Yahoo Notizie 30.1.04
Usa:
depressi? Cappellano aziendale
(ANSA)-NEW YORK, Dipendenti afflitti da problemi emotivi, preoccupati per lavoro o difficoltà in famiglia, depressi? Le società Usa chiamano il cappellano. Meno scientifico degli psicologi, considerato più alla mano, il parroco è la nuova ancora di salvezza delle imprese. Così è nato un nuovo filone imprenditoriale: quello del noleggia-un-sacerdote curato da aziende come Marketplace Ministries e Corporate Chaplains of America. Il costo varia tra i 250 e 100.000 dollari al mese.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 31 gennaio 2004
Luigi De Marchi e la "pastorale dei depressi" vaticana
Avanti 30.1.04
IL CONVEGNO VATICANO SUL “MALE DEL SECOLO”
Il depressione-business
di Luigi De Marchi
Da vent’anni segnalo il dilagare della depressione (che definivo “il male del secolo”) e cerco di spiegare - nel quadro della mia nuova teoria della nevrosi e della cultura - come essa sia un corollario del crollo delle certezze religiose. Quella teoria, sulla base di un’ampia documentazione storica e preistorica, conclude che, con la emersione della coscienza nel quadro dell’evoluzione umana, l’uomo era divenuto l’unica creatura vivente consapevole del proprio destino di morte ed era stato assalito da una devastante angoscia esistenziale contro cui aveva reagito negando la morte e sviluppando fantasie e credenze in una vita d’oltretomba. La difesa religiosa, quindi, era stata la prima e più durevole difesa della psiche umana contro l’angoscia primaria dell’uomo, appunto l’angoscia della morte. Ma il pensiero filosofico e scientifico moderno aveva messo in crisi le promesse e le certezze d’immortalità della religione esponendo la psiche umana a nuove ondate di angoscia esistenziale. Di recente, una conferma della mia analisi è venuta da un Convegno mondiale sulla depressione indetto dalla Chiesa cattolica anche per candidare se stessa alla terapia di questo “male del secolo”, che colpisce una quota sempre più ampia di popolazione. Le parole con cui il cardinale Xavier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Salute, ha analizzato il problema della depressione sembrano tratte di peso dai miei scritti degli anni Ottanta e Novanta: “La causa della depressione sempre più diffusa - ha detto il cardinale inaugurando il gigantesco Convegno, cui hanno partecipato oltre seicento tra scienziati, ambasciatori e ministri della Sanità provenienti dal mondo intero - va cercata nell’angoscia della morte che affligge l’uomo postmoderno. Nonostante le sue grandi scoperte scientifiche e tecniche, infatti, l’uomo non è riuscito a esorcizzare il fantasma della morte e l’angoscia esistenziale è divenuta il suo incubo insormontabile”. E a questo punto il Cardinale ha formalmente candidato la Chiesa e la sua industria assistenziale al ruolo di grande terapista dell’umanità contemporanea. “Solo chi, come Santa Romana Chiesa, possiede la risposta al problema drammatico della morte, solo chi può dare alla coscienza tormentata dell’uomo mo-derno la promessa dell’immortalità e della felicità eterna - egli ha detto - può anche dare una soluzione piena e definitiva al problema della depressione dilagante”. E proprio in questi giorni si è saputo che la macchina organizzativa del mondo ecclesiastico intende candidare migliaia di parrocchie e di centri cattolici all’assistenza dei depressi o, per usare il gergo ecclesiastico, “all’accompagnamento pastorale del depresso”. Insomma, come ha fatto dinanzi al problema dell’immigrazione, anche dinanzi a quello della depressione il Vaticano sta forse annusando un affarone. Purtroppo, però, con buona pace del cardinale e dei suoi seicento convegnisti, la terapia proposta dal Vaticano ha sempre portato a tremendi stermini di massa e oggi, con le moderne armi chimiche, biologiche e nucleari, rischia di uccidere l’umanità intera. La difesa religiosa dall’angoscia esistenziale, che oggi il Vaticano vuole ricostruire, è stata anche il fattore centrale della carneficina che ha insanguinato tutto il corso della storia umana, perché ogni gruppo umano ha creduto che le sue divinità fossero le uniche