant, di Hegel e Husserl. Enfatizzare l'indefinibile, purissimo, Sein di Heidegger come se il mero termine portasse in sé garanzia mistica di significato esistenziale vuol dire cadere nella trappola dell´autismo metafisico, del bluff auto-referenziale. Vuol dire fuggire l'interrogativo, vecchio quanto il "Parmenide" di Platone, se sia affatto possibile una comprensione dell´essere nel senso rapito di Heidegger.
Adorno definisce la condizione di Heidegger e del suo discepolo ammaliato come di chi "trema per timore di sporcarsi le mani", trema per timore di impegnarsi nell'essenza materiale, storica, sensoriale, dell´esperienza umana. Una simile posizione è figlia delle tradizioni occidentali dell'irrazionalismo come le troviamo in Nietzsche e Bergson. Le elevate astrazioni di Sein und Zeit hanno come risultato un anti-intellettualismo sistematico. L'io razionale è negato in nome del suo essere posseduto dal mistero dell'essere persino quando gli strumenti umani del linguaggio vengono confusi dal famoso detto di Heidegger secondo cui "è il linguaggio che parla". Questo imperativo inesplicabile permette ad Heidegger di eludere gli interrogativi circa ciò che più conta per l'uomo: l'esistenza di dio e il tema della libertà. Così nella dottrina di Heidegger, come già nella sua politica, è presente un'arcaica sottomissione ai misteri fuori da qualsiasi portata dialettica individuale. Da qui la convinzione fondamentale di Adorno che non possiamo elidere dalla filosofia di Heidegger, per quanto sembri sopraffarci e ipnotizzarci, "cosiddette stravaganze e aberrazioni politiche".
Man mano che la polemica si avvia alla conclusione, Adorno fornisce importanti intuizioni circa le proprie convinzioni magiche. L’esperienza musicale comunica un'abbondanza di contenuti specifici inaccessibile però al pensiero concettuale. Spiegare questo problema è compito essenziale dell'estetica, di un’ermeneutica filosofica (la decostruzione e il postmodernismo attuali hanno abdicato a questa sfera assolutamente centrale.) Nella ventunesima lezione Adorno si appella alla tesi dell'"aura" di Benjamin e a tesi storico-filosofiche. Pensare in maniera responsabile, afferma Adorno, equivale a "de-mitologizzare", abolire gli elementi iconici nella coscienza, l’idolatria inseparabile dalle immagini. Il pensiero dialettico è uso alle contraddizioni e all'ardire del mondo. Equivale a ripudiare una teologia, persino una teologia negativa, quale quella che ossessiona Heidegger. Il vero pensiero implica un riconoscimento della corporeità, una disperata ma lucida immanenza quale troviamo in Becket. Essa non comporta alcun almanaccare sulla morte o quella fuga nell´abisso che troviamo persino in Kafka. È l’impensabile, le nostre vite dopo quella mezzanotte della storia di cui Martin Heidegger fu parte in causa, che esige soprattutto riflessione.
(Traduzione di Emilia Benghi)
EPISTOLARI
Il filosofo ha lasciato migliaia di pagine che ancora attendono di essere pubblicate
Solo quando giunse a New York si accorse pienamente di che cosa fosse il nazismo
Attinse al "Dramma barocco" di Benjamin senza rendergli il giusto riconoscimento
Per il centenario della sua nascita si moltiplicano celebrazioni e varie iniziative editoriali
Scrisse di musica, filosofia, sociologi e saggistica letteraria. A volte il tono della sua prosa disturbava
ADORNO. La sua fama di intellettuale oscurata da una certa doppiezza
di GEORGE STEINER
Si può definire "l'estate di Adorno" questa appena trascorsa, a Francoforte e altrove nel mondo letterario ed accademico di lingua tedesca. Francoforte ha intitolato una piazza al maestro. Settembre ha visto un congresso internazionale - assente, purtroppo, Bernard Williams. All'Adorno compositore e teorico musicale rendono omaggio rappresentazioni delle suo opere, delle opere della seconda Scuola di Vienna, culla della sua filosofia musicale, e presentazioni dei suoi arrangiamenti di Trakl, Brecht e Stefan George sia dal punto di vista poetico che musicale. Traduttori francesi, italiani e inglesi si incontrano per discutere pubblicamente delle difficoltà che implica rendere il linguaggio proprio di Adorno, notoriamente oscuro e peculiare. Mostre, dibattiti, recital si protrarranno fino a dicembre per culminare in una tavola rotonda di poeti chiamati a confrontarsi con il famoso detto di Adorno, di norma erroneamente citato ,che non può esistere, che non dovrebbe esistere poesia lirica dopo Auschwitz, una dichiarazione che egli smentì alla luce (se il termine è appropriato) del genio di Paul Celan.
In questo centenario è essenziale il ruolo della casa editrice Suhrkamp. Indefesso oratore accademico, saggista, autore di conferenze radiofoniche, di notazioni ai programmi musicali e articoli di critica, Theodor W. Adorno lasciò una massa di testi postumi paragonabile quanto a volume a quella di Heidegger (le analogie tra antagonisti sono profonde). Editori devoti, Rolf Tiedeman in testa, sostenuto dal generoso supporto tecnico e dal prestigio della Suhrkamp, pubblicano tutto, volume dopo volume. Sono usciti i volumi su Beethoven e la riproduzione musicale, quindi il saggio su Schelling e la sua analisi del concetto di libertà. Abbiamo poi il pensiero di Adorno sulla metafisica, la sua introduzione alla sociologia, le sue lezioni sulla dialettica negativa. Devono ancora uscire cinque volumi di "osservazioni" filosofiche, un'epistemologia, un'introduzione generale alla filosofia, un'attesissima sthetik - il fantasma di Lukács - due volumi di "lezioni improvvisate", tre di incontri letterari e interviste e, tra tutti il più intrigante, un volume dal titolo Poetische Versuche.
In tandem Suhrkamp ha pubblicato la colossale corrispondenza di Adorno: con Walter Benjamin, con Ernst Krenek, con Alban Berg. Ad oggi è disponibile il primo volume, che copre il decennio 1927-37, della corrispondenza tra Adorno e Max Horkeimer, suo mecenate e partner intellettuale, nonché principale esponente della Scuola di Francoforte. Attendono la pubblicazione altre centinaia, forse migliaia di epistole di uno scambio ideologico e critico tra i più rilevanti del secolo. Dalla quasi totale distruzione dell'esistenza ebraica tedesca emerge un'enorme mole di dibattito e di presenza umana. Questo diluvio che cade sui venti volumi di scritti già pubblicati conferma o aiuta a comprendere la statura di Adorno? È prova dell'ammirevole accuratezza e generosità con cui si pubblicano opere serie in Germania o piuttosto di una maniacale aspirazione alla totalità hegeliana - tanto più ironica nel caso di un pensatore che proclamò che "tutto ciò che è completo è falso" e definì la modernità come era del frammento?
Emergono un certo numero di aspetti decisivi. Adorno fa parte dei pochissimi, tra cui Rousseau e Nietzsche, che hanno posto la lingua scritta in rapporto con la musica, che hanno scritto di composizione musicale, del significato dei suoi significati, dell'esecuzione musicale, con intelligenza contemporaneamente filosofica e tecnica. Gli scritti di Adorno su Mahler, su Berg, su Wagner, su Beethoven nella monografia postuma incompleta, costituiscono un'impresa monumentale. Andando oltre i suoi rari predecessori inoltre Adorno pose le basi di una sociologia della musica, di un inserimento della musica nel tessuto dinamico della storia sociale, dell'ideologia e dei media. Basterebbero le Klangfiguren e i saggi successivi su Schoenberg e Webern a garantire ad Adorno un posto nella storia dell´estetica e, cosa più importante, nel tormentato rapporto tra parola e musica. È giusto che una delle festose celebrazioni dedicate al maestro a Francoforte si intitoli "La musica, la seconda lingua di Theodor W. Adorno".
Ma ciò che questa sequela di testi postumi va decretare è il valore di Adorno come filosofo, come illustre voce in campo ontologico, epistemologico, nell'esplorazione della metafisica. I "Minima Moralia", la "Dialettica dell'illuminazione", e l´attacco ad Heidegger in Jargon der Eigentlichkeit sono stati esempio del ruolo eminente di "critico culturale" che Adorno ha rivestito. In tedesco il termine è più incisivo, attiene sia ai philosophes francesi che all'aura della Kritik di derivazione kantiana. Nell'ambito dell'eredità tedesca e centroeuropea il Kulturkritiker, da Lessing a Karl Kraus occupa una nicchia essenziale. Le opere di Adorno che spaziano dalla critica letteraria e musicale alla politica dell'istruzione, lo collocano tra i testimoni decisivi del turbolento spirito dell'epoca.
Nelle sue lezioni sulla metafisica del 1965 (pubblicate nel 1998), Adorno si domanda se sia possibile vivere dopo Auschwitz. Ho vissuto personalmente il tormento di sogni ricorrenti in cui ho la sensazione di non essere più realmente vivo ma una semplice emanazione dei desideri di una delle vittime di Auschwitz.
Il suicidio va evitato, aggiunge Adorno, solo in quanto farebbe il gioco dei macellai. Ma il percorso verso questa intuizione, destinata a dominare le opere successive di Adorno, ebbe inizio solo quando si ebbe vere e propria notizia della Shoah nel 1944-45. Fino ad allora le cose erano state più fuorvianti.
Potendo contare su un'agiata posizione economica familiare, Adorno, a differenza di Walter Benjamin, che fu perseguitato dalla miseria, poté permettersi di portare avanti un doppio apprendistato, in campo musicale e filosofico. Studiò composizione con Schoenberg e Berg, ottenne quindi l'Habilitation, il più elevato titolo accademico tedesco, sotto l'egida di Paul Tillich nel 1931. A quell'epoca era già stato accettato presso l'Istituto per la Ricerca Sociale diretto da Max Horkheimer ed era entrato a far parte dell'élite ebraico-tedesca di Francoforte. Benché privato del diritto all'insegnamento nel 1933, Adorno dimostrò stranamente una scarsa perspicacia e una certa leggerezza (la madre era di origine italiana e cattolica). Nella sua macabra cecità insistette perché Benjamin si candidasse ad entrare a far parte della nuova "Associazione Nazionale degli Scrittori", istituzione totalmente nazista. Nel giugno 1934 Adorno pubblicò nella rivista Die Musik un'appassionata recensione dell'adattamento delle poesie di Baldur von Schirach, uno dei più brutali criminali hitleriani. Benché ora con una certa apprensione T. W. Wiesengrund-Adorno nel 1938 si recava ancora in visita nel Reich. Fu solo a New York, dove emigrò quell´anno, che Adorno divenne pienamente consapevole del proprio stato di esiliato e dell'ipoteca che la catastrofe tedesca poneva su di lui.
Questo primo volume della corrispondenza tra Adorno e Horkheimer disegna un ampio scenario psicologico e concreto di quel periodo. Un certo numero di lettere hanno le dimensioni di breve saggio filosofico e sociologico. Horkheimer si spostava tra Ginevra, dove l'Istituto da lui diretto aveva trovato inizialmente rifugio, e Manhattan, ove ben presto venne rifondato in collegamento con la Columbia University. Tutto questo richiese una profusione di lettere. Passati gli anni critici, i rapporti tra i due mutarono impercettibilmente ma decisamente. Al principio Adorno si mostrava deferente di fronte alla posizione e all'anzianità del suo corrispondente. Nelle missive la forma di cortesia non cedette il passo al "caro Max" e al "Caro Teddy" prima del settembre 1937. Di indole prudente e mondana Horkheimer, che era in grado di dispensare favori vitali, non cedette immediatamente alle esortazioni e ai progetti di Adorno. Mirava a distogliere il suo geniale accolito da interessi puramente epistemologici e metafisici, soprattutto in riferimento alla proposta esegesi del pensiero di Husserl. Vedeva con favore l'impegno di Adorno nella musicologia, spingendolo però verso interessi sociologici, come ad esempio il ruolo del jazz nella crisi dei valori culturali. Gradualmente tuttavia la forza pura delle analisi di Adorno, il modo in cui seppe sviluppare tutto ciò che nel programma di Horkheimer era vago e incerto, si imposero. Le lusinghe furono sempre meno necessarie. La nomina ufficiale a membro dell'Istituto nel 1938 (un atto formale che avrebbe potuto salvare la vita a Benjamin) conferì ad Adorno autorità magistrale. Ne risultò un partnerariato straordinariamente produttivo.
Nonostante tutto l'interesse e i pettegolezzi suscitati nell'ambiente intellettuale, Briefwechsel, l'epistolario, è un libro deprimente. La condizione di profugo nel labirinto di visti, permessi di lavoro o sussidi di beneficenza risulta macabra persino in presenza, come nel caso di Adorno, di disponibilità di mezzi. L'ostracismo derivante dalla propria lingua mistifica persino i rapporti intimi. La necessità di blandire, compiacere, chi è in grado di aiutarti, può farsi mendace. Elogiare gli scritti di Horkheimer, accentuare il proprio obbligo nei suoi confronti era un imperativo per Adorno. Ma oltre alla generale fausse situation, emergono aspetti del carattere di Adorno niente affatto attraenti. Benché dovesse a Tillich il titolo accademico scrisse di lui ad Horkheimer con malcelato disprezzo. Cercò di convincere Horkheimer del "fascismo" di Marcuse sulla base del complesso rapporto di quest'ultimo con Heidegger. Ma la cosa più triste è il ruolo di Walter Benjamin in questa corrispondenza.
Come contestatogli dallo stesso Benjamin, nello studio su Kierkegaard Adorno aveva attinto, abbondantemente e senza renderne riconoscimento alcuno, all'estetica e alla teoria del dramma di Benjamin. Col peggiorare della situazione e la conseguente sempre più pesante dipendenza di Benjamin dallo scarno sostegno offertogli da Horkheimer e dal suo legame marginale con l'Istituto, Adorno iniziò a fargli da patrono. (I dettagli di questa squallida vicenda vengono ripresi in esame nel numero di maggio del periodico francese Lignes, intitolato "Adorno e Benjamin"). Le critiche mosse da Adorno al saggio di Benjamin su Baudelaire, al progetto Passagen, al pensiero di Benjamin sull'industrialismo e la decadenza dell'aura estetica, sono spesso acute e validamente motivate. È il tono che disturba, lo sfoggio di potere nei confronti di un individuo sempre più disperato e bisognoso di comprensione. L'aspetto peggiore è rappresentato dalla doppiezza, forse inconscia, nelle osservazioni destinate a Horkheimer. Benjamin è, fuor di dubbio, un pensatore e un allegorista di straordinaria originalità, tuttavia nei suoi scritti molto necessita delle benevole revisioni dispensate da Oxford e da New York. Indubbiamente Benjamin merita sostegno materiale, ma nei suoi metodi di ricerca, nella sua vicinanza a Brecht, nel suo marxismo messianico, molto necessita di un'attenta osservazione e dei benefici della disapprovazione.
L'orrenda fine di Benjamin mutò radicalmente la situazione. Adorno si trasformò nell'indefesso paladino e divulgatore dell'eredità di Benjamin. Né lui né Horkheimer nascosero il debito delle proprie opere nei confronti dell´intuizione capitale di Benjamin che alla base di tutta l'arte e la cultura elevata c'è uno zoccolo di barbarie e inumanità. Sarà questo il tema dei "Minima Moralia" e della "Dialettica Negativa". Negli anni abbracciati dall'epistolario però, e in quelli precedenti al 1941, la storia è una storia triste.
Adorno provava al contempo fascino e repulsione nei confronti di Heidegger, era in soggezione di fronte alla sua statura e rabbiosamente determinato a smascherarla come fondamentalmente fittizia. Tuttavia tra i due esiste una sorprendente analogia. Entrambi nelle proprie opere pubblicate fecero della prosa un mezzo contorto, spesso quasi impenetrabile, mentre le lezioni accademiche, oggi rese disponibili post mortem, sono modelli di lucidità, di attento ritmo e metodo pedagogico. Il che risulta ancor più intrigante laddove Adorno fa propri i principali temi di Heidegger. Le ventitré lezioni su Ontologie und Dialektik furono tenute tra il novembre del 1960 e la fine di febbraio del 1961. Rappresentano un modello di retorica e mostrano il professor T. W. Adorno al massimo delle sue capacità di docente, ironico ma equanime.
Una sorta di tabù, una "specie di terrorismo" circondano la magia del linguaggio di Heidegger e il suo postulato della priorità dell´essere sugli esseri. Ironicamente l´esaltazione del linguaggio ad assoluta supremazia, ad autonoma singolarità, trova un parallelo nella scuola filosofica più in antitesi col pensiero di Heidegger, quella del positivismo logico e della logica linguistica anglo-americana. Gli spiriti benigni invocati da Adorno saranno quelli di Aristotele, e di Kant, di Hegel e Husserl. Enfatizzare l'indefinibile, purissimo, Sein di Heidegger come se il mero termine portasse in sé garanzia mistica di significato esistenziale vuol dire cadere nella trappola dell´autismo metafisico, del bluff auto-referenziale. Vuol dire fuggire l'interrogativo, vecchio quanto il "Parmenide" di Platone, se sia affatto possibile una comprensione dell´essere nel senso rapito di Heidegger.
Adorno definisce la condizione di Heidegger e del suo discepolo ammaliato come di chi "trema per timore di sporcarsi le mani", trema per timore di impegnarsi nell'essenza materiale, storica, sensoriale, dell´esperienza umana. Una simile posizione è figlia delle tradizioni occidentali dell'irrazionalismo come le troviamo in Nietzsche e Bergson. Le elevate astrazioni di Sein und Zeit hanno come risultato un anti-intellettualismo sistematico. L'io razionale è negato in nome del suo essere posseduto dal mistero dell'essere persino quando gli strumenti umani del linguaggio vengono confusi dal famoso detto di Heidegger secondo cui "è il linguaggio che parla". Questo imperativo inesplicabile permette ad Heidegger di eludere gli interrogativi circa ciò che più conta per l'uomo: l'esistenza di dio e il tema della libertà. Così nella dottrina di Heidegger, come già nella sua politica, è presente un'arcaica sottomissione ai misteri fuori da qualsiasi portata dialettica individuale. Da qui la convinzione fondamentale di Adorno che non possiamo elidere dalla filosofia di Heidegger, per quanto sembri sopraffarci e ipnotizzarci, "cosiddette stravaganze e aberrazioni politiche".
Man mano che la polemica si avvia alla conclusione, Adorno fornisce importanti intuizioni circa le proprie convinzioni magiche. L’esperienza musicale comunica un'abbondanza di contenuti specifici inaccessibile però al pensiero concettuale. Spiegare questo problema è compito essenziale dell'estetica, di un’ermeneutica filosofica (la decostruzione e il postmodernismo attuali hanno abdicato a questa sfera assolutamente centrale.) Nella ventunesima lezione Adorno si appella alla tesi dell'"aura" di Benjamin e a tesi storico-filosofiche. Pensare in maniera responsabile, afferma Adorno, equivale a "de-mitologizzare", abolire gli elementi iconici nella coscienza, l’idolatria inseparabile dalle immagini. Il pensiero dialettico è uso alle contraddizioni e all'ardire del mondo. Equivale a ripudiare una teologia, persino una teologia negativa, quale quella che ossessiona Heidegger. Il vero pensiero implica un riconoscimento della corporeità, una disperata ma lucida immanenza quale troviamo in Becket. Essa non comporta alcun almanaccare sulla morte o quella fuga nell´abisso che troviamo persino in Kafka. È l’impensabile, le nostre vite dopo quella mezzanotte della storia di cui Martin Heidegger fu parte in causa, che esige soprattutto riflessione.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Macaluso sul comunismo
Corriere della Sera 30.11.03
«I conti col comunismo? Li abbiamo già fatti,
il Pci non era il Msi»
intervista con EMANUELE MACALUSO
ROMA - «L’autocritica l’abbiamo fatta, fino in fondo». Al ministro Gasparri, che esorta la sinistra a «fare i conti con la storia», dai gulag alle foibe, Emanuele Macaluso replica senza esitazioni: gli esami sono finiti da tempo. «I conti con il socialismo reale e con il comunismo, così come si incarnò nell’Unione Sovietica, li abbiamo fatti autocriticamente, dicendo con chiarezza che il socialismo democratico ha vinto la sfida contro quel comunismo».
Niente da rimproverare ai leader di Pci, Pds e ora Ds?
«Già Enrico Berlinguer prese le distanze da quel regime e la svolta della Bolognina segnò poi una vera e propria cesura. Togliendo dal nome del partito la parola "comunista" abbiamo preso le distanze in modo netto. E ricordo che nell’89, ai tempi di Tien-an-Men, il Pci andò a manifestare sotto l’ambasciata cinese».
Gasparri invita D’Alema e Bertinotti a visitare le foibe e i «luoghi degli eccidi della guerra civile».
«Il comunismo di Bertinotti non è quello di Stalin, ma quello ideale di Marx. Quanto a D’Alema... Stiamo attenti, il Pci non è il Msi. E’ stato una forza fondante della democrazia italiana, ha fatto la Resistenza e nella Costituzione c’è la firma di Terracini. Che poi ci siano state dopo la Resistenza uccisioni da parte di forze che si richiamavano ai comunisti...».
Le «volanti rosse», ad esempio.
«Abbiamo fatto una battaglia per ribadire che quei fatti furono opera di gruppi che si staccarono da quegli ideali. Chi dopo la Resistenza ha ucciso a sangue freddo anche un fascista, è un assassino».
Quindi la storia della Resistenza non va riscritta.
«Penso di no, anche se io non ho nulla contro il revisionismo».
Quanto a Salò, la sinistra rispetta quei morti?
«Non ho nulla da rimproverare alla sinistra, ma non mi si dica che quella causa era uguale a quella della Resistenza. Salò fu una lotta sbagliata, anche se fatta da molti in buona fede. La Resistenza fu la causa della Patria».
E i gulag?
«Nel ’56 il Pci fece il grave errore di non appoggiare la rivoluzione ungherese, ma la condanna dei gulag è stata netta e va sempre ribadita».