capaci di assicurare l’immortalità e ha percepito i seguaci delle altre fedi come miscredenti o addirittura come agenti del Demonio che minacciavano il suo Paradiso. La situazione si è aggravata con le grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) per il loro carattere spesso dogmatico e intollerante. Non quindi per caso, ma per intrinseca necessità la storia delle religioni monoteistiche è storia di guerre e di odi infiniti, non solo tra seguaci di religioni diverse (come la Crociate cristiane del XII e XIII secolo o le guerre sante islamiche, che tuttora ci deliziano) ma anche tra seguaci di sette diverse all’interno d’una stessa religione (per esempio cattolici e protestanti nel mondo cristiano, o sciiti e sunniti nel mondo islamico). Pretendere di risanare la depressione col ritorno a questa o quella fede dogmatica è quindi due volte insensato: non solo perché risuscitare la fede con le pressioni esterne è molto difficile, ma soprattutto perché, quand’anche l’operazione vaticana riuscisse, i depressi rischierebbero di passare alla mentalità dogmatica che da secoli produce solo conflitti e stragi tra gli umani. Al rimedio proposto dal Vaticano, quindi, si può solo applicare l’antico, beffardo proverbio veneziano: “Pejo el tacon del buso” (Peggio il rammendo del buco). Già cinquant’anni fa una brillante allieva di Freud, Melania Klein, dimostrò che il malessere psichico si esprimeva secondo due fondamentali modalità: quella depressiva e autodistruttiva o quella paranoidea e eterodistruttiva. La “terapia” della depressione che il Vaticano si accinge a prestare assicurerà certamente alla sua industria assistenziale nuovi giganteschi finanziamenti pubblici e privati ma potrà tuttalpiù riattivare le vecchie modalità paranoidee di pensiero e di comportamento, trasformando l’autodistruttività dei depressi in una distruttività uguale e contraria a quella che oggi imperversa nel mondo islamico e preparando così quello scontro di civiltà che a parole si vuole scongiurare e che, con le armi oggi disponibili, approderebbe ad un’apocalisse planetaria. Le speranze individuali e generali di serenità e di pace non stanno dunque in un ritorno ai vecchi dogmatismi paranoicali ma nella diffusione di un nuovo umanesimo liberale che, al di là delle contrapposizioni confessionali, promuova la solidarietà di tutti i popoli nella comune avventura esistenziale e cosmica.
IL CONVEGNO VATICANO SUL “MALE DEL SECOLO”
Il depressione-business
di Luigi De Marchi
Da vent’anni segnalo il dilagare della depressione (che definivo “il male del secolo”) e cerco di spiegare - nel quadro della mia nuova teoria della nevrosi e della cultura - come essa sia un corollario del crollo delle certezze religiose. Quella teoria, sulla base di un’ampia documentazione storica e preistorica, conclude che, con la emersione della coscienza nel quadro dell’evoluzione umana, l’uomo era divenuto l’unica creatura vivente consapevole del proprio destino di morte ed era stato assalito da una devastante angoscia esistenziale contro cui aveva reagito negando la morte e sviluppando fantasie e credenze in una vita d’oltretomba. La difesa religiosa, quindi, era stata la prima e più durevole difesa della psiche umana contro l’angoscia primaria dell’uomo, appunto l’angoscia della morte. Ma il pensiero filosofico e scientifico moderno aveva messo in crisi le promesse e le certezze d’immortalità della religione esponendo la psiche umana a nuove ondate di angoscia esistenziale. Di recente, una conferma della mia analisi è venuta da un Convegno mondiale sulla depressione indetto dalla Chiesa cattolica anche per candidare se stessa alla terapia di questo “male del secolo”, che colpisce una quota sempre più ampia di popolazione. Le parole con cui il cardinale Xavier Lozano Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Salute, ha analizzato il problema della depressione sembrano tratte di peso dai miei scritti degli anni Ottanta e Novanta: “La causa della depressione sempre più diffusa - ha detto il cardinale inaugurando il gigantesco Convegno, cui hanno partecipato oltre seicento tra scienziati, ambasciatori e ministri