Fassino quindi non avrà la sua Gerusalemme.
«I gesti simbolici sono stati fatti tutti, nel 1988 Fassino andò sulla tomba di Nagy contro il governo ungherese. Piuttosto, il segretario deve avere fermezza contro il fondamentalismo islamico che tende a colpire le conquiste del socialismo democratico. Ed essere molto chiaro quando dovrà fare alleanze con chi, come Cossutta, sbaglia gravemente a non condannare con nettezza le fucilazioni del regime di Cuba».
«I conti col comunismo? Li abbiamo già fatti,
il Pci non era il Msi»
intervista con EMANUELE MACALUSO
ROMA - «L’autocritica l’abbiamo fatta, fino in fondo». Al ministro Gasparri, che esorta la sinistra a «fare i conti con la storia», dai gulag alle foibe, Emanuele Macaluso replica senza esitazioni: gli esami sono finiti da tempo. «I conti con il socialismo reale e con il comunismo, così come si incarnò nell’Unione Sovietica, li abbiamo fatti autocriticamente, dicendo con chiarezza che il socialismo democratico ha vinto la sfida contro quel comunismo».
Niente da rimproverare ai leader di Pci, Pds e ora Ds?
«Già Enrico Berlinguer prese le distanze da quel regime e la svolta della Bolognina segnò poi una vera e propria cesura. Togliendo dal nome del partito la parola "comunista" abbiamo preso le distanze in modo netto. E ricordo che nell’89, ai tempi di Tien-an-Men, il Pci andò a manifestare sotto l’ambasciata cinese».
Gasparri invita D’Alema e Bertinotti a visitare le foibe e i «luoghi degli eccidi della guerra civile».
«Il comunismo di Bertinotti non è quello di Stalin, ma quello ideale di Marx. Quanto a D’Alema... Stiamo attenti, il Pci non è il Msi. E’ stato una forza fondante della democrazia italiana, ha fatto la Resistenza e nella Costituzione c’è la firma di Terracini. Che poi ci siano state dopo la Resistenza uccisioni da parte di forze che si richiamavano ai comunisti...».
Le «volanti rosse», ad esempio.
«Abbiamo fatto una battaglia per ribadire che quei fatti furono opera di gruppi che si staccarono da quegli ideali. Chi dopo la Resistenza ha ucciso a sangue freddo anche un fascista, è un assassino».
Quindi la storia della Resistenza non va riscritta.
«Penso di no, anche se io non ho nulla contro il revisionismo».
Quanto a Salò, la sinistra rispetta quei morti?
«Non ho nulla da rimproverare alla sinistra, ma non mi si dica che quella causa era uguale a quella della Resistenza. Salò fu una lotta sbagliata, anche se fatta da molti in buona fede. La Resistenza fu la causa della Patria».
E i gulag?
«Nel ’56 il Pci fece il grave errore di non appoggiare la rivoluzione ungherese, ma la condanna dei gulag è stata netta e va sempre ribadita».
Fassino quindi non avrà la sua Gerusalemme.
«I gesti simbolici sono stati fatti tutti, nel 1988 Fassino andò sulla tomba di Nagy contro il governo ungherese. Piuttosto, il segretario deve avere fermezza contro il fondamentalismo islamico che tende a colpire le conquiste del socialismo democratico. Ed essere molto chiaro quando dovrà fare alleanze con chi, come Cossutta, sbaglia gravemente a non condannare con nettezza le fucilazioni del regime di Cuba».
brightlightsfilm.com dagli USA su "Buongiorno, notte"
uno stralcio da un articolo sul New York Film Festival, l'intero articolo è disponibile qui
This year's NYFF is a decidedly mixed bag of tricks
By Megan Ratner
[...]
In some ways, Good Morning, Night had a similar problem: too much exposition and the whole enterprise outweighed by the events themselves. In his take on the 1978 kidnapping of President Aldo Moro, Marco Bellocchio focuses on Chiara, the only female member of the terrorist cell, played with real verve by Maya Sansa. Some elements work extremely well: Bellocchio conveys the fear and suspicion of the cell members hiding out in an apartment purportedly inhabited by Chiara and her husband, who are as much prisoners as their hostage. But, for those not versed in this seminal episode of modern Italian history, Good Morning, Night is underwritten and lags in the middle. Though Bellocchio uses archival footage to great effect and the costuming and details are just right for 1978, the entire film is upstaged by the final news footage of the once-spry Pope John Paul II performing Moro's state funeral.
[...]
This year's NYFF is a decidedly mixed bag of tricks
By Megan Ratner
[...]
In some ways, Good Morning, Night had a similar problem: too much exposition and the whole enterprise outweighed by the events themselves. In his take on the 1978 kidnapping of President Aldo Moro, Marco Bellocchio focuses on Chiara, the only female member of the terrorist cell, played with real verve by Maya Sansa. Some elements work extremely well: Bellocchio conveys the fear and suspicion of the cell members hiding out in an apartment purportedly inhabited by Chiara and her husband, who are as much prisoners as their hostage. But, for those not versed in this seminal episode of modern Italian history, Good Morning, Night is underwritten and lags in the middle. Though Bellocchio uses archival footage to great effect and the costuming and details are just right for 1978, the entire film is upstaged by the final news footage of the once-spry Pope John Paul II performing Moro's state funeral.
[...]
venerdì 28 novembre 2003
libertà di espressione del pensiero:
censurato anche Paolo Rossi
Repubblica on line 28.11.03
Ecco il testo che ha bloccato la prevista partecipazione di Paolo Rossi a "Domenica in", trasmissione alla quale l'attore era stato ufficilmente invitato e alla quale aveva inviato - come da richiesta della Rai - il testo di quanto avrebbe detto, uno stralcio dal suo spettacolo "Il signor Rossi e la Costituzione"
Il bello della storia è che il testo che Paolo Rossi doveva leggere alle platee della domenica era nientemeno che un discorso di Pericle, il padre della democrazia, pronunciato 2450 anni fa!. Questi i passaggi incriminati:
"Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così" .
Ecco il testo che ha bloccato la prevista partecipazione di Paolo Rossi a "Domenica in", trasmissione alla quale l'attore era stato ufficilmente invitato e alla quale aveva inviato - come da richiesta della Rai - il testo di quanto avrebbe detto, uno stralcio dal suo spettacolo "Il signor Rossi e la Costituzione"
Il bello della storia è che il testo che Paolo Rossi doveva leggere alle platee della domenica era nientemeno che un discorso di Pericle, il padre della democrazia, pronunciato 2450 anni fa!. Questi i passaggi incriminati:
"Qui ad Atene noi facciamo così. Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi per questo è detto democrazia. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private. Ma in nessun caso si occupa delle pubbliche faccende per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così, ci è stato insegnato a rispettare i magistrati e c'è stato insegnato a rispettare le leggi, anche quelle leggi non scritte la cui sanzione risiede soltanto nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di buon senso. La nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così" .
Marco Bellocchio: un incontro con il pubblico a Piacenza
e la distribuzione di "Buongiorno, notte"
Libertà venerdì 28 novembre 2003
MARCO BELLOCCHIO
Il regista piacentino ospite alla multisala Iris con il suo film su Moro
La follia? Questione di normalità
«I terroristi di oggi sono isolati e senza organizzazione»
Accantonato il progetto del "Mercante di Venezia", imbastita una collaborazione col Municipale per "Rigoletto" (regia nel marzo 2004), Marco Bellocchio ha iniziato a dar forma alla sua nuova pellicola, "Il regista di matrimoni", un'opera che «si lega idealmente a "L'ora di religione" e che, con quest'ultima - dice il cineasta-, «avrà in comune il protagonista, Sergio Castellitto». Eppure "Buongiorno, notte" non ha ancora finito di far parlare di sé: infatti, se da un lato la sua recente premiazione con il riconoscimento della critica europea ha fornito al suo autore un ennesimo motivo di orgoglio e soddisfazione, dall'altro non ha fatto altro che aumentare il rammarico per il trattamento che lo stesso regista bobbiese ha ricevuto all'ultima Mostra di Venezia, dove si è preferito non premiare il suo lungometraggio ritenendolo troppo poco internazionale. E, invece, ben 12 Paesi, tra cui Messico, Russia e Giappone, hanno acquistato il film per distribuirlo nei rispettivi circuiti interni. L'incontro con il pubblico, tenutosi alla multisala Iris 2000 nel corso di una serata organizzata con il supporto del Comune e della Fondazione Cineteca Italiana, ha fornito a Bellocchio la possibilità di discutere di questo e altri argomenti con una folta schiera di spettatori. «Il film non si pone come primo intento la ricostruzione storica - ha sottolineato il cineasta - ma mira a sostenere che la Storia non ha una ineluttabilità. La libertà del personaggio di Moro serve a raccontare che la vita può andare in un altro modo. Negli ultimi 25 anni tante cose sono cambiate. Bisogna interpretare il fatto, non fermarsi in superficie». Già, tanti cambiamenti si sono susseguiti. Ma gli ultimi attacchi terroristici possono essere considerati figli di quelli degli anni '70? «Probabilmente sì - dice Bellocchio - ma è cambiata la mentalità. Un tempo c'era un'organizzazione, oggi credo che i terroristi siano rimasti in pochi». Tuttavia, il regista piacentino non ha mai nascosto di voler lasciare ai margini il connotato storico: «Io non riesco a entusiasmarmi a ciò che sta dietro al fatto». E con ciò si spiega anche quella particolare rappresentazione dei brigatisti che qualcuno ha ritenuto assolutoria: «Io ho voluto far vedere i quattro carcerieri nel loro vivere quotidiano. A me, artista, interessa la rappresentazione della normalità della follia, che è la più pericolosa. È quella di cui si legge sui giornali». E tutto ciò è in coerenza con la sua idea di immaginazione, elemento portante del film: «Per saper usare la fantasia senza far male al prossimo - dice Bellocchio - è necessario avere un buon rapporto affettivo con la realtà, non solo un rapporto razionale. Le Br erano orientate alla non-affettività: il loro rapporto con la realtà era lucido ma freddo». Leonardo Sciascia, nell'agosto 1978, scrisse: «Forse ancora oggi il giovane brigatista (cioè Mario Moretti, n.d.r.) crede si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell'adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti». E proprio il libro di Sciascia, "L'affaire Moro", ha inciso non poco sul messaggio del film: «La brigatista Anna Braghetti sa che dovrà pagare per tutta la vita per l'uccisione di Moro: l'affermazione di Sciascia aderisce alle figure dei quattro carnefici protagonisti della mia pellicola» ha sottolineato Bellocchio. Nel corso del dibattito c'è stato spazio anche per un richiamo al '68: «Negli anni '70 i giovani erano orientati all'eliminazione della figura paterna. L'omicidio del padre era visto come passaggio dall'adolescenza all'età adulta». E anche l'assassinio di Moro ebbe, infatti, una valenza simbolica. «Con il '68 si viveva un atteggiamento antipaternalistico ma si contestava, non si ammazzava. Se ammazzi il padre non ti liberi di lui. Al tempo, comunque, non era vero che non ci fossero le figure paterne. C'erano altri padri, come Stalin. Non era anarchia, bensì conformismo ideologico».
millecanali.it 27 Novembre 2003
I buoni risultati del Mifed
Si è conclusa con successo nei giorni scorsi alla Fiera di Milano la 70ma edizione del Mifed, il notissimo Mercato Internazionale del Cinema. Compatta la partecipazione delle grandi compagnie, con una crescita di quelle di provenienza asiatica. Notevole, poi, l’attenzione da parte di tutti i maggiori buyers.
Si è conclusa con successo nei giorni scorsi alla Fiera di Milano la 70ma edizione del Mifed, il notissimo Mercato Internazionale del Cinema. Compatta la partecipazione delle grandi compagnie, con una crescita di quelle di provenienza asiatica. Notevole, poi, l’attenzione da parte di tutti i maggiori buyers, a cominciare dalle compagnie europee.
Ma veniamo ai numeri: 5163 i partecipanti, provenienti da 71 Paesi, con un incremento del 15,8% rispetto ai 4457 dello scorso anno. Si segnala un + 12% di visitatori provenienti appunto dall’Est Europeo e un + 10% dai Paesi asiatici. 244 espositori, tra diretti e indiretti, provenienti da 25 Paesi, hanno occupato una superficie espositiva di 8541 metri quadrati. In aumento anche il numero complessivo delle compagnie presenti al Mercato: 1760 (+ 6,2% ).
Incremento, altresì, dei buyers, balzati a 1936 con un + 19.9% rispetto ai 1614 registrati nella trascorsa edizione. 495 i titoli presentati, contro i 487 del 2002, per un totale di 810 proiezioni (+ 8.4%). Aumentate dell’11%, infine, le anteprime di mercato.
Sono state soprattutto le società francesi di vendita di film a dichiarare grande soddisfazione alla chiusura di questa edizione del Mifed. Tra queste, Celluloid Dreams, Gémini Films, StudioCanal e Wild Bunch. Sul fronte di casa nostra, da segnalare che la pellicola “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio è stata venduta dappertutto in Europa (Svezia, Regno Unito, Polonia, Russia, Belgio, Paesi Bassi) e le “negoziazioni” sono sulla buona strada buona anche per la Germania e la Spagna.
[...]
MARCO BELLOCCHIO
Il regista piacentino ospite alla multisala Iris con il suo film su Moro
La follia? Questione di normalità
«I terroristi di oggi sono isolati e senza organizzazione»
Accantonato il progetto del "Mercante di Venezia", imbastita una collaborazione col Municipale per "Rigoletto" (regia nel marzo 2004), Marco Bellocchio ha iniziato a dar forma alla sua nuova pellicola, "Il regista di matrimoni", un'opera che «si lega idealmente a "L'ora di religione" e che, con quest'ultima - dice il cineasta-, «avrà in comune il protagonista, Sergio Castellitto». Eppure "Buongiorno, notte" non ha ancora finito di far parlare di sé: infatti, se da un lato la sua recente premiazione con il riconoscimento della critica europea ha fornito al suo autore un ennesimo motivo di orgoglio e soddisfazione, dall'altro non ha fatto altro che aumentare il rammarico per il trattamento che lo stesso regista bobbiese ha ricevuto all'ultima Mostra di Venezia, dove si è preferito non premiare il suo lungometraggio ritenendolo troppo poco internazionale. E, invece, ben 12 Paesi, tra cui Messico, Russia e Giappone, hanno acquistato il film per distribuirlo nei rispettivi circuiti interni. L'incontro con il pubblico, tenutosi alla multisala Iris 2000 nel corso di una serata organizzata con il supporto del Comune e della Fondazione Cineteca Italiana, ha fornito a Bellocchio la possibilità di discutere di questo e altri argomenti con una folta schiera di spettatori. «Il film non si pone come primo intento la ricostruzione storica - ha sottolineato il cineasta - ma mira a sostenere che la Storia non ha una ineluttabilità. La libertà del personaggio di Moro serve a raccontare che la vita può andare in un altro modo. Negli ultimi 25 anni tante cose sono cambiate. Bisogna interpretare il fatto, non fermarsi in superficie». Già, tanti cambiamenti si sono susseguiti. Ma gli ultimi attacchi terroristici possono essere considerati figli di quelli degli anni '70? «Probabilmente sì - dice Bellocchio - ma è cambiata la mentalità. Un tempo c'era un'organizzazione, oggi credo che i terroristi siano rimasti in pochi». Tuttavia, il regista piacentino non ha mai nascosto di voler lasciare ai margini il connotato storico: «Io non riesco a entusiasmarmi a ciò che sta dietro al fatto». E con ciò si spiega anche quella particolare rappresentazione dei brigatisti che qualcuno ha ritenuto assolutoria: «Io ho voluto far vedere i quattro carcerieri nel loro vivere quotidiano. A me, artista, interessa la rappresentazione della normalità della follia, che è la più pericolosa. È quella di cui si legge sui giornali». E tutto ciò è in coerenza con la sua idea di immaginazione, elemento portante del film: «Per saper usare la fantasia senza far male al prossimo - dice Bellocchio - è necessario avere un buon rapporto affettivo con la realtà, non solo un rapporto razionale. Le Br erano orientate alla non-affettività: il loro rapporto con la realtà era lucido ma freddo». Leonardo Sciascia, nell'agosto 1978, scrisse: «Forse ancora oggi il giovane brigatista (cioè Mario Moretti, n.d.r.) crede si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell'adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti». E proprio il libro di Sciascia, "L'affaire Moro", ha inciso non poco sul messaggio del film: «La brigatista Anna Braghetti sa che dovrà pagare per tutta la vita per l'uccisione di Moro: l'affermazione di Sciascia aderisce alle figure dei quattro carnefici protagonisti della mia pellicola» ha sottolineato Bellocchio. Nel corso del dibattito c'è stato spazio anche per un richiamo al '68: «Negli anni '70 i giovani erano orientati all'eliminazione della figura paterna. L'omicidio del padre era visto come passaggio dall'adolescenza all'età adulta». E anche l'assassinio di Moro ebbe, infatti, una valenza simbolica. «Con il '68 si viveva un atteggiamento antipaternalistico ma si contestava, non si ammazzava. Se ammazzi il padre non ti liberi di lui. Al tempo, comunque, non era vero che non ci fossero le figure paterne. C'erano altri padri, come Stalin. Non era anarchia, bensì conformismo ideologico».
millecanali.it 27 Novembre 2003
I buoni risultati del Mifed
Si è conclusa con successo nei giorni scorsi alla Fiera di Milano la 70ma edizione del Mifed, il notissimo Mercato Internazionale del Cinema. Compatta la partecipazione delle grandi compagnie, con una crescita di quelle di provenienza asiatica. Notevole, poi, l’attenzione da parte di tutti i maggiori buyers.
Si è conclusa con successo nei giorni scorsi alla Fiera di Milano la 70ma edizione del Mifed, il notissimo Mercato Internazionale del Cinema. Compatta la partecipazione delle grandi compagnie, con una crescita di quelle di provenienza asiatica. Notevole, poi, l’attenzione da parte di tutti i maggiori buyers, a cominciare dalle compagnie europee.
Ma veniamo ai numeri: 5163 i partecipanti, provenienti da 71 Paesi, con un incremento del 15,8% rispetto ai 4457 dello scorso anno. Si segnala un + 12% di visitatori provenienti appunto dall’Est Europeo e un + 10% dai Paesi asiatici. 244 espositori, tra diretti e indiretti, provenienti da 25 Paesi, hanno occupato una superficie espositiva di 8541 metri quadrati. In aumento anche il numero complessivo delle compagnie presenti al Mercato: 1760 (+ 6,2% ).
Incremento, altresì, dei buyers, balzati a 1936 con un + 19.9% rispetto ai 1614 registrati nella trascorsa edizione. 495 i titoli presentati, contro i 487 del 2002, per un totale di 810 proiezioni (+ 8.4%). Aumentate dell’11%, infine, le anteprime di mercato.
Sono state soprattutto le società francesi di vendita di film a dichiarare grande soddisfazione alla chiusura di questa edizione del Mifed. Tra queste, Celluloid Dreams, Gémini Films, StudioCanal e Wild Bunch. Sul fronte di casa nostra, da segnalare che la pellicola “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio è stata venduta dappertutto in Europa (Svezia, Regno Unito, Polonia, Russia, Belgio, Paesi Bassi) e le “negoziazioni” sono sulla buona strada buona anche per la Germania e la Spagna.
[...]
Scalfari e Galimberti:
citato al Mercoledì e al Giovedi
La Repubblica 25-11-03
Sul nuovo numero di Micromega: i lumi la ragione i dittatori
Anticipiamo parte del dialogo tra Umberto Galimberti ed Eugenio Scalfari su "Illuminismo e totalitarismo" Scalfari: Il pensiero cristiano si biforca fin dall'inizio: da un lato la salvezza delle anime, dall’altro l'avvento del Regno sulla terra, la salvezza dei corpi e la resurrezione Galimberti: Quando dico che la ragione è un insieme di regole bisogna tener presente che tutte le cose sono ambivalenti, disponibili per significati anche opposti Scalfari: Anche sul versante comunista abbiamo sentito dire che l'illuminismo andava criticato per la sua astrattezza: per non parlare di quanto afferma la Scuola di Francoforte
(a cura di Stefano Velotti)
EUGENIO SCALFARI: "Si ha spesso l'impressione che il tema dell'illuminismo sia stato volutamente consegnato all'oblio, forse perché - paradossalmente - è stato oggetto di critica da sponde diverse e anche opposte: oggi, si dice, un papa come Wojtyla attacca l'illuminismo per la fiducia dei Lumi nella ragione, per la pretesa di rendere autonomi gli individui. Ma anche sul versante comunista abbiamo sempre sentito dire che l'illuminismo andava criticato per la sua "astrattezza". Per non parlare della Scuola di Francoforte, che addirittura identifica l'esito "dialettico" dell'illuminismo nei totalitarismi contemporanei, invece che leggervi un tradimento dei Lumi. "Questa rimozione dell'illuminismo costituisce comunque una latenza, perché ogniqualvolta si arriva ai nodi cruciali della cultura contemporanea, ecco che l'illuminismo ritorna puntualmente: come principale nemico. Come spiegarsi questa vitalità latente dell'illuminismo negli stessi critici che lo ritengono superato? Perché, insomma, viene individuato come il nemico? Tra le tante risposte possibili, vediamo innanzitutto quelle che si possono desumere dalle critiche che gli vengono mosse. "è il nemico per i cattolici, e non soltanto per l'attuale papa. Papa Wojtyla ha solo radicalizzato un'ostilità che ha dietro di sé una lunga tradizione. Per trovarne l’origine, occorre risalire almeno a Pio IX, e anche più indietro: a quando l'illuminismo si è rivelato come uno spartiacque culturale e politico tra l'ancien régime e la modernità. Questo suo ruolo di spartiacque tra due epoche - che ai miei occhi ne costituisce un pregio - è innegabile: sotto i colpi del nuovo pensiero dei Lumi cade l'ancien régime come struttura gerarchica, politica, ideologica; e cade il sacrum del Re, il corpo del Re. "E tuttavia, lo ribadisco, l'illuminismo è un nemico anche per coloro che non si riconoscono nell’ancien régime e che, anzi, in modi diversi, lo combattono. E questo è un paradosso. "L'attacco di papa Wojtyla - e nomino lui perché è il testimone tuttora in campo - è un attacco singolare, in quanto viene da qualcuno che contemporaneamente predica l'ecumenismo nei confronti degli ebrei, dei musulmani e perfino dei buddisti. Questo è senz'altro un atteggiamento nuovo, originale e apprezzabile. Quel che è più notevole, però, è l'attenzione dei cattolici per il rapporto con i non credenti, che costituiscono un vasto settore dell'opinione pubblica moderna. Nell'ambito di questo ecumenismo, i cattolici si preoccupano ora di mantenere con i non credenti un contatto, e di approfondirlo, se non altro sui temi della morale e del bene comune. "Tuttavia, a differenza di ciò che avviene nei rapporti con i credenti di religioni diverse, l'atteggiamento ecumenico allargato ai non credenti incontra un ostacolo, che è costituito proprio dalla presenza inassimilabile di un nucleo di pensiero che proviene dall’illuminismo. Oltre ad aver segnato lo spartiacque tra l'ancien régime e la modernità, l'illuminismo ha infatti messo in questione l'esistenza dell’assoluto: non soltanto come trascendenza, ma anche come verità. Quindi, per chi si basa sul presupposto di una trascendenza, che è depositaria della verità assoluta, l'illuminismo è il vero nemico. Le altre critiche vengono di solito da chi ha sostituito il paradiso in terra al paradiso in cielo, e cioè dalle ideologie totalitarie e totalizzanti, che riscoprono una forma di assoluto nella verità di cui ritengono di essere depositarie. "Si spiega, dunque, il paradosso da cui eravamo partiti, ossia il convergere, sull'illuminismo, di critiche provenienti da sponde diverse e perfino opposte: per un verso, da un certo cattolicesimo - ma potrei dire dal cattolicesimo in genere - e dalla destra hegeliana, che sfocia in fenomeni diversi, perfino nel nazismo; e, per altro verso, dalla sinistra hegeliana. "Detto molto approssimativamente: i regimi totalitari - nel Novecento, il nazismo e il comunismo - trovano sulla loro strada l'ostacolo di chi ha messo in discussione gli assoluti. Non c'è, dunque, una vera contraddizione nel fatto che l'illuminismo venga attaccato tanto da destra che da sinistra".