della Sanità provenienti dal mondo intero - va cercata nell’angoscia della morte che affligge l’uomo postmoderno. Nonostante le sue grandi scoperte scientifiche e tecniche, infatti, l’uomo non è riuscito a esorcizzare il fantasma della morte e l’angoscia esistenziale è divenuta il suo incubo insormontabile”. E a questo punto il Cardinale ha formalmente candidato la Chiesa e la sua industria assistenziale al ruolo di grande terapista dell’umanità contemporanea. “Solo chi, come Santa Romana Chiesa, possiede la risposta al problema drammatico della morte, solo chi può dare alla coscienza tormentata dell’uomo mo-derno la promessa dell’immortalità e della felicità eterna - egli ha detto - può anche dare una soluzione piena e definitiva al problema della depressione dilagante”. E proprio in questi giorni si è saputo che la macchina organizzativa del mondo ecclesiastico intende candidare migliaia di parrocchie e di centri cattolici all’assistenza dei depressi o, per usare il gergo ecclesiastico, “all’accompagnamento pastorale del depresso”. Insomma, come ha fatto dinanzi al problema dell’immigrazione, anche dinanzi a quello della depressione il Vaticano sta forse annusando un affarone. Purtroppo, però, con buona pace del cardinale e dei suoi seicento convegnisti, la terapia proposta dal Vaticano ha sempre portato a tremendi stermini di massa e oggi, con le moderne armi chimiche, biologiche e nucleari, rischia di uccidere l’umanità intera. La difesa religiosa dall’angoscia esistenziale, che oggi il Vaticano vuole ricostruire, è stata anche il fattore centrale della carneficina che ha insanguinato tutto il corso della storia umana, perché ogni gruppo umano ha creduto che le sue divinità fossero le uniche capaci di assicurare l’immortalità e ha percepito i seguaci delle altre fedi come miscredenti o addirittura come agenti del Demonio che minacciavano il suo Paradiso. La situazione si è aggravata con le grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo e islamismo) per il loro carattere spesso dogmatico e intollerante. Non quindi per caso, ma per intrinseca necessità la storia delle religioni monoteistiche è storia di guerre e di odi infiniti, non solo tra seguaci di religioni diverse (come la Crociate cristiane del XII e XIII secolo o le guerre sante islamiche, che tuttora ci deliziano) ma anche tra seguaci di sette diverse all’interno d’una stessa religione (per esempio cattolici e protestanti nel mondo cristiano, o sciiti e sunniti nel mondo islamico). Pretendere di risanare la depressione col ritorno a questa o quella fede dogmatica è quindi due volte insensato: non solo perché risuscitare la fede con le pressioni esterne è molto difficile, ma soprattutto perché, quand’anche l’operazione vaticana riuscisse, i depressi rischierebbero di passare alla mentalità dogmatica che da secoli produce solo conflitti e stragi tra gli umani. Al rimedio proposto dal Vaticano, quindi, si può solo applicare l’antico, beffardo proverbio veneziano: “Pejo el tacon del buso” (Peggio il rammendo del buco). Già cinquant’anni fa una brillante allieva di Freud, Melania Klein, dimostrò che il malessere psichico si esprimeva secondo due fondamentali modalità: quella depressiva e autodistruttiva o quella paranoidea e eterodistruttiva. La “terapia” della depressione che il Vaticano si accinge a prestare assicurerà certamente alla sua industria assistenziale nuovi giganteschi finanziamenti pubblici e privati ma potrà tuttalpiù riattivare le vecchie modalità paranoidee di pensiero e di comportamento, trasformando l’autodistruttività dei depressi in una distruttività uguale e contraria a quella che oggi imperversa nel mondo islamico e preparando così quello scontro di civiltà che a parole si vuole scongiurare e che, con le armi oggi disponibili, approderebbe ad un’apocalisse planetaria. Le speranze individuali e generali di serenità e di pace non stanno dunque in un ritorno ai vecchi dogmatismi paranoicali ma nella diffusione di un nuovo umanesimo liberale che, al di là delle contrapposizioni confessionali, promuova la solidarietà di tutti i popoli nella comune avventura esistenziale e cosmica.