UMBERTO GALIMBERTI: "Prima di riprendere i punti stabiliti da Scalfari, vorrei aggiungerne uno preliminare: l'illuminismo è l'età della ragione. A questo punto dobbiamo accordarci sul significato di "ragione". Come Aristotele - che chiama il suo libro di logica Organon, cioè "strumento" - dobbiamo riferirci anche noi al suo senso più umile, strumentale: la ragione è un insieme di regole per poter convivere. Ed è questo il modo in cui anche l'illuminismo considera la ragione. Kant, infatti, intraprende una critica della ragione, non la sua apologia; va alla ricerca dei suoi limiti, non della sua espansione universale. "Quando dico che la ragione è un insieme di regole, bisogna tener presente che tutte le cose sono ambivalenti: per esempio, questo registratore, ora, svolge una sua funzione, ma io posso prenderlo e usarlo come un'arma impropria. Se non presupponessi regole d'uso e di linguaggio, dicendo "registratore" potrei riferirmi a questo apparecchio o a un'arma impropria. Tutte le cose, insomma, sono disponibili per tutti i significati. "La ragione procede per definizioni, che delimitano il significato di una cosa; mediante il principio di non contraddizione, che non consente di far oscillare la cosa tra una pluralità di significati. La si è inventata, insomma, mediante grandi regole, grazie a cui gli uomini possono comunicare e, dal punto di vista psicologico, ridurre l'angoscia. Altrimenti, se tutte le cose restassero indeterminate, nell’uso e nel commercio delle cose ci troveremmo sempre in uno stato ansiogeno. Pensiamo al "primitivo" che, fintanto che non codifica, rimane sempre in uno stato di allerta. "La ragione è un grande strumento che non dice la verità, ma dice le regole di convivenza. E arrivare a queste regole è un risultato importantissimo. Io non solleverei il concetto di ragione oltre questa misura, che è già sufficiente ad escludere i miti, le religioni, quell'eccesso di significato di cui si circondano tutti gli apparati simbolici, e a creare un regime di discorsività e di convivenza corretto che è la condizione per la fondazione della città. "Per Platone, la fondazione della polis presuppone, infatti, un'intesa linguistica. è questo il motivo per cui è necessario escludere dalla città i retori, che muovono la gente tramite gli affetti; i sacerdoti, che parlano ex autoritate; i poeti, che mentono troppo e lasciano oscillare i significati. Sono ammessi invece i filosofi, che parlano dopo aver definito le cose e si attengono alle regole. "L'illuminismo costituisce una ripresa di questo scenario greco. Il più grande illuminista, Kant, scrivendo una critica della ragion pura, è come se dichiarasse: non esageriamo con la ragione, vediamo che cosa può dire, con correttezza ed esattezza, e che cosa invece non può dire. Può trattare questioni matematiche e fisiche, ma non problemi metafisici, perché questi sorpassano i limiti dell'esperienza. "I custodi della ragione sono custodi che limitano l'apparato razionale: sanno che l'apparato razionale è forte solo se conosce i suoi limiti, se è consapevole della sua valenza strumentale e non, invece, totalizzante. "Sotto questo profilo, quindi, la ragione è l'antitotalitarismo per eccellenza, perché conosce il suo limite. Ed è lo stesso limite che vige nella pratica scientifica. Gli scienziati sono assolutamente persuasi di non dire cose vere, ma di dire semplicemente cose esatte: ex-actus, cioè "ottenuto dalle premesse di partenza". è questo, mi pare, il modo corretto di condurre la ragione. "Arriviamo ora ai punti toccati da Scalfari, che mi paiono decisivi. Il primo è che l'illuminismo mette fine alla gerarchia dell’ancien régime e inaugura la dimensione della libertà individuale; sottrae la sovranità all’ordine gerarchico precedente e la diffonde tra gli individui. Qui, però, bisogna fare attenzione: la ragione non si emancipa senza residui, ma gronda sempre di dimensioni antirazionali: penso, per esempio, a un Galileo che fa l'oroscopo per le figlie, o a un Newton che scrive un libro di demonologia. Anche il concetto di individuo è molto equivoco e, a mio parere, viene chiarito solo con l'illuminismo. Il concetto di individuo non esiste in Grecia, perché è una nozione fondamentalmente cristiana: mentre i greci antepongono la comunità al singolo, i cristiani colgono innanzitutto l'individuo grazie alla nozione di "anima". Per Platone, il singolo è giusto se è "aggiustato" addirittura con l’ordine cosmico. Per i cristiani, l'individuo ha come scopo innanzitutto la salvezza individuale, la salvezza dell'anima, appunto, che è affidata alla pratica religiosa e quindi alla Chiesa. La convivenza e il buon vivere civile passano in secondo piano. "Che cosa spetta alla comunità, dal punto di vista dei cristiani? Null’altro che la limitazione o l’eliminazione degli ostacoli che impediscono la salvezza dell'anima. Lo Stato ha solo il compito di togliere gli impedimenti che si frappongono tra gli individui e la pratica salvifica. La salvezza è individuale, non è comunitaria. L'individuo deve vedersela direttamente con Dio, che abita l'anima: in interiore animae habitat Deus, dice Agostino. E Rousseau, giustamente, ne conclude che "il cristiano non può essere un buon cittadino". Potrà magari esserlo di fatto, ma non di diritto, perché il suo scopo non è la buona convivenza, ma, come ho detto, la salvezza della sua anima. "L'illuminismo desume la nozione di individuo dal cristianesimo, ma la libera dalla categoria della salvezza e ne sposta l'obiettivo: un individuo è tale in quanto è in relazione di fratellanza e di uguaglianza con gli altri, in quanto è parte di una città, e non in quanto si salva l'anima. Questo spostamento ha un'importanza straordinaria: la società civile, infatti, nasce solo quando l'individuo viene pensato in vista dell'altro individuo, e non in vista della salvezza dell'anima. "Il secondo punto indicato da Scalfari è l'ecumenismo. L'ecumenismo, però, non è la tolleranza illuminista, è semplicemente un proposito di buona educazione: mentre un tempo avremmo fatto la guerra con chi la pensava diversamente da noi, oggi gli stringiamo la mano. Ma ciascuno resta del proprio parere. L'ecumenismo, dunque, è un atto pratico di buona educazione. La tolleranza illuminista, invece - almeno quale traspare dalle Lettere sulla tolleranza di Locke - ha una valenza teorica: io, nel mio pensiero, devo tollerare che forse tu, che sei il mio avversario, sei nella verità ad un gradiente maggiore del mio. Questa è l'autentica tolleranza. L’ecumenismo, quindi, non ha nulla a che fare con la tolleranza illuminista. "Se l'ecumenismo può esercitarsi nei confronti delle altre religioni, la miscredenza resta comunque il nemico. Oggi la Chiesa non ha più quella forza, che aveva nel Rinascimento, per poter impiccare i miscredenti. Oggi si limita a segnalarli o a emarginarli, o magari a dialogare con loro, come faceva Martini. Ma se avesse la forza necessaria li impiccherebbe tutti. La violenza è parte essenziale del sacro: chi presume di essere il depositario della verità è cieco e violento. La ragione, invece, è tale se conosce i suoi limiti, dunque non può mai essere assoluta: procede passo dopo passo, per prove ed errori, e non presume mai di disporre della verità unica. "Infine, c’è una differenza antropologica tra gli illuministi e gli uomini di religione - ai quali io accosterei, sotto questo profilo, anche i fascisti e i comunisti: gli uomini di religione, e i totalitaristi, vivono un tempo escatologico, mentre l’illuminismo vive un tempo progettuale. Il primo è pervaso da speranze di palingenesi e di salvezza; il secondo è molto più modesto, è un tempo volto esclusivamente al miglioramento della condizione attuale. "Il tempo escatologico è un tempo inscritto in un disegno, per cui la storia è sempre storia sacra, storia della salvezza. Questa concezione giudaico-cristiana del tempo prevede che alla fine della storia si realizzi quello che era stato annunciato all’inizio. "Anche il comunismo, d’altra parte, vive un tempo escatologico: nel passato c’è il male, nel presente la redenzione, nel futuro la salvezza. Marx usa le stesse espressioni che troviamo nella Bibbia a proposito del popolo ebraico: "La classe operaia ha fame e sete di giustizia". Poiché i totalitarismi, comunismo e fascismo, vivono un’escatologia, li considero alla stregua di forme religiose. L’illuminismo, invece, non vive un'escatologia, vive il progresso metodico della ragione".
EUGENIO SCALFARI: "Secondo un’analisi attenta, dunque, l’ispirazione dei movimenti totalitaristici, più che esser fatta risalire all’illuminismo, deve essere ricondotta a certe forme del pensiero cristiano ed operaio. Vorrei aggiungere, però, che il pensiero cristiano si biforca fin dall’inizio: da un lato, la salvezza delle anime; dall’altro, l’avvento del Regno sulla terra, la salvezza dei corpi e la resurrezione dei morti. è il pensiero apocalittico - parte fondante del pensiero cristiano - che comincia con Giovanni, e che caratterizza anche tutto il messianesimo ebraico: la felicità, il Regno di Dio, si realizzano alla fine dei tempi sulla terra. "Le radici dell’escatologia totalitaria affondano insomma nel pensiero apocalittico cristiano e nel pensiero messianico ebraico. Quest’ultimo, non a caso, è molto poco interessato a immaginare il paradiso o l’inferno, e alcune sue correnti negano perfino l’immortalità. "Il popolo eletto, così come la classe operaia per Marx, combatte e vive nel proprio tempo, ma è tuttavia un popolo che resta sempre in attesa. Abbiamo comunque a che fare con un pensiero escatologico mondano: alla fine dei tempi, con l’avvento del Regno e della felicità, comincerà un tempo immobile, la storia sarà finita; così come accadrà quando la razza superiore avrà prevalso su tutte le altre, o quando la classe operaia avrà abolito lo Stato e il comunismo sarà realizzato su tutta la terra. "Se cerchiamo il vero incunabolo di queste spinte totalitarie, troviamo le religioni monoteiste".
Sul nuovo numero di Micromega: i lumi la ragione i dittatori
Anticipiamo parte del dialogo tra Umberto Galimberti ed Eugenio Scalfari su "Illuminismo e totalitarismo" Scalfari: Il pensiero cristiano si biforca fin dall'inizio: da un lato la salvezza delle anime, dall’altro l'avvento del Regno sulla terra, la salvezza dei corpi e la resurrezione Galimberti: Quando dico che la ragione è un insieme di regole bisogna tener presente che tutte le cose sono ambivalenti, disponibili per significati anche opposti Scalfari: Anche sul versante comunista abbiamo sentito dire che l'illuminismo andava criticato per la sua astrattezza: per non parlare di quanto afferma la Scuola di Francoforte
(a cura di Stefano Velotti)
EUGENIO SCALFARI: "Si ha spesso l'impressione che il tema dell'illuminismo sia stato volutamente consegnato all'oblio, forse perché - paradossalmente - è stato oggetto di critica da sponde diverse e anche opposte: oggi, si dice, un papa come Wojtyla attacca l'illuminismo per la fiducia dei Lumi nella ragione, per la pretesa di rendere autonomi gli individui. Ma anche sul versante comunista abbiamo sempre sentito dire che l'illuminismo andava criticato per la sua "astrattezza". Per non parlare della Scuola di Francoforte, che addirittura identifica l'esito "dialettico" dell'illuminismo nei totalitarismi contemporanei, invece che leggervi un tradimento dei Lumi. "Questa rimozione dell'illuminismo costituisce comunque una latenza, perché ogniqualvolta si arriva ai nodi cruciali della cultura contemporanea, ecco che l'illuminismo ritorna puntualmente: come principale nemico. Come spiegarsi questa vitalità latente dell'illuminismo negli stessi critici che lo ritengono superato? Perché, insomma, viene individuato come il nemico? Tra le tante risposte possibili, vediamo innanzitutto quelle che si possono desumere dalle critiche che gli vengono mosse. "è il nemico per i cattolici, e non soltanto per l'attuale papa. Papa Wojtyla ha solo radicalizzato un'ostilità che ha dietro di sé una lunga tradizione. Per trovarne l’origine, occorre risalire almeno a Pio IX, e anche più indietro: a quando l'illuminismo si è rivelato come uno spartiacque culturale e politico tra l'ancien régime e la modernità. Questo suo ruolo di spartiacque tra due epoche - che ai miei occhi ne costituisce un pregio - è innegabile: sotto i colpi del nuovo pensiero dei Lumi cade l'ancien régime come struttura gerarchica, politica, ideologica; e cade il sacrum del Re, il corpo del Re. "E tuttavia, lo ribadisco, l'illuminismo è un nemico anche per coloro che non si riconoscono nell’ancien régime e che, anzi, in modi diversi, lo combattono. E questo è un paradosso. "L'attacco di papa Wojtyla - e nomino lui perché è il testimone tuttora in campo - è un attacco singolare, in quanto viene da qualcuno che contemporaneamente predica l'ecumenismo nei confronti degli ebrei, dei musulmani e perfino dei buddisti. Questo è senz'altro un atteggiamento nuovo, originale e apprezzabile. Quel che è più notevole, però, è l'attenzione dei cattolici per il rapporto con i non credenti, che costituiscono un vasto settore dell'opinione pubblica moderna. Nell'ambito di questo ecumenismo, i cattolici si preoccupano ora di mantenere con i non credenti un contatto, e di approfondirlo, se non altro sui temi della morale e del bene comune. "Tuttavia, a differenza di ciò che avviene nei rapporti con i credenti di religioni diverse, l'atteggiamento ecumenico allargato ai non credenti incontra un ostacolo, che è costituito proprio dalla presenza inassimilabile di un nucleo di pensiero che proviene dall’illuminismo. Oltre ad aver segnato lo spartiacque tra l'ancien régime e la modernità, l'illuminismo ha infatti messo in questione l'esistenza dell’assoluto: non soltanto come trascendenza, ma anche come verità. Quindi, per chi si basa sul presupposto di una trascendenza, che è depositaria della verità assoluta, l'illuminismo è il vero nemico. Le altre critiche vengono di solito da chi ha sostituito il paradiso in terra al paradiso in cielo, e cioè dalle ideologie totalitarie e totalizzanti, che riscoprono una forma di assoluto nella verità di cui ritengono di essere depositarie. "Si spiega, dunque, il paradosso da cui eravamo partiti, ossia il convergere, sull'illuminismo, di critiche provenienti da sponde diverse e perfino opposte: per un verso, da un certo cattolicesimo - ma potrei dire dal cattolicesimo in genere - e dalla destra hegeliana, che sfocia in fenomeni diversi, perfino nel nazismo; e, per altro verso, dalla sinistra hegeliana. "Detto molto approssimativamente: i regimi totalitari - nel Novecento, il nazismo e il comunismo - trovano sulla loro strada l'ostacolo di chi ha messo in discussione gli assoluti. Non c'è, dunque, una vera contraddizione nel fatto che l'illuminismo venga attaccato tanto da destra che da sinistra".
UMBERTO GALIMBERTI: "Prima di riprendere i punti stabiliti da Scalfari, vorrei aggiungerne uno preliminare: l'illuminismo è l'età della ragione. A questo punto dobbiamo accordarci sul significato di "ragione". Come Aristotele - che chiama il suo libro di logica Organon, cioè "strumento" - dobbiamo riferirci anche noi al suo senso più umile, strumentale: la ragione è un insieme di regole per poter convivere. Ed è questo il modo in cui anche l'illuminismo considera la ragione. Kant, infatti, intraprende una critica della ragione, non la sua apologia; va alla ricerca dei suoi limiti, non della sua espansione universale. "Quando dico che la ragione è un insieme di regole, bisogna tener presente che tutte le cose sono ambivalenti: per esempio, questo registratore, ora, svolge una sua funzione, ma io posso prenderlo e usarlo come un'arma impropria. Se non presupponessi regole d'uso e di linguaggio, dicendo "registratore" potrei riferirmi a questo apparecchio o a un'arma impropria. Tutte le cose, insomma, sono disponibili per tutti i significati. "La ragione procede per definizioni, che delimitano il significato di una cosa; mediante il principio di non contraddizione, che non consente di far oscillare la cosa tra una pluralità di significati. La si è inventata, insomma, mediante grandi regole, grazie a cui gli uomini possono comunicare e, dal punto di vista psicologico, ridurre l'angoscia. Altrimenti, se tutte le cose restassero indeterminate, nell’uso e nel commercio delle cose ci troveremmo sempre in uno stato ansiogeno. Pensiamo al "primitivo" che, fintanto che non codifica, rimane sempre in uno stato di allerta. "La ragione è un grande strumento che non dice la verità, ma dice le regole di convivenza. E arrivare a queste regole è un risultato importantissimo. Io non solleverei il concetto di ragione oltre questa misura, che è già sufficiente ad escludere i miti, le religioni, quell'eccesso di significato di cui si circondano tutti gli apparati simbolici, e a creare un regime di discorsività e di convivenza corretto che è la condizione per la fondazione della città. "Per Platone, la fondazione della polis presuppone, infatti, un'intesa linguistica. è questo il motivo per cui è necessario escludere dalla città i retori, che muovono la gente tramite gli affetti; i sacerdoti, che parlano ex autoritate; i poeti, che mentono troppo e lasciano oscillare i significati. Sono ammessi invece i filosofi, che parlano dopo aver definito le cose e si attengono alle regole. "L'illuminismo costituisce una ripresa di questo scenario greco. Il più grande illuminista, Kant, scrivendo una critica della ragion pura, è come se dichiarasse: non esageriamo con la ragione, vediamo che cosa può dire, con correttezza ed esattezza, e che cosa invece non può dire. Può trattare questioni matematiche e fisiche, ma non problemi metafisici, perché questi sorpassano i limiti dell'esperienza. "I custodi della ragione sono custodi che limitano l'apparato razionale: sanno che l'apparato razionale è forte solo se conosce i suoi limiti, se è consapevole della sua valenza strumentale e non, invece, totalizzante. "Sotto questo profilo, quindi, la ragione è l'antitotalitarismo per eccellenza, perché conosce il suo limite. Ed è lo stesso limite che vige nella pratica scientifica. Gli scienziati sono assolutamente persuasi di non dire cose vere, ma di dire semplicemente cose esatte: ex-actus, cioè "ottenuto dalle premesse di partenza". è questo, mi pare, il modo corretto di condurre la ragione. "Arriviamo ora ai punti toccati da Scalfari, che mi paiono decisivi. Il primo è che l'illuminismo mette fine alla gerarchia dell’ancien régime e inaugura la dimensione della libertà individuale; sottrae la sovranità all’ordine gerarchico precedente e la diffonde tra gli individui. Qui, però, bisogna fare attenzione: la ragione non si emancipa senza residui, ma gronda sempre di dimensioni antirazionali: penso, per esempio, a un Galileo che fa l'oroscopo per le figlie, o a un Newton che scrive un libro di demonologia. Anche il concetto di individuo è molto equivoco e, a mio parere, viene chiarito solo con l'illuminismo. Il concetto di individuo non esiste in Grecia, perché è una nozione fondamentalmente cristiana: mentre i greci antepongono la comunità al singolo, i cristiani colgono innanzitutto l'individuo grazie alla nozione di "anima". Per Platone, il singolo è giusto se è "aggiustato" addirittura con l’ordine cosmico. Per i cristiani, l'individuo ha come scopo innanzitutto la salvezza individuale, la salvezza dell'anima, appunto, che è affidata alla pratica religiosa e quindi alla Chiesa. La convivenza e il buon vivere civile passano in secondo piano. "Che cosa spetta alla comunità, dal punto di vista dei cristiani? Null’altro che la limitazione o l’eliminazione degli ostacoli che impediscono la salvezza dell'anima. Lo Stato ha solo il compito di togliere gli impedimenti che si frappongono tra gli individui e la pratica salvifica. La salvezza è individuale, non è comunitaria. L'individuo deve vedersela direttamente con Dio, che abita l'anima: in interiore animae habitat Deus, dice Agostino. E Rousseau, giustamente, ne conclude che "il cristiano non può essere un buon cittadino". Potrà magari esserlo di fatto, ma non di diritto, perché il suo scopo non è la buona convivenza, ma, come ho detto, la salvezza della sua anima. "L'illuminismo desume la nozione di individuo dal cristianesimo, ma la libera dalla categoria della salvezza e ne sposta l'obiettivo: un individuo è tale in quanto è in relazione di fratellanza e di uguaglianza con gli altri, in quanto è parte di una città, e non in quanto si salva l'anima. Questo spostamento ha un'importanza straordinaria: la società civile, infatti, nasce solo quando l'individuo viene pensato in vista dell'altro individuo, e non in vista della salvezza dell'anima. "Il secondo punto indicato da Scalfari è l'ecumenismo. L'ecumenismo, però, non è la tolleranza illuminista, è semplicemente un proposito di buona educazione: mentre un tempo avremmo fatto la guerra con chi la pensava diversamente da noi, oggi gli stringiamo la mano. Ma ciascuno resta del proprio parere. L'ecumenismo, dunque, è un atto pratico di buona educazione. La tolleranza illuminista, invece - almeno quale traspare dalle Lettere sulla tolleranza di Locke - ha una valenza teorica: io, nel mio pensiero, devo tollerare che forse tu, che sei il mio avversario, sei nella verità ad un gradiente maggiore del mio. Questa è l'autentica tolleranza. L’ecumenismo, quindi, non ha nulla a che fare con la tolleranza illuminista. "Se l'ecumenismo può esercitarsi nei confronti delle altre religioni, la miscredenza resta comunque il nemico. Oggi la Chiesa non ha più quella forza, che aveva nel Rinascimento, per poter impiccare i miscredenti. Oggi si limita a segnalarli o a emarginarli, o magari a dialogare con loro, come faceva Martini. Ma se avesse la forza necessaria li impiccherebbe tutti. La violenza è parte essenziale del sacro: chi presume di essere il depositario della verità è cieco e violento. La ragione, invece, è tale se conosce i suoi limiti, dunque non può mai essere assoluta: procede passo dopo passo, per prove ed errori, e non presume mai di disporre della verità unica. "Infine, c’è una differenza antropologica tra gli illuministi e gli uomini di religione - ai quali io accosterei, sotto questo profilo, anche i fascisti e i comunisti: gli uomini di religione, e i totalitaristi, vivono un tempo escatologico, mentre l’illuminismo vive un tempo progettuale. Il primo è pervaso da speranze di palingenesi e di salvezza; il secondo è molto più modesto, è un tempo volto esclusivamente al miglioramento della condizione attuale. "Il tempo escatologico è un tempo inscritto in un disegno, per cui la storia è sempre storia sacra, storia della salvezza. Questa concezione giudaico-cristiana del tempo prevede che alla fine della storia si realizzi quello che era stato annunciato all’inizio. "Anche il comunismo, d’altra parte, vive un tempo escatologico: nel passato c’è il male, nel presente la redenzione, nel futuro la salvezza. Marx usa le stesse espressioni che troviamo nella Bibbia a proposito del popolo ebraico: "La classe operaia ha fame e sete di giustizia". Poiché i totalitarismi, comunismo e fascismo, vivono un’escatologia, li considero alla stregua di forme religiose. L’illuminismo, invece, non vive un'escatologia, vive il progresso metodico della ragione".
EUGENIO SCALFARI: "Secondo un’analisi attenta, dunque, l’ispirazione dei movimenti totalitaristici, più che esser fatta risalire all’illuminismo, deve essere ricondotta a certe forme del pensiero cristiano ed operaio. Vorrei aggiungere, però, che il pensiero cristiano si biforca fin dall’inizio: da un lato, la salvezza delle anime; dall’altro, l’avvento del Regno sulla terra, la salvezza dei corpi e la resurrezione dei morti. è il pensiero apocalittico - parte fondante del pensiero cristiano - che comincia con Giovanni, e che caratterizza anche tutto il messianesimo ebraico: la felicità, il Regno di Dio, si realizzano alla fine dei tempi sulla terra. "Le radici dell’escatologia totalitaria affondano insomma nel pensiero apocalittico cristiano e nel pensiero messianico ebraico. Quest’ultimo, non a caso, è molto poco interessato a immaginare il paradiso o l’inferno, e alcune sue correnti negano perfino l’immortalità. "Il popolo eletto, così come la classe operaia per Marx, combatte e vive nel proprio tempo, ma è tuttavia un popolo che resta sempre in attesa. Abbiamo comunque a che fare con un pensiero escatologico mondano: alla fine dei tempi, con l’avvento del Regno e della felicità, comincerà un tempo immobile, la storia sarà finita; così come accadrà quando la razza superiore avrà prevalso su tutte le altre, o quando la classe operaia avrà abolito lo Stato e il comunismo sarà realizzato su tutta la terra. "Se cerchiamo il vero incunabolo di queste spinte totalitarie, troviamo le religioni monoteiste".
giovedì 27 novembre 2003
box office
(segnalazione di Sergio Grom)
Corriere della Sera 27.11.03
Troppa fiction dietro i flop del cinema italiano
Bertolucci, Bellocchio e Virzì le eccezioni.
Ma c’è persino chi non riesce ad avere più di 100 spettatori
di Maurizio Porro
"Buongiorno, notte" di Bellocchio con 3.280.000, "The Dreamers" di Bertolucci con 4.793.800, "Caterina va in città" di Virzì con 3.200.000. I primi tre mesi della nuova stagione del cinema italiano si fermano a questi tre titoli, gli unici di successo.
[...]
Dopo la Mostra di Venezia, che ha lanciato alla grande i due B., Bertolucci e Bellocchio, il pubblico si è tenuto alla larga dai nostri film
[...]
Corriere della Sera 27.11.03
Troppa fiction dietro i flop del cinema italiano
Bertolucci, Bellocchio e Virzì le eccezioni.
Ma c’è persino chi non riesce ad avere più di 100 spettatori
di Maurizio Porro
"Buongiorno, notte" di Bellocchio con 3.280.000, "The Dreamers" di Bertolucci con 4.793.800, "Caterina va in città" di Virzì con 3.200.000. I primi tre mesi della nuova stagione del cinema italiano si fermano a questi tre titoli, gli unici di successo.
[...]
Dopo la Mostra di Venezia, che ha lanciato alla grande i due B., Bertolucci e Bellocchio, il pubblico si è tenuto alla larga dai nostri film
[...]
mercoledì 26 novembre 2003
da clorofilla.it:
sul concordato preventivo
sul concordato preventivo
clorofilla.it > articoli > politica e istituzioni (lunedì 24 novembre 2003)
clorofilla è di nuovo in linea; l'aricolo originale, con immagini e link, può essere raggiunto cliccando qui
Concilare il rispetto delle leggi fiscali e della deontologia professionale è possibile. L'annoso conflitto si potrebbe facilmente risolvere. Ne sono convinti quei medici "sensibili" che devono garantire la cura anche a chi chiede l'anonimato. Per loro basterebbe ripristinare la disposizione originale del ddl di accompagnamento alla legge finanziaria. E' l'appello della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri ai ministri della Salute e delle Finanze, Sirchia e Tremonti
«Concordiamo la cura. Nel rispetto della Privacy»
di pdm
Roma - Vanno aumentando di ora in ora le firme dei medici che sottoscrivono l’appello di sostegno alla posizione della FNOMCeO, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri, espressa con lettera inviata, l’altra settimana, a Giulio Tremonti e Girolamo Sirchia, titolari rispettivamente dei ministeri delle Finanze e della Salute.
Il tema della missiva riguarda il decreto legge di accompagnamento alla legge finanziaria per il 2004, che all'art. 33 istituisce il concordato preventivo.
I medici lamentano il fatto che nella formulazione iniziale di quel ddl, in caso di adesione era prevista, prima del misterioso intervento a Palazzo Chigi e contestualmente ad altri benefici, «la sospensione degli obblighi tributari di emissione dello scontrino fiscale, della ricevuta fiscale, nonché della fattura limitatamente a quella nei confronti di soggetti non esercenti attività di impresa o di lavoro autonomo».
In quel modo - sostengono - si tutelava il delicato rapporto che intercorre tra medico e paziente, permettendo allo specialista, purché ovviamente concordatario, di prestare la cura a chi ne fa richiesta salvaguardando eventualmente anche l’anonimato del paziente. «Si sarebbe così risolto - spiega dall’università di Chieti, la psichiatra Gioia Roccioletti - una delicata questione etica, ma nel testo del “decretone” approvato dal Parlamento non c’è più traccia di quel testo facendo venir meno – denuncia Roccioletti con altri firmatari del documento - questa acquisizione fondamentale per il corretto esercizio della professione medica».
Ecco dunque perché i medici, in particolar modo psichiatri e ginecologi, scendono ora in campo con il presidente della FNOMCeO, Giuseppe del Barone. La Federazione nazionale dei medici si appella in pratica al ministro delle Finanze affinché modifichi con emendamento governativo il testo del Concordato. Del Barone chiede cioè il ripristino di quella disposizione che avrebbe consentito di porre finalmente un termine all'annoso conflitto tra il rispetto delle leggi fiscali e il rispetto della deontologia professionale, in particolare di quella medica.
I camici bianchi sperano che il governo possa «rimediare celermente all'errore compiuto, già in sede di passaggio alla Camera della Legge Finanziaria» e si rivolgono ai ministri Sirchia e Tremonti per «un interessamento in tal senso». Un appello infine è rivolto anche al presidente della Repubblica Ciampi «in quanto vengono in rilievo valori fondamentali tutelati dalla nostra Costituzione, che potrebbero essere rafforzati con un intervento di semplice attuazione».
Leggi anche:
Finanziaria, il “decretone” blindato mercoledì alla Camera
Concordato, il giallo delle modifiche al Senato
Il Fondo. "Curare" la Finanziaria è (ancora) possibile
Concordato preventivo, dubbi accademici sulle modifiche. E' il caso, ma non solo, di talune prestazioni mediche, dove la necessità di subordinare la prestazione della cura alla disponibilità del paziente a essere identificato urta contro fondamentali principi di deontologia professionale. Il direttore del Dipartimento di Scienze economiche dell'università di Bari spiega perché l’eliminazione dell’obbligo di fatturare avrebbe consentito di affrontare finalmente alcuni gravi inconvenienti in alcuni settori delle professioni e dei servizi particolarmente sensibili.
Glossario
Documento di programmazione economica e finanziaria (il governo lo presenta entro il 30 giugno)
Il Documento di programmazione economica e finanziaria è uno strumento con il quale il governo definisce annualmente la manovra di finanza pubblica. Il Dpef va presentato da Palazzo Chigi al Parlamento entro il 30 giugno di ogni anno anziché entro il 15 maggio come in precedenza stabilito. Lo slittamento di questo termine è giustificato dalla necessità di far coincidere quanto più possibile le previsioni macroeconomiche elaborate dal governo a maggio con la compilazione dei documenti di bilancio che invece viene ultimata a settembre.
Il Dpef stabilisce i parametri economici essenziali utilizzati e le previsioni tendenziali dei flussi di entrata e di spesa, per i grandi comparti, del settore statale e del conto consolidato delle pubbliche amministrazioni. Inoltre indica gli obiettivi macroeconomici, gli obiettivi – rapportati al Pil – del settore statale e del debito, riporta gli obiettivi di fabbisogno complessivo e di disavanzo corrente. Ma il Documento di programmazione economica indica anche l’articolazione degli interventi collegati alla manovra di finanza pubblica necessari per il raggiungimento dei suddetti obiettivi.
In sostanza, lo scopo del Dpef è quello di permettere al Parlamento di sapere in anticipo le linee di politica economica del governo, il quale è politicamente impegnato a redigere il susseguente bilancio annuale di previsione secondo i criteri scaturenti dal dibattito parlamentare.
Legge finanziaria (il governo la presenta entro settembre)
La legge finanziaria è un insieme di disposizioni riguardanti la formazione del bilancio annuale pluriennale dello Stato. Introdotta in maniera permanente dalla legge 468/78, la Finanziaria deve essere presentata entro settembre di ogni anno dal governo contestualmente alla presentazione del bilancio. Essa dovrebbe essere approvata entro il 31 dicembre. Altrimenti il governo sarebbe costretto (come è già capitato) a far ricorso all'esercizio provvisorio del bilancio.
In sostanza la Finanziaria fissa il livello massimo di ricorso al mercato e quindi fissa il tetto delle spese da iscrivere nel bilancio annuale. Può contenere modifiche o integrazioni alle leggi che hanno riflessi sui conti dello Stato onde correlarli agli obiettivi di politica economica cui si ispirano il bilancio pluriennale e il bilancio annuale. La Finanziaria è stata insomma ridotta a una “legge omnibus”, per cui contiene le disposizioni più disparate. Essa deve inoltre essere approvata da entrambe le Camere prima della legge di bilancio ed ha una grande importanza politica perché concentra in sé (insieme ai disegni di legge collegati) la manovra economica destinata a governare il Paese.
Disegni e decreti di legge collegati alla Finanziaria (normalmente si approvano sei/nove mesi dopo la Finanziaria)
I disegni di legge (progetti legislativi d’iniziativa del Consiglio dei ministri) o i decreti (provvedimenti del governo immediatamente esecutivi) che il governo presenta insieme alla Finanziaria e alla legge di bilancio, affrontano normalmente questioni settoriali e vengono esaminati ciascuno nella commissione competente. Sono “collegati” sia temporalmente, perché sono presentati assieme alla Finanziaria, sia funzionalmente, perché sono considerati determinanti dal governo per il raggiungimento degli obiettivi complessivi di politica economica. Normalmente vengono varati anche sei o nove mesi dopo la Finanziaria. Ovviamente i disegni di legge hanno bisogno dell’approvazione parlamentare per diventare esecutivi, laddove i decreti divengono immediatamente operativi e devono poi essere convertiti in legge entro 60 giorni dal loro varo da parte di Palazzo Chigi.
In questi giorni si parla sui media di “decretone” a proposito di un maxidecreto che accompagna la Finanziaria 2004 e che ne garantisce la copertura per circa 13,6 miliardi di euro.
Legge di bilancio (da approvare entro fine anno)
E’ un pò l’atto finale dell'annata. Il provvedimento che approva il bilancio dello Stato presentato dal governo (il quale, in attesa di tale approvazione, può essere temporaneamente abilitato, mediante apposita legge, all'esercizio provvisorio del bilancio medesimo). La legge di approvazione del bilancio - a norma dell'articolo 81 della Costituzione - non può stabilire nuovi tributi e nuove spese. Per questo è accompagnata dalla Finanziaria.
clorofilla è di nuovo in linea; l'aricolo originale, con immagini e link, può essere raggiunto cliccando qui
Concilare il rispetto delle leggi fiscali e della deontologia professionale è possibile. L'annoso conflitto si potrebbe facilmente risolvere. Ne sono convinti quei medici "sensibili" che devono garantire la cura anche a chi chiede l'anonimato. Per loro basterebbe ripristinare la disposizione originale del ddl di accompagnamento alla legge finanziaria. E' l'appello della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri ai ministri della Salute e delle Finanze, Sirchia e Tremonti
«Concordiamo la cura. Nel rispetto della Privacy»
di pdm
Roma - Vanno aumentando di ora in ora le firme dei medici che sottoscrivono l’appello di sostegno alla posizione della FNOMCeO, Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri, espressa con lettera inviata, l’altra settimana, a Giulio Tremonti e Girolamo Sirchia, titolari rispettivamente dei ministeri delle Finanze e della Salute.
Il tema della missiva riguarda il decreto legge di accompagnamento alla legge finanziaria per il 2004, che all'art. 33 istituisce il concordato preventivo.
I medici lamentano il fatto che nella formulazione iniziale di quel ddl, in caso di adesione era prevista, prima del misterioso intervento a Palazzo Chigi e contestualmente ad altri benefici, «la sospensione degli obblighi tributari di emissione dello scontrino fiscale, della ricevuta fiscale, nonché della fattura limitatamente a quella nei confronti di soggetti non esercenti attività di impresa o di lavoro autonomo».
In quel modo - sostengono - si tutelava il delicato rapporto che intercorre tra medico e paziente, permettendo allo specialista, purché ovviamente concordatario, di prestare la cura a chi ne fa richiesta salvaguardando eventualmente anche l’anonimato del paziente. «Si sarebbe così risolto - spiega dall’università di Chieti, la psichiatra Gioia Roccioletti - una delicata questione etica, ma nel testo del “decretone” approvato dal Parlamento non c’è più traccia di quel testo facendo venir meno – denuncia Roccioletti con altri firmatari del documento - questa acquisizione fondamentale per il corretto esercizio della professione medica».
Ecco dunque perché i medici, in particolar modo psichiatri e ginecologi, scendono ora in campo con il presidente della FNOMCeO, Giuseppe del Barone. La Federazione nazionale dei medici si appella in pratica al ministro delle Finanze affinché modifichi con emendamento governativo il testo del Concordato. Del Barone chiede cioè il ripristino di quella disposizione che avrebbe consentito di porre finalmente un termine all'annoso conflitto tra il rispetto delle leggi fiscali e il rispetto della deontologia professionale, in particolare di quella medica.
I camici bianchi sperano che il governo possa «rimediare celermente all'errore compiuto, già in sede di passaggio alla Camera della Legge Finanziaria» e si rivolgono ai ministri Sirchia e Tremonti per «un interessamento in tal senso». Un appello infine è rivolto anche al presidente della Repubblica Ciampi «in quanto vengono in rilievo valori fondamentali tutelati dalla nostra Costituzione, che potrebbero essere rafforzati con un intervento di semplice attuazione».
Leggi anche:
Finanziaria, il “decretone” blindato mercoledì alla Camera
Concordato, il giallo delle modifiche al Senato
Il Fondo. "Curare" la Finanziaria è (ancora) possibile
Concordato preventivo, dubbi accademici sulle modifiche. E' il caso, ma non solo, di talune prestazioni mediche, dove la necessità di subordinare la prestazione della cura alla disponibilità del paziente a essere identificato urta contro fondamentali principi di deontologia professionale. Il direttore del Dipartimento di Scienze economiche dell'università di Bari spiega perché l’eliminazione dell’obbligo di fatturare avrebbe consentito di affrontare finalmente alcuni gravi inconvenienti in alcuni settori delle professioni e dei servizi particolarmente sensibili.
Glossario
Documento di programmazione economica e finanziaria (il governo lo presenta entro il 30 giugno)
Il Documento di programmazione economica e finanziaria è uno strumento con il quale il governo definisce annualmente la manovra di finanza pubblica. Il Dpef va presentato da Palazzo Chigi al Parlamento entro il 30 giugno di ogni anno anziché entro il 15 maggio come in precedenza stabilito. Lo slittamento di questo termine è giustificato dalla necessità di far coincidere quanto più possibile le previsioni macroeconomiche elaborate dal governo a maggio con la compilazione dei documenti di bilancio che invece viene ultimata a settembre.
Il Dpef stabilisce i parametri economici essenziali utilizzati e le previsioni tendenziali dei flussi di entrata e di spesa, per i grandi comparti, del settore statale e del conto consolidato delle pubbliche amministrazioni. Inoltre indica gli obiettivi macroeconomici, gli obiettivi – rapportati al Pil – del settore statale e del debito, riporta gli obiettivi di fabbisogno complessivo e di disavanzo corrente. Ma il Documento di programmazione economica indica anche l’articolazione degli interventi collegati alla manovra di finanza pubblica necessari per il raggiungimento dei suddetti obiettivi.
In sostanza, lo scopo del Dpef è quello di permettere al Parlamento di sapere in anticipo le linee di politica economica del governo, il quale è politicamente impegnato a redigere il susseguente bilancio annuale di previsione secondo i criteri scaturenti dal dibattito parlamentare.
Legge finanziaria (il governo la presenta entro settembre)
La legge finanziaria è un insieme di disposizioni riguardanti la formazione del bilancio annuale pluriennale dello Stato. Introdotta in maniera permanente dalla legge 468/78, la Finanziaria deve essere presentata entro settembre di ogni anno dal governo contestualmente alla presentazione del bilancio. Essa dovrebbe essere approvata entro il 31 dicembre. Altrimenti il governo sarebbe costretto (come è già capitato) a far ricorso all'esercizio provvisorio del bilancio.
In sostanza la Finanziaria fissa il livello massimo di ricorso al mercato e quindi fissa il tetto delle spese da iscrivere nel bilancio annuale. Può contenere modifiche o integrazioni alle leggi che hanno riflessi sui conti dello Stato onde correlarli agli obiettivi di politica economica cui si ispirano il bilancio pluriennale e il bilancio annuale. La Finanziaria è stata insomma ridotta a una “legge omnibus”, per cui contiene le disposizioni più disparate. Essa deve inoltre essere approvata da entrambe le Camere prima della legge di bilancio ed ha una grande importanza politica perché concentra in sé (insieme ai disegni di legge collegati) la manovra economica destinata a governare il Paese.
Disegni e decreti di legge collegati alla Finanziaria (normalmente si approvano sei/nove mesi dopo la Finanziaria)
I disegni di legge (progetti legislativi d’iniziativa del Consiglio dei ministri) o i decreti (provvedimenti del governo immediatamente esecutivi) che il governo presenta insieme alla Finanziaria e alla legge di bilancio, affrontano normalmente questioni settoriali e vengono esaminati ciascuno nella commissione competente. Sono “collegati” sia temporalmente, perché sono presentati assieme alla Finanziaria, sia funzionalmente, perché sono considerati determinanti dal governo per il raggiungimento degli obiettivi complessivi di politica economica. Normalmente vengono varati anche sei o nove mesi dopo la Finanziaria. Ovviamente i disegni di legge hanno bisogno dell’approvazione parlamentare per diventare esecutivi, laddove i decreti divengono immediatamente operativi e devono poi essere convertiti in legge entro 60 giorni dal loro varo da parte di Palazzo Chigi.