cristianesimo: il peccato originale
La Stampa Tuttolibri 31.1.04
Siamo peccatori irredimibili o possiamo salvarci?
di Federico Vercellone
IL cristianesimo è responsabile di un modello antropologico molto influente, di carattere non solo religioso ma potenzialmente universale, fondato sul senso di colpa e sul peccato. E' questa, molto sinteticamente, la tesi argomentata in termini molti efficaci da Ugo Bonanate nel saggio La Cultura del male. Il cristianesimo, da questo punto di vista, riguarda non soltanto i credenti, i quali liberamente accolgono un modello antropologico pessimistico e negativo. Esso concerne più in generale tutti, in quanto ognuno di noi dipende storicamente, magari senza saperlo, da un'eredità mitica che pone l'accento di una colpa originaria della quale saremmo tuttavia responsabili e che ci porteremmo dietro. C'è da domandarsi chi sia il responsabile primo di questa disfatta dell'uomo e di questo talora subdolo trionfo dell'autorità religiosa. Il principale imputato è: San Paolo, il cui apostolato fu rivolto essenzialmente all'edificazione della Chiesa in quanto stabile istituzione terrena che doveva quindi garantirsi un orizzonte di guida e di comando in questo mondo. La Chiesa in questo quadro è il solo veicolo di salvezza di un'umanità che senza di essa è ineluttabilmente condannata al naufragio: sine Ecclesia nulla salus. E' bene sottolineare che ciò non coincide con l'insegnamento del Gesù storico quale si riflette nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca). Nei Vangeli sinottici il peccato compare infatti come un errore, come una redimibile infrazione della Legge del Signore che viene compiuta dall'uomo; non siamo invece posti dinanzi all'idea di una sorta di maestosa originarietà del peccato quale viene sviluppata dall'insegnamento paolino. Il peccato, la natura decaduta dell'uomo lo rendono, nell'ottica paolina, un essere deietto, incapace di collaborare alla propria salvezza, la quale può realizzarsi solo per iniziativa di Dio e senza che l'uomo abbia la possibilità di contribuirvi. Si tratta della famosa dottrina della salvezza che avviene esclusivamente per Grazia di Dio. «Infatti è per Grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio», rammenta Paolo nella Lettera agli Efesini. E non si tratta di una dottrina isolata ma di uno dei cardini fondamentali del cristianesimo. Alla lezione paolina si accompagna, in questo senso, al termine del quarto secolo, quella di S. Agostino il quale nella polemica con Pelagio riafferma con forza il significato della Grazia divina nei confronti di un possibile merito umano nella conquista della salvezza. L'idea di colpa originaria costituisce così il principio di un dispositivo autoritario e forse rassicurante che si realizza nell'imposizione di regole morali e sociali che limitano e normano l'iniziativa umana di per sé sempre carente e irretita nell'orizzonte della colpa secondo quanto ci ricordano non solo i Padri della Chiesa ma anche, criticamente, pensatori quali Nietzsche e Freud. L'antropologia paolina si dimostra così, nella ricostruzione di Bonanate, ben più potente di quanto non si possa ricavare dalla sola dogmatica religiosa tanto da determinare non solo le leggi del cielo ma anche, e forse soprattutto, quelle di questo mondo. A questa concezione si può persuasivamente opporre l'ideale di un'etica laica che rinunci alla sicurezze dei dogmi per confidare nel pluralismo e nell'ideale della finitezza e del limite. Ma si può anche chiedersi per contro se l'antropologia cristiana sia compiutamente racchiusa in questo quadro. L'uomo infatti cristianamente non è solo creatura caduta ma anche imago Dei. E l'uno e l'altro aspetto vanno paradossalmente insieme e forse anche insieme andrebbero interrogati.