In questi giorni si parla sui media di “decretone” a proposito di un maxidecreto che accompagna la Finanziaria 2004 e che ne garantisce la copertura per circa 13,6 miliardi di euro.
Legge di bilancio (da approvare entro fine anno)
E’ un pò l’atto finale dell'annata. Il provvedimento che approva il bilancio dello Stato presentato dal governo (il quale, in attesa di tale approvazione, può essere temporaneamente abilitato, mediante apposita legge, all'esercizio provvisorio del bilancio medesimo). La legge di approvazione del bilancio - a norma dell'articolo 81 della Costituzione - non può stabilire nuovi tributi e nuove spese. Per questo è accompagnata dalla Finanziaria.
MARCO BELLOCCHIO sul "Mereghetti" 2004, appena uscito...
Lospettacolo.it 25 novembre 2003 h.14:54
MEREGHETTI BOCCIA BERTOLUCCI
Critica negativa a "The Dreamers" nel nuovo Mereghetti 2004
È uscita la nuova edizione, la sesta, della “bibbia” del cinema: il dizionario di film e registi da sempre più venduto in Italia, il Paolo Mereghetti 2004.
Aggiornato all’estate 2003, il nuovo dizionario è in due volumi, uno sui film e l’altro sui registi e conta quasi ventimila schede. Quantità quindi ma anche tanta qualità, come d’abitudine: “è il solito, vecchio dizionario che si sforza di essere sempre più equilibrato fra informazioni, chiarezza espositiva, credibilità e speriamo – sottolinea l’autore – autorevolezza critica”.
Fra le ultime recensioni spicca la parziale bocciatura dell’ultimo Bertolucci, di cui Mereghetti salva solo la prima parte, criticandone invece "le variazioni morbose che puzzano di cattiva letteratura”. Promosso invece “Buongiorno, notte” di Bellocchio che mostra un efficace equilibrio tra minuziosa ricostruzione del quotidiano e una chiave espressiva intimista.
Il Mereghetti. Dizionario dei film 2004, di Paolo Mereghetti è edito da Baldini Castoldi Dalai
... E IN VENEZUELA
ADNKRONOS 25/11/2003 14:36
CINEMA: PRIMA RASSEGNA ITALIANA IN VENEZUELA
Roma, 25 nov. (Adnkronos) - Prima rassegna del nuovo cinema italiano in Venezuela. Dal 2 al 14 dicembre la "Cinematica national" di Caracas ospitera' infatti l'iniziativa nata da un'idea della presidente dell'associazione di lingua e cultura italiana "Italian in Italy" Giuseppina Foti e dalla regista e produttrice di origine italiana Milvia Piazza. Una scelta legata soprattutto alla presenza di una consistente comunità di italiani in Venezuela. I film selezionati per la rassegna venezuelana sono 'Io no' di Simona Izzo e Ricky Tognazzi, che parteciperanno alla serata inaugurale del 2 dicembre; 'Respiro' di Emanuele Crialese, anche lui presente all'inaugurazione; 'Il mio viaggio in Italia' di Martin Scorsese; 'Callas forever' di Franco Zeffirelli; 'Il piu' bel giorno della mia vita' di Cristina Comencini, 'Santa Maradona' di Marco Ponti; 'Luce dei miei occhi' di Giuseppe Piccioni; 'Il mestiere delle armi' di Ermanno Olmi; 'L'ora di religione' di Marco Bellocchio; 'Le fate ignoranti' di Ferzan Ozpetek. (Sin-Pec/Cnz/Adnkronos)
MEREGHETTI BOCCIA BERTOLUCCI
Critica negativa a "The Dreamers" nel nuovo Mereghetti 2004
È uscita la nuova edizione, la sesta, della “bibbia” del cinema: il dizionario di film e registi da sempre più venduto in Italia, il Paolo Mereghetti 2004.
Aggiornato all’estate 2003, il nuovo dizionario è in due volumi, uno sui film e l’altro sui registi e conta quasi ventimila schede. Quantità quindi ma anche tanta qualità, come d’abitudine: “è il solito, vecchio dizionario che si sforza di essere sempre più equilibrato fra informazioni, chiarezza espositiva, credibilità e speriamo – sottolinea l’autore – autorevolezza critica”.
Fra le ultime recensioni spicca la parziale bocciatura dell’ultimo Bertolucci, di cui Mereghetti salva solo la prima parte, criticandone invece "le variazioni morbose che puzzano di cattiva letteratura”. Promosso invece “Buongiorno, notte” di Bellocchio che mostra un efficace equilibrio tra minuziosa ricostruzione del quotidiano e una chiave espressiva intimista.
Il Mereghetti. Dizionario dei film 2004, di Paolo Mereghetti è edito da Baldini Castoldi Dalai
... E IN VENEZUELA
ADNKRONOS 25/11/2003 14:36
CINEMA: PRIMA RASSEGNA ITALIANA IN VENEZUELA
Roma, 25 nov. (Adnkronos) - Prima rassegna del nuovo cinema italiano in Venezuela. Dal 2 al 14 dicembre la "Cinematica national" di Caracas ospitera' infatti l'iniziativa nata da un'idea della presidente dell'associazione di lingua e cultura italiana "Italian in Italy" Giuseppina Foti e dalla regista e produttrice di origine italiana Milvia Piazza. Una scelta legata soprattutto alla presenza di una consistente comunità di italiani in Venezuela. I film selezionati per la rassegna venezuelana sono 'Io no' di Simona Izzo e Ricky Tognazzi, che parteciperanno alla serata inaugurale del 2 dicembre; 'Respiro' di Emanuele Crialese, anche lui presente all'inaugurazione; 'Il mio viaggio in Italia' di Martin Scorsese; 'Callas forever' di Franco Zeffirelli; 'Il piu' bel giorno della mia vita' di Cristina Comencini, 'Santa Maradona' di Marco Ponti; 'Luce dei miei occhi' di Giuseppe Piccioni; 'Il mestiere delle armi' di Ermanno Olmi; 'L'ora di religione' di Marco Bellocchio; 'Le fate ignoranti' di Ferzan Ozpetek. (Sin-Pec/Cnz/Adnkronos)
l'assassina di Firenze
La Repubblica - edizione di Firenze 26.11.03
L´INCHIESTA
La donna accusata di aver ucciso Rossana D'Aniello afferma che la sua vita è cambiata per quello che avvenne trent'anni fa
"Perseguitata dai compagni di classe"
Daniela Cecchin dice di essere stata nel mirino "perché anticomunista"
di FRANCA SELVATICI
«Io sono stata l'agnello. Non lo dico per autocompatirmi, ma veramente mi è successo questo». È il 14 novembre, sei giorni dopo l'atroce omicidio di Rossana D'Aniello, accoltellata a morte della sua casa in via della Scala. Davanti al pm Pietro Suchan è seduta l'assassina, Daniela Cecchin, 47 anni, individuata a tempo di record dalla squadra mobile. Prima di confessare, chiede di parlare di «episodi che sono successi 30 anni fa». «Quando ho iniziato il Michelangelo ero una ragazzina normale… Ho subìto una serie di umiliazioni, di prese di giro anche molto crudeli, di violenze, di sopraffazioni da alcuni dei miei compagni di classe… sono stati i miei persecutori, una cosa che è durata 5 anni… sono convinta che neanche se le ricordano queste cose, che per me invece sono state micidiali…».
Erano gli anni '70-'75. Gli insegnanti ricordano ragazzi splendidi, «gran bravi ragazzi». Lei invece è certa: è tutta colpa loro se dopo non è stata più capace di avere «rapporti affettivamente normali con le persone». «Era il periodo della contestazione… io ero cattolica e anticomunista… e mi hanno perseguitata proprio per questo… hanno cominciato a dirmi che ero reazionaria…». Ma nella sua sezione c'era un'insegnante cattolicissima eppure rispettatissima. Erano crudeli i compagni o era Daniela che già vedeva ovunque «ingiustizie e violenze»? Le stesse che sostiene di aver subìto nella ditta di Vicenza in cui ha lavorato per alcuni anni.
L'unica persona normale e gentile che ricorda di aver incontrato nella sua giovinezza è Paolo Botteri, suo compagno al primo anno di farmacia. «Un buon ragazzo, serio, colto, intelligente». Lo ha rivisto dopo quasi 30 anni, a fine settembre. «Mi sono come sentita montare un furore dentro… Il mio rancore è dilagato dopo 30 anni e l'ho come focalizzato su sua moglie… ho pensato che doveva avere avuto accanto a quest'uomo una vita serena, tranquilla, e l'ho paragonata al deserto della mia vita, a tutte queste ingiustizie e violenze che io ho subìto… e mi è venuto in mente di farle del male». Per questo è morta Rossana D'Aniello. «Non è che uno con la depressione debba ammazzare le persone», ammette l'assassina. Però nei confronti della sua vittima non ha parole di pietà. «La signora ha reagito cercando di difendersi?», le chiede il Pm. «Beh, certo», risponde asciutta.
«Ma se lei - le domanda il pm - ha ridotto in queste condizioni la signora D'Aniello che non le aveva fatto nulla… a questo compagno di scuola che secondo lei le ha rovinato la vita, ma cosa gli avrebbe fatto?». «Niente più che qualche telefonata», risponde sprezzante: «Lui, scusi il termine, è uno stronzetto e basta». «Lei è molto religiosa?», le chiede il magistrato. «Mi sta prendendo in giro?», si insospettisce. «No», le assicura il pm. «Sì. Sono religiosa. Ho molta più fiducia nella giustizia di Dio che in quella degli uomini».
L´INCHIESTA
La donna accusata di aver ucciso Rossana D'Aniello afferma che la sua vita è cambiata per quello che avvenne trent'anni fa
"Perseguitata dai compagni di classe"
Daniela Cecchin dice di essere stata nel mirino "perché anticomunista"
di FRANCA SELVATICI
«Io sono stata l'agnello. Non lo dico per autocompatirmi, ma veramente mi è successo questo». È il 14 novembre, sei giorni dopo l'atroce omicidio di Rossana D'Aniello, accoltellata a morte della sua casa in via della Scala. Davanti al pm Pietro Suchan è seduta l'assassina, Daniela Cecchin, 47 anni, individuata a tempo di record dalla squadra mobile. Prima di confessare, chiede di parlare di «episodi che sono successi 30 anni fa». «Quando ho iniziato il Michelangelo ero una ragazzina normale… Ho subìto una serie di umiliazioni, di prese di giro anche molto crudeli, di violenze, di sopraffazioni da alcuni dei miei compagni di classe… sono stati i miei persecutori, una cosa che è durata 5 anni… sono convinta che neanche se le ricordano queste cose, che per me invece sono state micidiali…».
Erano gli anni '70-'75. Gli insegnanti ricordano ragazzi splendidi, «gran bravi ragazzi». Lei invece è certa: è tutta colpa loro se dopo non è stata più capace di avere «rapporti affettivamente normali con le persone». «Era il periodo della contestazione… io ero cattolica e anticomunista… e mi hanno perseguitata proprio per questo… hanno cominciato a dirmi che ero reazionaria…». Ma nella sua sezione c'era un'insegnante cattolicissima eppure rispettatissima. Erano crudeli i compagni o era Daniela che già vedeva ovunque «ingiustizie e violenze»? Le stesse che sostiene di aver subìto nella ditta di Vicenza in cui ha lavorato per alcuni anni.
L'unica persona normale e gentile che ricorda di aver incontrato nella sua giovinezza è Paolo Botteri, suo compagno al primo anno di farmacia. «Un buon ragazzo, serio, colto, intelligente». Lo ha rivisto dopo quasi 30 anni, a fine settembre. «Mi sono come sentita montare un furore dentro… Il mio rancore è dilagato dopo 30 anni e l'ho come focalizzato su sua moglie… ho pensato che doveva avere avuto accanto a quest'uomo una vita serena, tranquilla, e l'ho paragonata al deserto della mia vita, a tutte queste ingiustizie e violenze che io ho subìto… e mi è venuto in mente di farle del male». Per questo è morta Rossana D'Aniello. «Non è che uno con la depressione debba ammazzare le persone», ammette l'assassina. Però nei confronti della sua vittima non ha parole di pietà. «La signora ha reagito cercando di difendersi?», le chiede il Pm. «Beh, certo», risponde asciutta.
«Ma se lei - le domanda il pm - ha ridotto in queste condizioni la signora D'Aniello che non le aveva fatto nulla… a questo compagno di scuola che secondo lei le ha rovinato la vita, ma cosa gli avrebbe fatto?». «Niente più che qualche telefonata», risponde sprezzante: «Lui, scusi il termine, è uno stronzetto e basta». «Lei è molto religiosa?», le chiede il magistrato. «Mi sta prendendo in giro?», si insospettisce. «No», le assicura il pm. «Sì. Sono religiosa. Ho molta più fiducia nella giustizia di Dio che in quella degli uomini».
Semerano
La Repubblica ed. di Firenze, 26.11.03
Oggi lo studioso a "Leggere per non dimenticare". La consegna del Fiorino d'oro
"Noi figli del Mediterraneo dobbiamo molto a Semerano"
Cacciari e le scoperte del grande etruscologo
Una conferma del legame fra greci e Oriente
"La conferma dell´intreccio fra Europa, Medio Oriente Mesopotamia"
"Un'opera quella del linguista di grande liberazione politica civile e culturale"
di BEATRICE MANETTI
Inseguendo le parole, Giovanni Semerano ha trovato un mondo intero. Da decenni il filologo fiorentino, autore del monumentale "Le origini della cultura europea", sostiene contro l'accademia che le lingue e la civiltà dell´Europa mediterranea non nascono dalla matrice indoeuropea. O meglio, che quella matrice non è l´unica. Navigando nel tempo sulla barca dell'etimologia, Semerano è arrivato all'arcipelago delle grandi civiltà mesopotamiche e mediorientali. Anche l'etrusco proviene da lì, come testimonia il suo nuovo libro, "Il popolo che sconfisse la morte". Gli etruschi e la loro lingua, che lo studioso presenta oggi a Firenze, a «Leggere per non dimenticare» (17.30) presso la Biblioteca Comunale di via S. Egidio, dove il vicesindaco Giuseppe Matulli gli consegnerà il Fiorino d'oro. Con lui, uno storico e un filosofo che gli devono molto: Franco Cardini e Massimo Cacciari.
Professor Cacciari, Semerano è contestato da molti filologi e linguisti, ma affascina i filosofi e gli storici. Perché?
«Non oso entrare in discussioni sugli aspetti tecnici dell'opera di Semerano. Vorrei che se ne apprezzasse la straordinaria visione d´insieme, e cioè che bisogna prendere radicalmente sul serio la dimensione mediterranea originaria della nostra civiltà. In questo senso l'opera di Semerano si colloca in un contesto di studi che hanno affrontato il tema delle origini della civiltà occidentale europea in un ambito mediorientale, mesopotamico e orientale. Non c'è niente di stupefacente, per uno storico della filosofia. Anzi, nelle ricerche linguistiche di Semerano noi filosofi abbiamo trovato conferma dell'intreccio che ha legato fin dalle origini letteratura greca e mondi orientali. Per gli etruschi è lo stesso, ma mi pare che in questo caso Semerano vada ancora di più lungo una strada già aperta dagli storici e dai filosofi».
La tesi di Semerano è che l'etrusco è una «koinè mediterranea»: questa espressione, oggi, non assume anche un significato più ampio?
«Ma certo, le ricerche di Semerano fanno capire come l'Europa non possa intendersi senza questa relazione costitutiva con il mondo mediorientale. Spazzano tutte le nefaste mitologie che l'Europa si è portata dietro dal Medioevo su una sua presunta identità razziale nei confronti dei mondi semitici. È un'opera di grande liberazione anche dal punto di vista politico, civile e culturale».
La ricerca delle origini linguistiche invita anche a una riflessione su temi che stanno scomparendo dal nostro orizzonte di pensiero: l'infinito, il sacro, la morte.
«La nostra civiltà si basa sulla scoperta dell'anima: se muore o sopravvive, se appartiene a Dio, se è materiale o immateriale. È un po' difficile immaginare la nostra civiltà senza questi discorsi. Che possono essere anche archeologia, ma archeologia non è soltanto il passato, è cio che sta al centro, ciò che comanda. Il passato in quanto passato è la più sciocca delle parole. La mia stessa costituzione fisica è determinata da una serie di eventi, di casi, di incontri precedenti. Quando riusciremo a nascere in provetta, allora il passato sarà veramente passato».
E stiamo andando in questa direzione?
«Penso di sì. La tendenza fondamentale del nostro tempo è a nascere da sé, questo la filosofia l'ha capito e la sua intuizione si sta avverando in termini tecnico-scientifici. Oggi ancora no, ma questo no sta diventando sempre più relativo. Fino ad allora, varrà la pena leggere i libri di Semerano».
Oggi lo studioso a "Leggere per non dimenticare". La consegna del Fiorino d'oro
"Noi figli del Mediterraneo dobbiamo molto a Semerano"
Cacciari e le scoperte del grande etruscologo
Una conferma del legame fra greci e Oriente
"La conferma dell´intreccio fra Europa, Medio Oriente Mesopotamia"
"Un'opera quella del linguista di grande liberazione politica civile e culturale"
di BEATRICE MANETTI
Inseguendo le parole, Giovanni Semerano ha trovato un mondo intero. Da decenni il filologo fiorentino, autore del monumentale "Le origini della cultura europea", sostiene contro l'accademia che le lingue e la civiltà dell´Europa mediterranea non nascono dalla matrice indoeuropea. O meglio, che quella matrice non è l´unica. Navigando nel tempo sulla barca dell'etimologia, Semerano è arrivato all'arcipelago delle grandi civiltà mesopotamiche e mediorientali. Anche l'etrusco proviene da lì, come testimonia il suo nuovo libro, "Il popolo che sconfisse la morte". Gli etruschi e la loro lingua, che lo studioso presenta oggi a Firenze, a «Leggere per non dimenticare» (17.30) presso la Biblioteca Comunale di via S. Egidio, dove il vicesindaco Giuseppe Matulli gli consegnerà il Fiorino d'oro. Con lui, uno storico e un filosofo che gli devono molto: Franco Cardini e Massimo Cacciari.
Professor Cacciari, Semerano è contestato da molti filologi e linguisti, ma affascina i filosofi e gli storici. Perché?
«Non oso entrare in discussioni sugli aspetti tecnici dell'opera di Semerano. Vorrei che se ne apprezzasse la straordinaria visione d´insieme, e cioè che bisogna prendere radicalmente sul serio la dimensione mediterranea originaria della nostra civiltà. In questo senso l'opera di Semerano si colloca in un contesto di studi che hanno affrontato il tema delle origini della civiltà occidentale europea in un ambito mediorientale, mesopotamico e orientale. Non c'è niente di stupefacente, per uno storico della filosofia. Anzi, nelle ricerche linguistiche di Semerano noi filosofi abbiamo trovato conferma dell'intreccio che ha legato fin dalle origini letteratura greca e mondi orientali. Per gli etruschi è lo stesso, ma mi pare che in questo caso Semerano vada ancora di più lungo una strada già aperta dagli storici e dai filosofi».
La tesi di Semerano è che l'etrusco è una «koinè mediterranea»: questa espressione, oggi, non assume anche un significato più ampio?
«Ma certo, le ricerche di Semerano fanno capire come l'Europa non possa intendersi senza questa relazione costitutiva con il mondo mediorientale. Spazzano tutte le nefaste mitologie che l'Europa si è portata dietro dal Medioevo su una sua presunta identità razziale nei confronti dei mondi semitici. È un'opera di grande liberazione anche dal punto di vista politico, civile e culturale».
La ricerca delle origini linguistiche invita anche a una riflessione su temi che stanno scomparendo dal nostro orizzonte di pensiero: l'infinito, il sacro, la morte.
«La nostra civiltà si basa sulla scoperta dell'anima: se muore o sopravvive, se appartiene a Dio, se è materiale o immateriale. È un po' difficile immaginare la nostra civiltà senza questi discorsi. Che possono essere anche archeologia, ma archeologia non è soltanto il passato, è cio che sta al centro, ciò che comanda. Il passato in quanto passato è la più sciocca delle parole. La mia stessa costituzione fisica è determinata da una serie di eventi, di casi, di incontri precedenti. Quando riusciremo a nascere in provetta, allora il passato sarà veramente passato».
E stiamo andando in questa direzione?
«Penso di sì. La tendenza fondamentale del nostro tempo è a nascere da sé, questo la filosofia l'ha capito e la sua intuizione si sta avverando in termini tecnico-scientifici. Oggi ancora no, ma questo no sta diventando sempre più relativo. Fino ad allora, varrà la pena leggere i libri di Semerano».
Goethe e Ortega y Gasset
La Repubblica 26.11.03
Vita di un classico in una Europa che naufraga
lettera a un tedesco
Credevamo di essere gli eredi di un magnifico passato e di vivere di rendita
C'è oggi, nel 1932, qualche europeo che ha voglia di festeggiare gli anniversari?
Per la prima volta escono in Italia gli scritti del filosofo spagnolo sul grande poeta tedesco
di JOSÉ ORTEGA Y GASSET
Esce in questi giorni, nelle edizioni Medusa, il volume "Goethe. Un ritratto dall'interno", con quattro saggi di Ortega y Gasset, tutti inediti in Italia. Anticipiamo parte dell'intervento pubblicato su una rivista tedesca ("Die neue Rundschau") nel 1932, in occasione del centenario della morte di Goethe.