Siamo peccatori irredimibili o possiamo salvarci?
di Federico Vercellone
IL cristianesimo è responsabile di un modello antropologico molto influente, di carattere non solo religioso ma potenzialmente universale, fondato sul senso di colpa e sul peccato. E' questa, molto sinteticamente, la tesi argomentata in termini molti efficaci da Ugo Bonanate nel saggio La Cultura del male. Il cristianesimo, da questo punto di vista, riguarda non soltanto i credenti, i quali liberamente accolgono un modello antropologico pessimistico e negativo. Esso concerne più in generale tutti, in quanto ognuno di noi dipende storicamente, magari senza saperlo, da un'eredità mitica che pone l'accento di una colpa originaria della quale saremmo tuttavia responsabili e che ci porteremmo dietro. C'è da domandarsi chi sia il responsabile primo di questa disfatta dell'uomo e di questo talora subdolo trionfo dell'autorità religiosa. Il principale imputato è: San Paolo, il cui apostolato fu rivolto essenzialmente all'edificazione della Chiesa in quanto stabile istituzione terrena che doveva quindi garantirsi un orizzonte di guida e di comando in questo mondo. La Chiesa in questo quadro è il solo veicolo di salvezza di un'umanità che senza di essa è ineluttabilmente condannata al naufragio: sine Ecclesia nulla salus. E' bene sottolineare che ciò non coincide con l'insegnamento del Gesù storico quale si riflette nei Vangeli sinottici (Matteo, Marco, Luca). Nei Vangeli sinottici il peccato compare infatti come un errore, come una redimibile infrazione della Legge del Signore che viene compiuta dall'uomo; non siamo invece posti dinanzi all'idea di una sorta di maestosa originarietà del peccato quale viene sviluppata dall'insegnamento paolino. Il peccato, la natura decaduta dell'uomo lo rendono, nell'ottica paolina, un essere deietto, incapace di collaborare alla propria salvezza, la quale può realizzarsi solo per iniziativa di Dio e senza che l'uomo abbia la possibilità di contribuirvi. Si tratta della famosa dottrina della salvezza che avviene esclusivamente per Grazia di Dio. «Infatti è per Grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio», rammenta Paolo nella Lettera agli Efesini. E non si tratta di una dottrina isolata ma di uno dei cardini fondamentali del cristianesimo. Alla lezione paolina si accompagna, in questo senso, al termine del quarto secolo, quella di S. Agostino il quale nella polemica con Pelagio riafferma con forza il significato della Grazia divina nei confronti di un possibile merito umano nella conquista della salvezza. L'idea di colpa originaria costituisce così il principio di un dispositivo autoritario e forse rassicurante che si realizza nell'imposizione di regole morali e sociali che limitano e normano l'iniziativa umana di per sé sempre carente e irretita nell'orizzonte della colpa secondo quanto ci ricordano non solo i Padri della Chiesa ma anche, criticamente, pensatori quali Nietzsche e Freud. L'antropologia paolina si dimostra così, nella ricostruzione di Bonanate, ben più potente di quanto non si possa ricavare dalla sola dogmatica religiosa tanto da determinare non solo le leggi del cielo ma anche, e forse soprattutto, quelle di questo mondo. A questa concezione si può persuasivamente opporre l'ideale di un'etica laica che rinunci alla sicurezze dei dogmi per confidare nel pluralismo e nell'ideale della finitezza e del limite. Ma si può anche chiedersi per contro se l'antropologia cristiana sia compiutamente racchiusa in questo quadro. L'uomo infatti cristianamente non è solo creatura caduta ma anche imago Dei. E l'uno e l'altro aspetto vanno paradossalmente insieme e forse anche insieme andrebbero interrogati.