Lei mi chiede, caro amico, qualcosa su Goethe, in occasione del centenario, e io mi sono sforzato di rispondere ai suoi desideri. Da molti anni ormai non leggevo Goethe - perché? - e mi sono di nuovo calato nei corposi tomi delle sue opere complete. Presto, però, ho capito che la mia buona volontà avrebbe fallito, che non avrei potuto soddisfare la sua richiesta. Per molte ragioni. La prima: non mi sento in vena di centenari. Forse lei sì? C'è oggi qualche europeo che si trovi nello stato d'animo adatto per festeggiare centenari? Il 1932 ci preoccupa troppo per trovare spazio in qualche data a quel 1832. Questo non è, comunque, l'aspetto peggiore. Rendendosi così complessa la nostra vita nel 1932, il problema più grande consiste proprio nel suo rapporto con il passato. La gente non se ne rende ben conto, perché il presente e il futuro hanno sempre una drammaticità più spettacolare. Si dà il caso, però, che presente e futuro si siano ripresentati molte volte all'uomo in modi anche più difficili e aspri di oggi. Ciò che rende così insolitamente grave la nostra condizione attuale non affonda le proprie radici in queste due dimensioni del tempo quanto piuttosto nell´altra: se l'europeo fa un bilancio della propria situazione con perspicacia, si accorgerà che non dispera del presente né del futuro, ma precisamente del passato.
La vita è un'operazione verso il futuro. Si vive dall'avvenire, perché vivere consiste inesorabilmente in un fare, nel compiersi in sé di ogni esistenza. Chiamare «azione» questo «fare» significa imbellettare il lato tremendo della realtà. L'«azione» è solo l'inizio del «fare». È soltanto il momento in cui si decide ciò che si sta per fare. (...) Non basta l'azione - che è un mero decidersi -, ma è necessario fabbricare ciò che si è deciso, eseguirlo, ottenerlo. Quest'esigenza di effettiva realizzazione nel mondo, ben oltre la nostra mera soggettività e intenzione, è ciò che esprime il «fare». Questo ci obbliga a cercare mezzi per sopravvivere, per realizzare il futuro, e allora scopriamo il passato come arsenale di strumenti, di mezzi, di ricette, di norme. L'uomo che conserva la fede nel passato non teme il futuro, perché è sicuro di trovarvi la tattica, la via, il metodo per sostenersi nel problematico domani. Il futuro è l'orizzonte dei problemi; il passato la terraferma dei metodi, delle strade che crediamo di avere ben certe sotto i nostri piedi. Pensi, caro amico, alla terribile condizione dell'uomo per il quale, all'improvviso, il passato, le certezze, diventano instabili, un abisso. Prima, il pericolo pareva trovarsi soltanto di fronte a lui; ora è anche alle sue spalle e sotto i suoi piedi.
Non sta forse succedendo anche a noi qualcosa di simile? Credevamo di essere eredi di un magnifico passato e di poter vivere di rendita. Nel momento in cui il futuro ci incalza più fortemente rispetto alle ultime generazioni, ci voltiamo indietro cercando, come eravamo soliti, le armi tradizionali; ma impugnandole ci rendiamo conto che sono spade di canna, gesti insufficienti, attrezzo scenico che si rompe nell'impatto col bronzo del nostro futuro, dei nostri problemi. E improvvisamente ci sentiamo diseredati, senza tradizione, indigenti, come neonati senza predecessori. I romani chiamavano patrizi i figli di coloro che potevano fare testamento e lasciare un'eredità. Gli altri erano i proletari, discendenti ma non eredi. La nostra eredità consisteva nei metodi, ovvero nei classici. La crisi europea, tuttavia, che è la crisi del mondo, può essere vista come la crisi di ogni classicismo. Abbiamo l'impressione che le vie tradizionali non siano più utili per risolvere i nostri problemi. Sui classici si possono scrivere libri all'infinito. L'atteggiamento più semplice di fronte a un fatto è scriverci sopra un libro. Il più difficile è vivere di esso. Possiamo vivere oggi dei nostri classici? L'Europa di oggi non soffre di una strana proletarizzazione spirituale?
Il fallimento dell'università di fronte alle necessità attuali dell'uomo - il fatto gravissimo che in Europa l'università abbia cessato di essere un pouvoir spirituel - è soltanto una conseguenza di quella crisi, perché l'università è classicismo.
Non sono proprio questi i fatti che più contrastano con lo spirito dei centenari? Nelle feste dei centenari il ricco erede rimira compiaciuto il tesoro che i secoli hanno via via distillato. È triste e deprimente, invece, contare un tesoro di monete deprezzate. Questo serve soltanto a confermarci l'insufficienza del classico. Alla luce cruda, esigente, inesorabile, dell´attuale urgenza vitale, la figura del classico si scompone in mere frasi e smancerie. In questi ultimi mesi abbiamo celebrato i centenari di due giganti - sant'Agostino ed Hegel - e il risultato è stato deplorevole. Su nessuno dei due è stato possibile pubblicare una sola pagina proficua e incoraggiante.
La nostra disposizione è esattamente opposta a quella che potrebbe ispirarci atti di culto. Nel momento del pericolo la vita scrolla via tutto ciò che vi è di inessenziale - escrescenza, tessuto adiposo -, e cerca di spogliarsi, di ridursi al puro nervo, al puro muscolo. Qui sta la radice da cui può venire la salvezza dell'Europa, nella contrazione all'essenziale.
La vita è in sé stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il poveretto, sentendo che s'immerge nell'abisso, agita le braccia per mantenersi a galla. Il movimento delle braccia col quale reagisce alla propria perdizione è la cultura - un moto natatorio. Quando la cultura non è che questo, realizza il suo significato e l'umano si eleva sul proprio abisso. Dieci secoli di continuità culturale producono, però, tra i tanti vantaggi, anche il grande inconveniente della sicurezza dell'uomo, la perdita di emozione del naufragio, e la cultura si gonfia di opere parassitarie e linfatiche. Deve, quindi, sopraggiungere una qualche discontinuità che rinnovi nell'uomo la sensazione dello smarrimento, vera sostanza della sua vita. Occorre che gli vengano meno tutti gli strumenti per galleggiare, che non trovi nulla a cui aggrapparsi. Allora le sue braccia si agiteranno di nuovo in modo salvifico.
La coscienza del naufragio, essendo la verità della vita, è già la salvezza. Per questo motivo io credo soltanto ai pensieri dei naufraghi. Di fronte a un tribunale di naufraghi è necessario citare i classici perché vengano date risposte alle domande perentorie che riguardano la vita autentica.
Che figura farebbe Goethe di fronte a questo tribunale? Si potrebbe sospettare che egli sia il più discutibile fra tutti i classici, perché è il classico alla seconda potenza, il classico che a sua volta si era nutrito dei classici, il prototipo dell'erede spirituale, cosa di cui egli stesso era chiaramente consapevole; in definitiva, rappresenta il patrizio tra i classici. Quest'uomo ha fatto assegnamento sulle rendite di tutto il passato. La sua creazione somiglia non poco a una mera amministrazione delle ricchezze ricevute e, per questo, nella sua opera come nella sua vita, non manca mai il lato filisteo che cela sempre un amministratore. Inoltre, se tutti i classici sono tali, in definitiva, per la vita, Goethe pretende essere l´artista della vita, il classico della vita. Deve, dunque, giustificarsi di fronte alla vita con maggior rigore.
Come vede, invece di mandarle qualcosa per il centenario di Goethe, ho piuttosto bisogno di chiederlo io a lei. L´operazione cui sarebbe necessario sottoporre Goethe è troppo grave e profonda perché possa tentarla chi non è tedesco. Osi lei. La Germania ci deve un buon libro su Goethe. Finora, l'unico leggibile è quello di Simmel, sebbene, come tutti i testi di Simmel, sia insufficiente, poiché quello spirito acuto, sorta di scoiattolo filosofico, non si poneva problemi sull'argomento che sceglieva, ma lo assumeva come una piattaforma su cui eseguire i suoi meravigliosi esercizi di analisi. Questo è stato, d'altronde, il difetto sostanziale di tutti i libri tedeschi su Goethe: l'autore lavora su Goethe, ma non lo mette in discussione, non opera al di sotto di Goethe. Basta osservare la frequenza con la quale sono impiegate le parole «genio», «titano» e altre snervate, che usano ormai soltanto i tedeschi, per capire che tutto è ridotto a sterile bigotteria goethiana. Tenti di fare il contrario, caro amico. Faccia ciò che ci proponeva Schiller: trattare Goethe «come una zitella orgogliosa, a cui bisogna far fare un figlio per umiliarla al cospetto del mondo». Ci scriva un Goethe per naufraghi.
E non credo che Goethe avrebbe sollevato reclamo davanti a un tribunale di vitali urgenze. Probabilmente la scelta più goethiana è di farlo con Goethe. Si comportò forse diversamente col resto, con tutto il resto? Hic Rhodus, hic salta. Qui c´è la vita, qui tocca danzare. Chi vuole salvare Goethe, deve cercarlo in questa direzione.
Vita di un classico in una Europa che naufraga
lettera a un tedesco
Credevamo di essere gli eredi di un magnifico passato e di vivere di rendita
C'è oggi, nel 1932, qualche europeo che ha voglia di festeggiare gli anniversari?
Per la prima volta escono in Italia gli scritti del filosofo spagnolo sul grande poeta tedesco
di JOSÉ ORTEGA Y GASSET
Esce in questi giorni, nelle edizioni Medusa, il volume "Goethe. Un ritratto dall'interno", con quattro saggi di Ortega y Gasset, tutti inediti in Italia. Anticipiamo parte dell'intervento pubblicato su una rivista tedesca ("Die neue Rundschau") nel 1932, in occasione del centenario della morte di Goethe.
Lei mi chiede, caro amico, qualcosa su Goethe, in occasione del centenario, e io mi sono sforzato di rispondere ai suoi desideri. Da molti anni ormai non leggevo Goethe - perché? - e mi sono di nuovo calato nei corposi tomi delle sue opere complete. Presto, però, ho capito che la mia buona volontà avrebbe fallito, che non avrei potuto soddisfare la sua richiesta. Per molte ragioni. La prima: non mi sento in vena di centenari. Forse lei sì? C'è oggi qualche europeo che si trovi nello stato d'animo adatto per festeggiare centenari? Il 1932 ci preoccupa troppo per trovare spazio in qualche data a quel 1832. Questo non è, comunque, l'aspetto peggiore. Rendendosi così complessa la nostra vita nel 1932, il problema più grande consiste proprio nel suo rapporto con il passato. La gente non se ne rende ben conto, perché il presente e il futuro hanno sempre una drammaticità più spettacolare. Si dà il caso, però, che presente e futuro si siano ripresentati molte volte all'uomo in modi anche più difficili e aspri di oggi. Ciò che rende così insolitamente grave la nostra condizione attuale non affonda le proprie radici in queste due dimensioni del tempo quanto piuttosto nell´altra: se l'europeo fa un bilancio della propria situazione con perspicacia, si accorgerà che non dispera del presente né del futuro, ma precisamente del passato.
La vita è un'operazione verso il futuro. Si vive dall'avvenire, perché vivere consiste inesorabilmente in un fare, nel compiersi in sé di ogni esistenza. Chiamare «azione» questo «fare» significa imbellettare il lato tremendo della realtà. L'«azione» è solo l'inizio del «fare». È soltanto il momento in cui si decide ciò che si sta per fare. (...) Non basta l'azione - che è un mero decidersi -, ma è necessario fabbricare ciò che si è deciso, eseguirlo, ottenerlo. Quest'esigenza di effettiva realizzazione nel mondo, ben oltre la nostra mera soggettività e intenzione, è ciò che esprime il «fare». Questo ci obbliga a cercare mezzi per sopravvivere, per realizzare il futuro, e allora scopriamo il passato come arsenale di strumenti, di mezzi, di ricette, di norme. L'uomo che conserva la fede nel passato non teme il futuro, perché è sicuro di trovarvi la tattica, la via, il metodo per sostenersi nel problematico domani. Il futuro è l'orizzonte dei problemi; il passato la terraferma dei metodi, delle strade che crediamo di avere ben certe sotto i nostri piedi. Pensi, caro amico, alla terribile condizione dell'uomo per il quale, all'improvviso, il passato, le certezze, diventano instabili, un abisso. Prima, il pericolo pareva trovarsi soltanto di fronte a lui; ora è anche alle sue spalle e sotto i suoi piedi.
Non sta forse succedendo anche a noi qualcosa di simile? Credevamo di essere eredi di un magnifico passato e di poter vivere di rendita. Nel momento in cui il futuro ci incalza più fortemente rispetto alle ultime generazioni, ci voltiamo indietro cercando, come eravamo soliti, le armi tradizionali; ma impugnandole ci rendiamo conto che sono spade di canna, gesti insufficienti, attrezzo scenico che si rompe nell'impatto col bronzo del nostro futuro, dei nostri problemi. E improvvisamente ci sentiamo diseredati, senza tradizione, indigenti, come neonati senza predecessori. I romani chiamavano patrizi i figli di coloro che potevano fare testamento e lasciare un'eredità. Gli altri erano i proletari, discendenti ma non eredi. La nostra eredità consisteva nei metodi, ovvero nei classici. La crisi europea, tuttavia, che è la crisi del mondo, può essere vista come la crisi di ogni classicismo. Abbiamo l'impressione che le vie tradizionali non siano più utili per risolvere i nostri problemi. Sui classici si possono scrivere libri all'infinito. L'atteggiamento più semplice di fronte a un fatto è scriverci sopra un libro. Il più difficile è vivere di esso. Possiamo vivere oggi dei nostri classici? L'Europa di oggi non soffre di una strana proletarizzazione spirituale?
Il fallimento dell'università di fronte alle necessità attuali dell'uomo - il fatto gravissimo che in Europa l'università abbia cessato di essere un pouvoir spirituel - è soltanto una conseguenza di quella crisi, perché l'università è classicismo.
Non sono proprio questi i fatti che più contrastano con lo spirito dei centenari? Nelle feste dei centenari il ricco erede rimira compiaciuto il tesoro che i secoli hanno via via distillato. È triste e deprimente, invece, contare un tesoro di monete deprezzate. Questo serve soltanto a confermarci l'insufficienza del classico. Alla luce cruda, esigente, inesorabile, dell´attuale urgenza vitale, la figura del classico si scompone in mere frasi e smancerie. In questi ultimi mesi abbiamo celebrato i centenari di due giganti - sant'Agostino ed Hegel - e il risultato è stato deplorevole. Su nessuno dei due è stato possibile pubblicare una sola pagina proficua e incoraggiante.
La nostra disposizione è esattamente opposta a quella che potrebbe ispirarci atti di culto. Nel momento del pericolo la vita scrolla via tutto ciò che vi è di inessenziale - escrescenza, tessuto adiposo -, e cerca di spogliarsi, di ridursi al puro nervo, al puro muscolo. Qui sta la radice da cui può venire la salvezza dell'Europa, nella contrazione all'essenziale.
La vita è in sé stessa e sempre un naufragio. Naufragare non è affogare. Il poveretto, sentendo che s'immerge nell'abisso, agita le braccia per mantenersi a galla. Il movimento delle braccia col quale reagisce alla propria perdizione è la cultura - un moto natatorio. Quando la cultura non è che questo, realizza il suo significato e l'umano si eleva sul proprio abisso. Dieci secoli di continuità culturale producono, però, tra i tanti vantaggi, anche il grande inconveniente della sicurezza dell'uomo, la perdita di emozione del naufragio, e la cultura si gonfia di opere parassitarie e linfatiche. Deve, quindi, sopraggiungere una qualche discontinuità che rinnovi nell'uomo la sensazione dello smarrimento, vera sostanza della sua vita. Occorre che gli vengano meno tutti gli strumenti per galleggiare, che non trovi nulla a cui aggrapparsi. Allora le sue braccia si agiteranno di nuovo in modo salvifico.
La coscienza del naufragio, essendo la verità della vita, è già la salvezza. Per questo motivo io credo soltanto ai pensieri dei naufraghi. Di fronte a un tribunale di naufraghi è necessario citare i classici perché vengano date risposte alle domande perentorie che riguardano la vita autentica.
Che figura farebbe Goethe di fronte a questo tribunale? Si potrebbe sospettare che egli sia il più discutibile fra tutti i classici, perché è il classico alla seconda potenza, il classico che a sua volta si era nutrito dei classici, il prototipo dell'erede spirituale, cosa di cui egli stesso era chiaramente consapevole; in definitiva, rappresenta il patrizio tra i classici. Quest'uomo ha fatto assegnamento sulle rendite di tutto il passato. La sua creazione somiglia non poco a una mera amministrazione delle ricchezze ricevute e, per questo, nella sua opera come nella sua vita, non manca mai il lato filisteo che cela sempre un amministratore. Inoltre, se tutti i classici sono tali, in definitiva, per la vita, Goethe pretende essere l´artista della vita, il classico della vita. Deve, dunque, giustificarsi di fronte alla vita con maggior rigore.
Come vede, invece di mandarle qualcosa per il centenario di Goethe, ho piuttosto bisogno di chiederlo io a lei. L´operazione cui sarebbe necessario sottoporre Goethe è troppo grave e profonda perché possa tentarla chi non è tedesco. Osi lei. La Germania ci deve un buon libro su Goethe. Finora, l'unico leggibile è quello di Simmel, sebbene, come tutti i testi di Simmel, sia insufficiente, poiché quello spirito acuto, sorta di scoiattolo filosofico, non si poneva problemi sull'argomento che sceglieva, ma lo assumeva come una piattaforma su cui eseguire i suoi meravigliosi esercizi di analisi. Questo è stato, d'altronde, il difetto sostanziale di tutti i libri tedeschi su Goethe: l'autore lavora su Goethe, ma non lo mette in discussione, non opera al di sotto di Goethe. Basta osservare la frequenza con la quale sono impiegate le parole «genio», «titano» e altre snervate, che usano ormai soltanto i tedeschi, per capire che tutto è ridotto a sterile bigotteria goethiana. Tenti di fare il contrario, caro amico. Faccia ciò che ci proponeva Schiller: trattare Goethe «come una zitella orgogliosa, a cui bisogna far fare un figlio per umiliarla al cospetto del mondo». Ci scriva un Goethe per naufraghi.
E non credo che Goethe avrebbe sollevato reclamo davanti a un tribunale di vitali urgenze. Probabilmente la scelta più goethiana è di farlo con Goethe. Si comportò forse diversamente col resto, con tutto il resto? Hic Rhodus, hic salta. Qui c´è la vita, qui tocca danzare. Chi vuole salvare Goethe, deve cercarlo in questa direzione.
Dino Campana (1885-1932),
la prima celebre vittima dell'elettroshock
Corriere della Sera 26.11.03
Ripubblicati i «Canti Orfici» del geniale autore segnato dalla pazzia. Ma ancora una volta il suo ritratto umano non è attendibile
Campana, la chimera del poeta maledetto
di Sebastiano Vassalli
La ristampa, a cura di Renato Martinoni, dei "Canti Orfici" di Campana nei «tascabili» Einaudi, rappresenta un passo avanti per quanto riguarda la sistemazione dei contributi critici, nell’«Introduzione», nelle «Note ai testi» e nelle puntuali «Appendici». È invece un’occasione mancata, se si voleva restituire Campana alla sua storia di uomo e di scrittore. Quella storia, da quasi un secolo dà fastidio a tutti: ai familiari, ai concittadini, ai medici, alla società letteraria; e si è cercato di seppellirla sotto un cumulo di leggende, che fino al 1985 si appoggiavano all’autorità dello psichiatra Carlo Pariani, autore di una biografia dal titolo perentorio: "Vita non romanzata di Dino Campana scrittore". Carlo Pariani non era, come molti credono, il medico curante di Campana. Era un tale che andava a trovarlo in manicomio per una sua ricerca su genio e follia. Dino gli confidava di essere elettrico («Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison... sono elettrico») e, tra un delirio e l’altro, gli raccontava ogni genere di balle. Gli diceva di essere stato cinque anni in Argentina; di essere andato a Odessa; di aver patito la prigione a Parma, a Bruxelles, a Basilea, eccetera.
Il 1985 avrebbe dovuto essere un anno di svolta per gli studi campaniani. In seguito alla pubblicazione (nel 1984) del mio romanzo-verità "La notte della cometa", dal municipio di Marradi incominciarono a venir fuori carte e carte (prima non c’era nulla) che avrebbero dovuto smentirmi e che invece confermavano quasi tutto della mia ricostruzione «romanzata». Campana, ovunque andasse, si lasciava dietro una scia di fogli di via, verbali di polizia e cose del genere, con date e timbri. Quelle date e quei timbri mandavano definitivamente all’aria la biografia del Pariani e avrebbero dovuto sgombrare il campo da molte leggende. Invece sono servite a costruire altre leggende, come quella riferita da Martinoni a proposito del servizio militare del poeta: «Dal gennaio ai primi di agosto del 1904, e qui torniamo alle notizie accertate, Campana è a Ravenna, dove presta servizio militare in qualità di soldato».
Notizie accertate un corno. Io non so su cosa Martinoni basi la sua affermazione, ma so che le cose stanno diversamente e che riguardano un periodo importante, di un paio d’anni, della vita di Campana. Le principali questioni non ancora risolte nella biografia del poeta sono appunto queste.
IL SERVIZIO MILITARE - Il Registro della leva e le altre carte dell’Esercito, che non si trovano a Marradi ma all’Archivio di Stato di Firenze, a proposito del servizio militare sono chiarissime: Campana è «volontario» ed è «allievo ufficiale». Sembra una sciocchezza, ma le scuole per ufficiali (non «sottoufficiali»: proprio «ufficiali») in Italia e in quell’epoca erano tre: quella di Cavalleria a Pinerolo, quella di Fanteria a Modena e quella della Marina a Livorno. I corsi di Modena duravano due anni e prevedevano quattro esami: caporale, sergente, sottotenente e tenente. Campana (è scritto nei documenti) passa l’esame di caporale e non passa quello di sergente. Espulso dall’Accademia, finisce il periodo di ferma da qualche altra parte. Dove?