Antonio Labriola (1843-1904)
La Gazzetta di Parma 31.1.04
ANTONIO LABRIOLA
Il maestro di Croce
di Sergio Caroli
All'alba del 2 febbraio di cent'anni fa moriva a Roma, all'Ospedale teutonico del Campidoglio, Antonio Labriola. Gli ultimi suoi giorni, anzi l'ultimo suo anno di vita, furono per lui di infinito tormento; perché oltre ai dolori fisici che gli impedirono il normale lavoro - lavoro di insegnante, di scrittore, di lettore inesauribile - egli fu afflitto dalla privazione più orribile per tutti e specialmente per lui: quella di non poter parlare. Il 14 febbraio 1904 Benedetto Croce, sul «Marzocco», ne scolpiva, in sette pregnanti pagine, un ritratto che incanta ad ogni rilettura. «Vent'anni fa - vi si legge - proprio tra gennaio ed il febbraio, conobbi Antonio Labriola, in Roma, nella casa di Silvio Spaventa, dove ogni sera si raccoglieva un piccolo gruppo di amici fedeli: qualche deputato, qualche giornalista, e parecchi professori. Erano i tempi del Depretis. Il salotto dello Spaventa rappresentava quanto di più pessimistico si potesse immaginare. Io che dalla politica non ero allettato e che il giure infastidiva - ero studente di giurisprudenza - stavo tutto orecchi ad ascoltare il Labriola, che la politica mutava in satira amenissima, del diritto faceva la critica, e di ogni cosa discorreva con vena abbondante, con spirito scintillante, con informazione sempre fresca delle novità librarie, specie germaniche, di cui egli era come il bollettino serale». Fu lo stesso Spaventa ad esortar Croce a frequentare le lezioni del Labriola all'Università dov'egli finì per ascoltare solo quelle. «Gli altri insegnanti - scriveva - mi annoiavano somministrandomi definizioni belle e fatte, sullo schema costante: "Fu Platone il quale disse, Aristotile invece sentenziò, Kant opinò" ecc. Non potevo persuadermi come tutti quei pensatori, dalla Grecia in qua, avessero dovuto attendere, per essere "integrati" ed "armonizzati", le litografiche dispense di quei miei professori». Invece «il Labriola si faceva punto d'onore di non dar mai una definizione; entrava subito in medias res; mostrava le difficoltà e gli aspetti varii dei problemi, svolgendo indirizzi antitetici come loro necessità intrinseche; non parlava con tono cattedratico, ma con periodi brevi e pungenti, che di tanto in tanto s'innalzavano ed ampliavano ad impeto ed onda oratoria. Parecchi dei miei compagni lamentavano che quel professore non si lasciasse "riassumere", ma io, nei corridoi dell'università, lo difendevo con ardore: in verità quelle lezioni mettevano in fervore il mio cervello e, secondo il detto di Kant, mi insegnavano non pensieri, ma a pensare». «Così mi venni stringendo d'affetto d'amicizia e di dimestichezza col povero Labriola».
Nato a Cassino il 2 luglio 1843, Labriola aveva cominciato ad insegnare a Napoli nel ginnasio Umberto, ma dopo breve tempo guadagnò per concorso la cattedra di filosofia morale e pedagogia all'università di Roma. Uscito dall'ambito della Destra moderata e conservatrice, nel 1886 divenne democratico e socialista. Hegeliano in gioventù, poi antihegeliano in favore di Herbart (sotto l'influsso del quale scrisse i saggi «Della libertà morale», «Morale e religione», «Dell'insegnamento della storia», «Del concetto di libertà» e «Socrate») ritornò, per impulso di Marx, ad Hegel, dando al materialismo storico, divenuto quasi un dogma presso i socialisti italiani e stranieri, una forma critica. Tale evoluzione non sorprese Croce. «Infatti - ricorda l'allievo - egli mi disse un giorno di esser giunto al socialismo rivoluzionario attraverso la critica dell'idea dello Stato. Quando lo Stato etico, vagheggiato dai pubblicisti tedeschi, gli si dimostrò un'utopia e dura ma sola realtà gli scopersero gl'interessi antagonistici delle classi sociali, si trovò nelle braccia del marxismo».