LA SIFILIDE - Questo è il punto che suscita più malumori. Premesso che la prova provata della sifilide di Campana non potrà mai esserci, così come non potrà mai esserci per Nietzsche o per altri personaggi illustri morti di quel male, alcune osservazioni si impongono. La prima è che i comportamenti di Campana erano a rischio. Chi navigava nel mare delle «troie dagli occhi ferrigni» e delle prostitute del porto di Genova, prima o poi pescava quei pesci, cioè quelle malattie. La seconda osservazione è che tutto il decorso della malattia di Campana, dalla paresi facciale del 1915, alla distruzione del sistema nervoso con conseguente follia, alla morte in manicomio nel 1932 è quello, da manuale, di una sifilide nervosa: perché ostinarsi a negarlo? Cosa c’è da difendere: la famiglia? La categoria degli psichiatri? L’albo professionale dei poeti? Anche il lungo decorso della malattia non costituisce un’obiezione valida. Campana era giovane e forte (Soffici ne descrive le «gambe ercoline» e il «viso di salute»); e la sifilide può durare anche venticinque anni.
L’AMORE PER SIBILLA ALERAMO - Nell’Italia senza più uomini della Prima guerra mondiale, la poetessa Aleramo incontra un maschio giovane e forte, e lo fa suo. È l’estate del 1916. Ma dopo poche settimane di passione sfrenata si scopre che, se quel maschio non è al fronte, c’è una ragione. Incominciano le scenate e le botte. Nel gennaio 1917, Sibilla accompagna Dino dallo psichiatra Eugenio Tanzi, un luminare per quell’epoca; e la loro relazione finisce lì. Lei scappa, si nasconde, trascorre mesi e mesi «in stato di santità» («un record»), gli scrive «cane arrabbiato che mi hai morso...». A quanto pare, deve curarsi. Lui alterna periodi di lucidità ad altri di follia. Un giorno (nel settembre 1917) riceve una lettera su carta intestata di un albergo in Valsesia; parte per raggiungere la sua bella, ma lei non è più lì e lui viene arrestato come disertore...
L’ELETTRICITÀ - In manicomio, per molti anni, Campana viene fritto con l’elettricità. «Attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettrica. Credevo che mi avessero rotto una vena nel cervello!». L’uso e l’abuso dell’elettricità con i matti è iniziato nella Prima guerra mondiale, in tutta Europa, per tenere gli uomini nelle trincee e non ha ancora finalità terapeutiche accertate. Negli anni Venti è un uso sperimentale e punitivo, che sostituisce catene e botte. Gli apparecchi con cui si danno le scosse sono descritti e riprodotti nella vecchia Enciclopedia Treccani: rocchetti a corrente alternata, pennelli faradici e simili. Qualcuno di quegli strumenti è ancora visibile nei musei, là dove si sono volute conservare le attrezzature dei vecchi istituti manicomiali; ma già alla fine degli anni Trenta non venivano più usati.
Vorrei concludere questo articolo con una considerazione personale. Non credo che scriverò più su Dino Campana. Nel corso degli anni, ho fatto tutto ciò che poteva essere fatto per restituire quell’uomo alla sua verità. Non ci sono riuscito, e quest’ultima ristampa dei "Canti Orfici" ne è la prova. Consegno la memoria di Dino ai film melensi, alle biografie deliranti o troppo circospette, ai «chissà!» e alla strizzatine d’occhi, ai premi letterari a lui intitolati e alla compagnia di villeggianti che ogni estate si riunisce a Marradi per assegnarli. Hanno vinto loro. Addio, Dino
Ripubblicati i «Canti Orfici» del geniale autore segnato dalla pazzia. Ma ancora una volta il suo ritratto umano non è attendibile
Campana, la chimera del poeta maledetto
di Sebastiano Vassalli
La ristampa, a cura di Renato Martinoni, dei "Canti Orfici" di Campana nei «tascabili» Einaudi, rappresenta un passo avanti per quanto riguarda la sistemazione dei contributi critici, nell’«Introduzione», nelle «Note ai testi» e nelle puntuali «Appendici». È invece un’occasione mancata, se si voleva restituire Campana alla sua storia di uomo e di scrittore. Quella storia, da quasi un secolo dà fastidio a tutti: ai familiari, ai concittadini, ai medici, alla società letteraria; e si è cercato di seppellirla sotto un cumulo di leggende, che fino al 1985 si appoggiavano all’autorità dello psichiatra Carlo Pariani, autore di una biografia dal titolo perentorio: "Vita non romanzata di Dino Campana scrittore". Carlo Pariani non era, come molti credono, il medico curante di Campana. Era un tale che andava a trovarlo in manicomio per una sua ricerca su genio e follia. Dino gli confidava di essere elettrico («Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison... sono elettrico») e, tra un delirio e l’altro, gli raccontava ogni genere di balle. Gli diceva di essere stato cinque anni in Argentina; di essere andato a Odessa; di aver patito la prigione a Parma, a Bruxelles, a Basilea, eccetera.
Il 1985 avrebbe dovuto essere un anno di svolta per gli studi campaniani. In seguito alla pubblicazione (nel 1984) del mio romanzo-verità "La notte della cometa", dal municipio di Marradi incominciarono a venir fuori carte e carte (prima non c’era nulla) che avrebbero dovuto smentirmi e che invece confermavano quasi tutto della mia ricostruzione «romanzata». Campana, ovunque andasse, si lasciava dietro una scia di fogli di via, verbali di polizia e cose del genere, con date e timbri. Quelle date e quei timbri mandavano definitivamente all’aria la biografia del Pariani e avrebbero dovuto sgombrare il campo da molte leggende. Invece sono servite a costruire altre leggende, come quella riferita da Martinoni a proposito del servizio militare del poeta: «Dal gennaio ai primi di agosto del 1904, e qui torniamo alle notizie accertate, Campana è a Ravenna, dove presta servizio militare in qualità di soldato».
Notizie accertate un corno. Io non so su cosa Martinoni basi la sua affermazione, ma so che le cose stanno diversamente e che riguardano un periodo importante, di un paio d’anni, della vita di Campana. Le principali questioni non ancora risolte nella biografia del poeta sono appunto queste.
IL SERVIZIO MILITARE - Il Registro della leva e le altre carte dell’Esercito, che non si trovano a Marradi ma all’Archivio di Stato di Firenze, a proposito del servizio militare sono chiarissime: Campana è «volontario» ed è «allievo ufficiale». Sembra una sciocchezza, ma le scuole per ufficiali (non «sottoufficiali»: proprio «ufficiali») in Italia e in quell’epoca erano tre: quella di Cavalleria a Pinerolo, quella di Fanteria a Modena e quella della Marina a Livorno. I corsi di Modena duravano due anni e prevedevano quattro esami: caporale, sergente, sottotenente e tenente. Campana (è scritto nei documenti) passa l’esame di caporale e non passa quello di sergente. Espulso dall’Accademia, finisce il periodo di ferma da qualche altra parte. Dove?
LA SIFILIDE - Questo è il punto che suscita più malumori. Premesso che la prova provata della sifilide di Campana non potrà mai esserci, così come non potrà mai esserci per Nietzsche o per altri personaggi illustri morti di quel male, alcune osservazioni si impongono. La prima è che i comportamenti di Campana erano a rischio. Chi navigava nel mare delle «troie dagli occhi ferrigni» e delle prostitute del porto di Genova, prima o poi pescava quei pesci, cioè quelle malattie. La seconda osservazione è che tutto il decorso della malattia di Campana, dalla paresi facciale del 1915, alla distruzione del sistema nervoso con conseguente follia, alla morte in manicomio nel 1932 è quello, da manuale, di una sifilide nervosa: perché ostinarsi a negarlo? Cosa c’è da difendere: la famiglia? La categoria degli psichiatri? L’albo professionale dei poeti? Anche il lungo decorso della malattia non costituisce un’obiezione valida. Campana era giovane e forte (Soffici ne descrive le «gambe ercoline» e il «viso di salute»); e la sifilide può durare anche venticinque anni.
L’AMORE PER SIBILLA ALERAMO - Nell’Italia senza più uomini della Prima guerra mondiale, la poetessa Aleramo incontra un maschio giovane e forte, e lo fa suo. È l’estate del 1916. Ma dopo poche settimane di passione sfrenata si scopre che, se quel maschio non è al fronte, c’è una ragione. Incominciano le scenate e le botte. Nel gennaio 1917, Sibilla accompagna Dino dallo psichiatra Eugenio Tanzi, un luminare per quell’epoca; e la loro relazione finisce lì. Lei scappa, si nasconde, trascorre mesi e mesi «in stato di santità» («un record»), gli scrive «cane arrabbiato che mi hai morso...». A quanto pare, deve curarsi. Lui alterna periodi di lucidità ad altri di follia. Un giorno (nel settembre 1917) riceve una lettera su carta intestata di un albergo in Valsesia; parte per raggiungere la sua bella, ma lei non è più lì e lui viene arrestato come disertore...
L’ELETTRICITÀ - In manicomio, per molti anni, Campana viene fritto con l’elettricità. «Attrassi l’attenzione della polizia marconiana e mi ruppe la testa. Mi investì con una forte scarica elettrica. Credevo che mi avessero rotto una vena nel cervello!». L’uso e l’abuso dell’elettricità con i matti è iniziato nella Prima guerra mondiale, in tutta Europa, per tenere gli uomini nelle trincee e non ha ancora finalità terapeutiche accertate. Negli anni Venti è un uso sperimentale e punitivo, che sostituisce catene e botte. Gli apparecchi con cui si danno le scosse sono descritti e riprodotti nella vecchia Enciclopedia Treccani: rocchetti a corrente alternata, pennelli faradici e simili. Qualcuno di quegli strumenti è ancora visibile nei musei, là dove si sono volute conservare le attrezzature dei vecchi istituti manicomiali; ma già alla fine degli anni Trenta non venivano più usati.
Vorrei concludere questo articolo con una considerazione personale. Non credo che scriverò più su Dino Campana. Nel corso degli anni, ho fatto tutto ciò che poteva essere fatto per restituire quell’uomo alla sua verità. Non ci sono riuscito, e quest’ultima ristampa dei "Canti Orfici" ne è la prova. Consegno la memoria di Dino ai film melensi, alle biografie deliranti o troppo circospette, ai «chissà!» e alla strizzatine d’occhi, ai premi letterari a lui intitolati e alla compagnia di villeggianti che ogni estate si riunisce a Marradi per assegnarli. Hanno vinto loro. Addio, Dino
martedì 25 novembre 2003
L'appello della Federazione nazionale dei medici
sul concordato preventivo
clorofilla.it 25.11.03
La Federazione nazionale dei medici si appella al ministro delle Finanze affinché modifichi con emendamento governativo il testo del Concordato che potrebbe risolvere il conflitto tra il rispetto della normativa fiscale con quello della deontologia professionale nei casi in cui le prestazioni siano “sensibili dal punto di vista della privacy”
I medici chiedono il ripristino di quella disposizione che avrebbe potutto porre rimedio al conflitto tra il rispetto delle leggi fiscali e quello della deontologia professionale, in particolare di quella medica. Appello della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri ai ministri della Salute e delle Finanze, Sirchia e Tremonti per tutelare il delicato rapporto che intercorre tra medico e paziente, permettendo allo specialista, purché ovviamente concordatario, di prestare le cure a chi ne fa richiesta salvaguardando così anche la primaria esigenza deontologica di rispetto dell’anonimato del malato
La Federazione nazionale dei medici si appella al ministro delle Finanze affinché modifichi con emendamento governativo il testo del Concordato che potrebbe risolvere il conflitto tra il rispetto della normativa fiscale con quello della deontologia professionale nei casi in cui le prestazioni siano “sensibili dal punto di vista della privacy”
I medici chiedono il ripristino di quella disposizione che avrebbe potutto porre rimedio al conflitto tra il rispetto delle leggi fiscali e quello della deontologia professionale, in particolare di quella medica. Appello della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri ai ministri della Salute e delle Finanze, Sirchia e Tremonti per tutelare il delicato rapporto che intercorre tra medico e paziente, permettendo allo specialista, purché ovviamente concordatario, di prestare le cure a chi ne fa richiesta salvaguardando così anche la primaria esigenza deontologica di rispetto dell’anonimato del malato
l'articolo di Achille Bonito Oliva su Paul Klee,
citato al lunedì
La Repubblica, lunedì 24.11.03
I nazisti contro klee
Un'esposizione a Francoforte
portare lo sguardo fuori dalle apparenze
L'arte non duplica ma rende visibile
Raccolti dipinti e disegni del 1933. Dopo un'irruzione nel suo studio, l'artista fu allontanato dalla Germania e costretto a tornare in Svizzera
di ACHILLE BONITO OLIVA
(molte immagini delle opere di Paul Klee possono essere viste QUI)
Funzionari del partito nazista fanno irruzione nello studio di Paul Klee a Dessau. Questi, alcuni mesi dopo, allontanato anche dall'Accademia di belle arti di Dusseldorf, torna a Berna. Tutto nel 1933, il primo anno dell'era nazista. Di questo annus horribilis, in cui Klee produce 245 disegni ed una serie di dipinti, rende conto una mostra itinerante: cento disegni e un gruppo di quadri (da Berna a Monaco, ora alla Schiran Kunsthalle di Francoforte e, dopo, ad Amburgo). Testimone del risentimento iconografico contro la demagogia militaristica, la retorica nazionalista e l'orgoglio teutonico.
La sopraffazione attiva del linguaggio di un'"arte degenerata" che, nello stordimento del procedimento creativo e l'abbassamento automatico delle tecniche compositive mantiene memoria del momento storico. L'arte si fa storia dell'istante. La pronta censura del regime si piega. Gli heideggeriani erratici percorsi di Klee prendono di contropiede l'immaginario collettivo dei funzionari di partito: un paradosso visivo che parte dalla terra e vi resta ancorato attraverso un linguaggio fertile e autoreferenziale: terra spirituale. Allo statico naturalismo di ritorno l'artista contrappone la natura dinamica dell'arte capace, tra astrazione e figurazione, di rendere invisibile anche il visibile e viceversa.
Progetto e casualità creativa si intrecciano simultaneamente nell´opera pittorica e grafica di Klee, portato a bilanciare con la complessità dell'arte l'insufficienza di una realtà schematica e riduttiva. L'arte procura stordimento e nello stesso tempo conoscenza, una perdita di senso e anche un suo accrescimento, tramite il disorientamento di una pratica che, per definizione, tende a ribaltare la comunicazione sociale, posta normalmente sotto il segno dello scambio unilaterale ed economico.
Una diversa economia regge il sistema dell´immagine di Klee alimentata da una strutturale ambiguità che aggira la superbia logocentrica del linguaggio comune, per approdare nel luogo di intrecciate relazioni, in cui i segni si dispongono lungo accordi e fughe istantanei. Se incontrollabile è l'impulso che sale lungo la schiena dell'artista, controllabile è invece la perizia manuale necessaria a rendere lampante ed esplicita la forza dell'immagine.
Il linguaggio è una riserva da cui attingere a piene mani, senza altre riserve se non quelle che internamente il linguaggio stesso preserva e protegge. Non è possibile lottare contro di esse, anzi l'artista organizza un progettato abbandono che nasce da una disciplina interiore, capace, come dichiara egli stesso, di duplicare il mondo perché «l'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile». KIee si abbandona ai flussi dell'immaginario in una posizione obliqua di fronte al linguaggio, di perdita cosciente, adatta ad accogliere lo spostamento nomade dei suoi segni. Klee conosce molto bene la natura del linguaggio e non ha mai tentato di domarla, semmai di assecondarla secondo procedimenti che implicano l'idea di progetto e di scelta. Il risultato invece viene lasciato ai suoi esiti liberi, fuori da qualsiasi attesa o preveggenza. Non è infatti l'artista ad essere preveggente, ma il linguaggio che cova dentro di sé immagini e risultati inusitati. Se l'inconscio e il caso sono valori che arricchiscono l'opera e le restituiscono quel carattere di complessità necessaria per racchiudere il senso della realtà, allora egli ha sviluppato una strategia adatta a comprendere dentro il manufatto artistico le istanze incontrollate espresse da quei due valori, attraverso l'assunzione di una disciplina interiore, vicina alla filosofica capacità di introspezione della cultura orientale.
Una costante dell'opera di Klee è la pratica superficialista del linguaggio. Lo spazio non possiede o descrive profondità alcuna, si dà come supporto bidimensionale che non conosce sprofondamenti o inabissamenti. Questi semmai sono il portato di una condizione psicologica e fantastica che precede il lavoro dell'arte, movimenti che assecondano la messa in opera dell'immagine.
Anche il colore entra nel gioco della composizione a incrementare l'intensità di un'opera che nasce anche da una consapevolezza culturale. Klee sa che il linguaggio possiede una sua biologia interna, una sedimentazione di orientamento che permette disposizioni molteplici. Una intensa energia interna sì irradia dall'opera, costruita secondo reticoli filiformi che ne dispongono la potenzialità lungo rotte aperte a molti incroci e collisioni.
Klee è assolutamente cosciente della natura specifica del linguaggio visivo, dei suoi elementi costitutivi che non possono fingere una diversa identità. Semmai il carattere del linguaggio visivo permette di formulare alcune consonanze esistenziali, quali per esempio la capacità di osservazione dell'artista e il suo contemporaneo senso di distacco e non attaccamento alle cose. Così la irriducibile mancanza di profondità del linguaggio visivo, la sua natura superficialista portata all'evidenziamento, è in consonanza con il tipo di rapporto che l'artista ha con le cose, con la sua mancanza di preferenza verso un oggetto più che verso un altro.
La riduzione grafica degli elementi visivi è il segno ulteriore di una scarnificazione dello stato sensibile dell'artista, della sua capacità di portare il suo sguardo fuori dalla fascinazione della materia, fuori dal facile erotismo delle apparenze. Un minuzioso senso di osservazione, da entomologo, assiste il rapporto di contemplazione di Klee con il mondo, fatto di rallentamento analitico e minuzioso e anche di accelerazione sentimentale e palpitante.
L'Annunciazione del Segno avviene dunque silenziosamente e progressivamente, come svelamento lento governato dalla adesione dell'artista al proprio immaginario: egli si abbandona con un movimento ancorato alla perizia paziente della mano e della mente alla automazione psichica, alla pratica creativa dell'immagine. Le trame del profondo trovano una adesione nella trama del linguaggio visivo e l'approdo a un Segno: il lampo dell'Angelus Novus che attraversa il cielo, condensante lo Spazio e il Tempo, per annunciare il labirinto dell'arte, dove la vita e la morte si intrecciano nel movimento della forma.
I nazisti contro klee
Un'esposizione a Francoforte
portare lo sguardo fuori dalle apparenze
L'arte non duplica ma rende visibile
Raccolti dipinti e disegni del 1933. Dopo un'irruzione nel suo studio, l'artista fu allontanato dalla Germania e costretto a tornare in Svizzera
di ACHILLE BONITO OLIVA
(molte immagini delle opere di Paul Klee possono essere viste QUI)
Funzionari del partito nazista fanno irruzione nello studio di Paul Klee a Dessau. Questi, alcuni mesi dopo, allontanato anche dall'Accademia di belle arti di Dusseldorf, torna a Berna. Tutto nel 1933, il primo anno dell'era nazista. Di questo annus horribilis, in cui Klee produce 245 disegni ed una serie di dipinti, rende conto una mostra itinerante: cento disegni e un gruppo di quadri (da Berna a Monaco, ora alla Schiran Kunsthalle di Francoforte e, dopo, ad Amburgo). Testimone del risentimento iconografico contro la demagogia militaristica, la retorica nazionalista e l'orgoglio teutonico.
La sopraffazione attiva del linguaggio di un'"arte degenerata" che, nello stordimento del procedimento creativo e l'abbassamento automatico delle tecniche compositive mantiene memoria del momento storico. L'arte si fa storia dell'istante. La pronta censura del regime si piega. Gli heideggeriani erratici percorsi di Klee prendono di contropiede l'immaginario collettivo dei funzionari di partito: un paradosso visivo che parte dalla terra e vi resta ancorato attraverso un linguaggio fertile e autoreferenziale: terra spirituale. Allo statico naturalismo di ritorno l'artista contrappone la natura dinamica dell'arte capace, tra astrazione e figurazione, di rendere invisibile anche il visibile e viceversa.
Progetto e casualità creativa si intrecciano simultaneamente nell´opera pittorica e grafica di Klee, portato a bilanciare con la complessità dell'arte l'insufficienza di una realtà schematica e riduttiva. L'arte procura stordimento e nello stesso tempo conoscenza, una perdita di senso e anche un suo accrescimento, tramite il disorientamento di una pratica che, per definizione, tende a ribaltare la comunicazione sociale, posta normalmente sotto il segno dello scambio unilaterale ed economico.
Una diversa economia regge il sistema dell´immagine di Klee alimentata da una strutturale ambiguità che aggira la superbia logocentrica del linguaggio comune, per approdare nel luogo di intrecciate relazioni, in cui i segni si dispongono lungo accordi e fughe istantanei. Se incontrollabile è l'impulso che sale lungo la schiena dell'artista, controllabile è invece la perizia manuale necessaria a rendere lampante ed esplicita la forza dell'immagine.
Il linguaggio è una riserva da cui attingere a piene mani, senza altre riserve se non quelle che internamente il linguaggio stesso preserva e protegge. Non è possibile lottare contro di esse, anzi l'artista organizza un progettato abbandono che nasce da una disciplina interiore, capace, come dichiara egli stesso, di duplicare il mondo perché «l'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile». KIee si abbandona ai flussi dell'immaginario in una posizione obliqua di fronte al linguaggio, di perdita cosciente, adatta ad accogliere lo spostamento nomade dei suoi segni. Klee conosce molto bene la natura del linguaggio e non ha mai tentato di domarla, semmai di assecondarla secondo procedimenti che implicano l'idea di progetto e di scelta. Il risultato invece viene lasciato ai suoi esiti liberi, fuori da qualsiasi attesa o preveggenza. Non è infatti l'artista ad essere preveggente, ma il linguaggio che cova dentro di sé immagini e risultati inusitati. Se l'inconscio e il caso sono valori che arricchiscono l'opera e le restituiscono quel carattere di complessità necessaria per racchiudere il senso della realtà, allora egli ha sviluppato una strategia adatta a comprendere dentro il manufatto artistico le istanze incontrollate espresse da quei due valori, attraverso l'assunzione di una disciplina interiore, vicina alla filosofica capacità di introspezione della cultura orientale.
Una costante dell'opera di Klee è la pratica superficialista del linguaggio. Lo spazio non possiede o descrive profondità alcuna, si dà come supporto bidimensionale che non conosce sprofondamenti o inabissamenti. Questi semmai sono il portato di una condizione psicologica e fantastica che precede il lavoro dell'arte, movimenti che assecondano la messa in opera dell'immagine.
Anche il colore entra nel gioco della composizione a incrementare l'intensità di un'opera che nasce anche da una consapevolezza culturale. Klee sa che il linguaggio possiede una sua biologia interna, una sedimentazione di orientamento che permette disposizioni molteplici. Una intensa energia interna sì irradia dall'opera, costruita secondo reticoli filiformi che ne dispongono la potenzialità lungo rotte aperte a molti incroci e collisioni.
Klee è assolutamente cosciente della natura specifica del linguaggio visivo, dei suoi elementi costitutivi che non possono fingere una diversa identità. Semmai il carattere del linguaggio visivo permette di formulare alcune consonanze esistenziali, quali per esempio la capacità di osservazione dell'artista e il suo contemporaneo senso di distacco e non attaccamento alle cose. Così la irriducibile mancanza di profondità del linguaggio visivo, la sua natura superficialista portata all'evidenziamento, è in consonanza con il tipo di rapporto che l'artista ha con le cose, con la sua mancanza di preferenza verso un oggetto più che verso un altro.
La riduzione grafica degli elementi visivi è il segno ulteriore di una scarnificazione dello stato sensibile dell'artista, della sua capacità di portare il suo sguardo fuori dalla fascinazione della materia, fuori dal facile erotismo delle apparenze. Un minuzioso senso di osservazione, da entomologo, assiste il rapporto di contemplazione di Klee con il mondo, fatto di rallentamento analitico e minuzioso e anche di accelerazione sentimentale e palpitante.
L'Annunciazione del Segno avviene dunque silenziosamente e progressivamente, come svelamento lento governato dalla adesione dell'artista al proprio immaginario: egli si abbandona con un movimento ancorato alla perizia paziente della mano e della mente alla automazione psichica, alla pratica creativa dell'immagine. Le trame del profondo trovano una adesione nella trama del linguaggio visivo e l'approdo a un Segno: il lampo dell'Angelus Novus che attraversa il cielo, condensante lo Spazio e il Tempo, per annunciare il labirinto dell'arte, dove la vita e la morte si intrecciano nel movimento della forma.
l'articolo di Repubblica su Niccolò Ammaniti,
citato al lunedì
La Repubblica domenica 23.11.03
Lo scrittore bambino che gioca col bestseller
cinquecentomila copie per "Io non ho paura"
L'odissea contemporanea inventata con Yehoshua
Il romanzo tradotto in ventinove paesi
Il successo rassicura ma può farti male: il tuo mestiere è osservare gli altri, non stare al centro della pista
Ho cominciato a comporre delle storie perché mi sentivo un fallito. Così la scrittura mi ha salvato
di SIMONETTA FIORI
Venezia. Lo scrittore da cinquecentomila copie, che nel mondo viene letto anche in cinese e in russo, passeggia sbilenco lungo il molo di Fondamenta Nove, cappotto di fustagno verde-biliardo e berretto calcato in testa in stile Shining. Da un mese Niccolò Ammaniti vive in un palazzetto veneziano dal fascino un po´ cupo, grandi specchi bruniti a coprire le alte porte ora murate, che aprono a chissà quali mondi misteriosi. «Qui lavoro bene, lontano dalle seduzioni di Roma. Ho bisogno di prendere le distanze dai luoghi e dalle persone che conosco. Mi sveglio presto, guardo un film, gioco con la playstation, leggo. Poi mi metto a scrivere fino al pomeriggio, in un dialogo continuo con i personaggi delle mie storie. Se non fosse per questo sottofondo molesto…». Si alza e dalla finestra indica una scuola elementare dietro il campiello. «Sai, i bambini…». Ma come, proprio lui, il cantore dell´infanzia, l'inventore di fantastici mondi di ragazzini sospesi tra stupore e orrore, l'autore del fortunato "Io non ho paura" (Einaudi Stile Libero), che con le avventure del piccolo Michele Amitrano-Tom Sawyer ha smosso i lettori di ventinove paesi, dalla Finlandia al Brasile, dall´America al Giappone, dalla Turchia a Israele, dalla Thailandia all'Australia, proprio lui detesta le creature che così bene sa raccontare? «In realtà io i bambini li odio», confessa con divertimento. «Se li scelgo come protagonisti delle mie trame è perché attraverso i loro occhi si può scoprire il mondo. E grazie alle loro fantasie si può reinventarlo. È un tema antichissimo, nel romanzo. Mark Twain e Dickens, ed anche Stephen King, l'hanno sperimentato prima di me».
Dei bambini sa penetrare paure, disillusioni, rituali feroci, ma anche l'epica dell'amicizia con le sue regole d'onore, perché lui bambino lo è stato a lungo. E forse, a trentasette anni, un po' lo è ancora. «Per me quella stagione straordinaria, nutrita di invenzioni oniriche, mostri, fantasie macabre, è durata per molto tempo, forse più del dovuto». Una quieta infanzia borghese, in una bella casa del quartiere Trieste, con il papà Massimo celebre psicoanalista e la mamma Fausta architetto, e però popolata di creature notturne e terrifiche, zoombi, giochi sepolcrali, l'ossessione del buio e dell'ultimo respiro, l'idea di dissoluzione così bene incarnata dal "Principe Infelice", il racconto di Oscar Wilde scelto come livre de chevet. «A Carnevale mi piaceva travestirmi da morto. E la sera, nell'ombra che avvolgeva la camera da letto, mi sentivo assalire dai mostri, contro cui avevo la mia arma segreta: immaginavo di imprigionarli nella pancia perché non raggiungessero la testa». Gli stessi esorcismi praticati dal giovane protagonista di Io non ho paura. «Scrivendo si ricordano le cose dell'infanzia. Di quel mio incubo ricorrente non avevo mai parlato con nessuno finché non l'ho riversato nella scrittura. Paure diffuse, che fanno parte del Dna dell'infanzia. Chi non ha mai scambiato il vestito gettato sulla sedia, rischiarato da un raggio di luna, con il profilo arcigno d´una strega? È da quel materiale fantastico che nascono le mie storie, come l'ossessione di Lazzaro che si risveglia e azzanna Gesù sul collo ingiungendogli "lascia stare i morti". Forse il mio libro è piaciuto anche per questo: dei bambini provo a raccontare tremori universali, non molti dissimili dalle fantasie popolari raccolte esemplarmente da Calvino nelle Fiabe».
Tra le sue paure, più personali, c'era quella di non capire bene quale mestiere facesse il padre neuropsichiatra infantile. «Riceveva a casa tanti bambini, che però io e mia sorella Luisa avevamo il divieto di incontrare. Così, una volta, ci nascondemmo dietro una poltrona. E lo vedemmo con alcuni giochi colorati in mano, davanti ai suoi piccoli pazienti assorti. Ne fummo sconvolti: papà faceva il baby-sitter! E non aveva il coraggio di dircelo…». Risolto l'equivoco, la vita non fu più facile. «Dal genitore psicoanalista ti aspetti molto più che da un padre normale. Pensi di essere capito in modo speciale. E invece il mio era un papà come tutti gli altri, amorevolissimo e dunque pieno di paure, di ansie, di attese che temevo di deludere». Dal confronto è difficile scampare: se il padre Massimo studia il cervello dal punto di vista psicoanalitico, il figlio Niccolò si butta sulla neurofisiologia, l'altra faccia della luna. «Ma a quattro esami dalla laurea in Scienze Biologiche ho lasciato: volevo capire le dinamiche cerebrali e sono franato sulla microcellula del cervello d'un topo. Avevo bisogno d'universale, ed ero prigioniero d'un particolare. Mi sentivo un po' fallito, uno zoologo mancato, capivo che non era quella la mia strada, ma non avevo la forza per trovarne un'altra. Mi rifugiavo negli acquari. Una trentina di vasche per casa, microcosmi acquatici che mi divertivo a comporre e scomporre, come nel gioco combinatorio che è poi l'invenzione narrativa. Mio padre mi lasciava fare, eppure io ero a disagio. Avevo ventitré anni, ci si aspettava qualcos'altro da me. Dovevo uscire dall'infanzia, abbandonarne i rituali ludici e gli incanti». Una sofferenza profonda, che è poi quella dell'adolescenza, «il dolore della crescita, l'addio all'innocenza e al gioco: da lì nasceva il mio malessere». La scrittura come salvezza. «È il solo mestiere che ti permetta di continuare a giocare. Ma anche di stare a casa, di annoiarti e di fantasticare. In fondo continuo a fare oggi quel che facevo da bambino, quando d'una trama reinventavo innumerevoli finali, sempre attratto da storie di solitudine e incomprensione».
Il suo è stato definito un talento narrativo puro, capace di costruire macchine fabulatorie perfette. «The new italian word for talent is Ammaniti», ha titolato tempo fa il Times con un'espressione che ora lo "scrittore bambino" liquida saggiamente come "enfatica ed esagerata". Lo lusinga più l'accostamento con Mark Twain proposto da un giornale americano («Sono riuscito a raggiungere un mostro sacro»), come il giudizio favorevole espresso da uno scrittore solitamente esigente quale Aldo Busi («Mi liquida come il figlio viziato e viziosetto della borghesia romana, ma ha il merito di capire fino in fondo il mio lavoro sulla scrittura»). L'avventura cominciò un po´ per caso, nello studio del padre, davanti a uno schermo vuoto, l'imbarazzo di dover dire ai suoi che non si sarebbe mai laureato. «Per scrivere bisogna sentirsi un po' gli ultimi della terra: non si cura il malessere, ma di certo aiuta. Iniziai con un racconto. Piacque. Fui incoraggiato ad andare avanti».
Prima il romanzo Branchie, poi i racconti di "Fango" e l'esplosione mediatica della "gioventù cannibale", tra pulp e colpi di scena nelle zone d'ombra della vita quotidiana. Ancora il romanzo "Ti prendo e ti porto via", che ne conferma il solido artigianato narrativo. Infine l'osanna della critica per "Io non ho paura", da due anni nella classifica del bestseller, mezzo milione di copie vendute solo in Italia, edizioni in tutto il mondo, la felice traduzione cinematografica di Gabriele Salvatores. Un successo - tutto targato Einaudi - dal quale Niccolò sembra prendere le distanze, quasi impaurito. «Ci sono diverse gradazioni, nella fama. Un primo livello ti rassicura: prima avevo la sensazione d'essere un incapace, bruciato da troppe passioni; ora so d'aver scelto il lavoro che potevo fare. Un riconoscimento che ti migliora anche nel carattere, liberandoti da ansie di dimostrazione». Poi però c'è un livello successivo. «E qui le cose si complicano. Cominci a essere un personaggio alla moda. Vai a una cena e vieni riconosciuto da persone importanti, che dimostrano curiosità per te e i tuoi libri. È allora che scatta la regressione: il successo finisce per riportarti indietro, come una zavorra che ti spalma sul passato, impedendoti di guardare al futuro. Un delirio narcisistico che può farti male, perché il tuo mestiere è guardarti intorno, osservare gli altri. Guardare quelli che ballano, non stare tu al centro della pista».
Ora è in partenza per un'isola della Grecia, dove vivrà due mesi in compagnia di Tiziano Scarpa. Innumerevoli i progetti, tra il nuovo romanzo che deve terminare e molto cinema - sempre in sodalizio con Salvatores - «ma non voglio cedere alle facili lusinghe della popolarità». Nell'immediato, tocca a lui scrivere il finale di un curioso libro collettivo, commissionato da un editore greco a un gruppo di scrittori tra i quali Yehoshua e Michael Faber: una sorta di Odissea contemporanea, della quale ciascun autore deve comporre un capitolo, dopo aver letto ciò che lo precede. Ad Ammaniti il privilegio dell'epilogo: «Per la protagonista, una donna in cerca del padre, ho pensato di chiuderla viva sottoterra». Come in "Io non ho paura", riaffiora la fantasia dei buchi neri nei quali imprigionare vivi e morti. Ci pensa un po´ su: «Credi che gli altri s'arrabbieranno?».
Lo scrittore bambino che gioca col bestseller
cinquecentomila copie per "Io non ho paura"
L'odissea contemporanea inventata con Yehoshua
Il romanzo tradotto in ventinove paesi
Il successo rassicura ma può farti male: il tuo mestiere è osservare gli altri, non stare al centro della pista
Ho cominciato a comporre delle storie perché mi sentivo un fallito. Così la scrittura mi ha salvato
di SIMONETTA FIORI
Venezia. Lo scrittore da cinquecentomila copie, che nel mondo viene letto anche in cinese e in russo, passeggia sbilenco lungo il molo di Fondamenta Nove, cappotto di fustagno verde-biliardo e berretto calcato in testa in stile Shining. Da un mese Niccolò Ammaniti vive in un palazzetto veneziano dal fascino un po´ cupo, grandi specchi bruniti a coprire le alte porte ora murate, che aprono a chissà quali mondi misteriosi. «Qui lavoro bene, lontano dalle seduzioni di Roma. Ho bisogno di prendere le distanze dai luoghi e dalle persone che conosco. Mi sveglio presto, guardo un film, gioco con la playstation, leggo. Poi mi metto a scrivere fino al pomeriggio, in un dialogo continuo con i personaggi delle mie storie. Se non fosse per questo sottofondo molesto…». Si alza e dalla finestra indica una scuola elementare dietro il campiello. «Sai, i bambini…». Ma come, proprio lui, il cantore dell´infanzia, l'inventore di fantastici mondi di ragazzini sospesi tra stupore e orrore, l'autore del fortunato "Io non ho paura" (Einaudi Stile Libero), che con le avventure del piccolo Michele Amitrano-Tom Sawyer ha smosso i lettori di ventinove paesi, dalla Finlandia al Brasile, dall´America al Giappone, dalla Turchia a Israele, dalla Thailandia all'Australia, proprio lui detesta le creature che così bene sa raccontare? «In realtà io i bambini li odio», confessa con divertimento. «Se li scelgo come protagonisti delle mie trame è perché attraverso i loro occhi si può scoprire il mondo. E grazie alle loro fantasie si può reinventarlo. È un tema antichissimo, nel romanzo. Mark Twain e Dickens, ed anche Stephen King, l'hanno sperimentato prima di me».
Dei bambini sa penetrare paure, disillusioni, rituali feroci, ma anche l'epica dell'amicizia con le sue regole d'onore, perché lui bambino lo è stato a lungo. E forse, a trentasette anni, un po' lo è ancora. «Per me quella stagione straordinaria, nutrita di invenzioni oniriche, mostri, fantasie macabre, è durata per molto tempo, forse più del dovuto». Una quieta infanzia borghese, in una bella casa del quartiere Trieste, con il papà Massimo celebre psicoanalista e la mamma Fausta architetto, e però popolata di creature notturne e terrifiche, zoombi, giochi sepolcrali, l'ossessione del buio e dell'ultimo respiro, l'idea di dissoluzione così bene incarnata dal "Principe Infelice", il racconto di Oscar Wilde scelto come livre de chevet. «A Carnevale mi piaceva travestirmi da morto. E la sera, nell'ombra che avvolgeva la camera da letto, mi sentivo assalire dai mostri, contro cui avevo la mia arma segreta: immaginavo di imprigionarli nella pancia perché non raggiungessero la testa». Gli stessi esorcismi praticati dal giovane protagonista di Io non ho paura. «Scrivendo si ricordano le cose dell'infanzia. Di quel mio incubo ricorrente non avevo mai parlato con nessuno finché non l'ho riversato nella scrittura. Paure diffuse, che fanno parte del Dna dell'infanzia. Chi non ha mai scambiato il vestito gettato sulla sedia, rischiarato da un raggio di luna, con il profilo arcigno d´una strega? È da quel materiale fantastico che nascono le mie storie, come l'ossessione di Lazzaro che si risveglia e azzanna Gesù sul collo ingiungendogli "lascia stare i morti". Forse il mio libro è piaciuto anche per questo: dei bambini provo a raccontare tremori universali, non molti dissimili dalle fantasie popolari raccolte esemplarmente da Calvino nelle Fiabe».
Tra le sue paure, più personali, c'era quella di non capire bene quale mestiere facesse il padre neuropsichiatra infantile. «Riceveva a casa tanti bambini, che però io e mia sorella Luisa avevamo il divieto di incontrare. Così, una volta, ci nascondemmo dietro una poltrona. E lo vedemmo con alcuni giochi colorati in mano, davanti ai suoi piccoli pazienti assorti. Ne fummo sconvolti: papà faceva il baby-sitter! E non aveva il coraggio di dircelo…». Risolto l'equivoco, la vita non fu più facile. «Dal genitore psicoanalista ti aspetti molto più che da un padre normale. Pensi di essere capito in modo speciale. E invece il mio era un papà come tutti gli altri, amorevolissimo e dunque pieno di paure, di ansie, di attese che temevo di deludere». Dal confronto è difficile scampare: se il padre Massimo studia il cervello dal punto di vista psicoanalitico, il figlio Niccolò si butta sulla neurofisiologia, l'altra faccia della luna. «Ma a quattro esami dalla laurea in Scienze Biologiche ho lasciato: volevo capire le dinamiche cerebrali e sono franato sulla microcellula del cervello d'un topo. Avevo bisogno d'universale, ed ero prigioniero d'un particolare. Mi sentivo un po' fallito, uno zoologo mancato, capivo che non era quella la mia strada, ma non avevo la forza per trovarne un'altra. Mi rifugiavo negli acquari. Una trentina di vasche per casa, microcosmi acquatici che mi divertivo a comporre e scomporre, come nel gioco combinatorio che è poi l'invenzione narrativa. Mio padre mi lasciava fare, eppure io ero a disagio. Avevo ventitré anni, ci si aspettava qualcos'altro da me. Dovevo uscire dall'infanzia, abbandonarne i rituali ludici e gli incanti». Una sofferenza profonda, che è poi quella dell'adolescenza, «il dolore della crescita, l'addio all'innocenza e al gioco: da lì nasceva il mio malessere». La scrittura come salvezza. «È il solo mestiere che ti permetta di continuare a giocare. Ma anche di stare a casa, di annoiarti e di fantasticare. In fondo continuo a fare oggi quel che facevo da bambino, quando d'una trama reinventavo innumerevoli finali, sempre attratto da storie di solitudine e incomprensione».
Il suo è stato definito un talento narrativo puro, capace di costruire macchine fabulatorie perfette. «The new italian word for talent is Ammaniti», ha titolato tempo fa il Times con un'espressione che ora lo "scrittore bambino" liquida saggiamente come "enfatica ed esagerata". Lo lusinga più l'accostamento con Mark Twain proposto da un giornale americano («Sono riuscito a raggiungere un mostro sacro»), come il giudizio favorevole espresso da uno scrittore solitamente esigente quale Aldo Busi («Mi liquida come il figlio viziato e viziosetto della borghesia romana, ma ha il merito di capire fino in fondo il mio lavoro sulla scrittura»). L'avventura cominciò un po´ per caso, nello studio del padre, davanti a uno schermo vuoto, l'imbarazzo di dover dire ai suoi che non si sarebbe mai laureato. «Per scrivere bisogna sentirsi un po' gli ultimi della terra: non si cura il malessere, ma di certo aiuta. Iniziai con un racconto. Piacque. Fui incoraggiato ad andare avanti».
Prima il romanzo Branchie, poi i racconti di "Fango" e l'esplosione mediatica della "gioventù cannibale", tra pulp e colpi di scena nelle zone d'ombra della vita quotidiana. Ancora il romanzo "Ti prendo e ti porto via", che ne conferma il solido artigianato narrativo. Infine l'osanna della critica per "Io non ho paura", da due anni nella classifica del bestseller, mezzo milione di copie vendute solo in Italia, edizioni in tutto il mondo, la felice traduzione cinematografica di Gabriele Salvatores. Un successo - tutto targato Einaudi - dal quale Niccolò sembra prendere le distanze, quasi impaurito. «Ci sono diverse gradazioni, nella fama. Un primo livello ti rassicura: prima avevo la sensazione d'essere un incapace, bruciato da troppe passioni; ora so d'aver scelto il lavoro che potevo fare. Un riconoscimento che ti migliora anche nel carattere, liberandoti da ansie di dimostrazione». Poi però c'è un livello successivo. «E qui le cose si complicano. Cominci a essere un personaggio alla moda. Vai a una cena e vieni riconosciuto da persone importanti, che dimostrano curiosità per te e i tuoi libri. È allora che scatta la regressione: il successo finisce per riportarti indietro, come una zavorra che ti spalma sul passato, impedendoti di guardare al futuro. Un delirio narcisistico che può farti male, perché il tuo mestiere è guardarti intorno, osservare gli altri. Guardare quelli che ballano, non stare tu al centro della pista».
Ora è in partenza per un'isola della Grecia, dove vivrà due mesi in compagnia di Tiziano Scarpa. Innumerevoli i progetti, tra il nuovo romanzo che deve terminare e molto cinema - sempre in sodalizio con Salvatores - «ma non voglio cedere alle facili lusinghe della popolarità». Nell'immediato, tocca a lui scrivere il finale di un curioso libro collettivo, commissionato da un editore greco a un gruppo di scrittori tra i quali Yehoshua e Michael Faber: una sorta di Odissea contemporanea, della quale ciascun autore deve comporre un capitolo, dopo aver letto ciò che lo precede. Ad Ammaniti il privilegio dell'epilogo: «Per la protagonista, una donna in cerca del padre, ho pensato di chiuderla viva sottoterra». Come in "Io non ho paura", riaffiora la fantasia dei buchi neri nei quali imprigionare vivi e morti. Ci pensa un po´ su: «Credi che gli altri s'arrabbieranno?».
Iscriviti a:
Post (Atom)