E, del marxismo, Labriola divenne «il miglior conoscitore che mai vi sia stato in Italia e forse nell'Europa tutta» (glielo riconoscerà, ne «La mia vita», anche quel Trotsky, che, secondo Deutscher, «è il solo storico di genio prodotto dalla scuola marxista di pensiero»). Dominatore della filosofia classica tedesca, Labriola comprese, come nessuno, la genesi di quella dottrina, uscita dalla sinistra hegeliana, che egli signoreggiò anche grazie ai rapporti epistolari col vecchio Engels, l'amico fraterno di Marx e con altri esponenti del socialismo tedesco. «Ma meglio di ogni altra parte del marxismo - osservò Croce - egli approfondì la dottrina storica di esso, il materialismo storico». Di questa concezione fu il primo banditore da una cattedra universitaria, il primo che ne trattasse, «non da dilettante, ma da scienziato, con severità d'intenti», avendo «vivo il sentimento del legame tra storia e vita presente, tra storia e politica». Ma - argomenterà altrove Croce - Labriola «non riuscì mai a superare, per quanti sforzi facesse, l'unilateralità del materialismo storico e il conseguente dualismo che esso apriva tra struttura economica e sovrastruttura ideologica e morale, e che spezzava l'unità della storia».
E il discepolo ricorderà che quando egli ebbe pubblicato i suoi saggi sul marxismo e il Labriola protestò contro le conseguenze negative alle quali era pervenuto, egli rispose al suo maestro: che la colpa, se mai era di lui, Labriola, che aveva iniziato a trattare criticamente di quella dottrina, togliendole il carattere di dogma infallibile che possedeva presso i marxisti tedeschi. Croce, che degli scritti del maestro fu editore, assevera poi che «tutti gli studi sulla metodologia della storia che si son fatti in Italia debbono il primo impulso al Labriola che fu sempre aperto e attento ad ogni moto di idee, irrequieto e insoddisfatto, e rinnovò e rinfrescò di continuo la sua cultura». Di lui riconosce anche la «non piccola efficacia sulle cose politiche italiane negli ultimi decenni, sebbene operasse quasi dietro le quinte o nell'altra scuola che egli teneva ogni giorno al caffè Aragno». «Entrato nel socialismo fu il terrore dei socialisti, specie dei giovani: una frusta letteraria sempre levata, che colpiva implacabile». Un aspetto lo differenziava dal socialismo internazionale: egli guardò con favore all'impresa dell'Eritrea e ai disegni di occupazione di Tripoli, fedele, anche in ciò, al marxismo classico che non concepiva l'avvento del socialismo se non preceduto da un pieno sviluppo della borghesia. «Il proletariato - diceva scherzando - è destinato a succedere alla borghesia; sta bene: ma come farà, in Italia, a succedere ad una borghesia che non esiste, a una borghesia di pezzenti?». Cosi testimonia Croce, il quale, nella «Storia d'Italia», annoterà: «Con quanta ansia seguì e con quanto dolore, le cose italiane in Africa».
Quando il 14 novembre 1897 Labriola lesse nell'Università di Roma il discorso di inaugurazione su «L'università e la libertà della scienza», alla presenza del ministro dell'istruzione E. Gianturco, e il ministro restò punto dal modo di parlare del Labriola «da libero uomo», e il Consiglio accademico si rifiutò a lasciare stampare nell'annuario il discorso del collega se non ne fossero state soppresse alcune frasi, il Croce consigliò al Labriola di ritirare senz'altro il manoscritto, glielo stampò lui, divulgandolo in un migliaio e mezzo di copie. Nell'avvertenza premessavi egli scrisse: «...Sono orgoglioso di presentare al pubblico italiano questo discorso, per sentimento e per pensiero uno dei più elevati che si sieno mai uditi nelle aule dell'Università italiane» («Giornale d'Italia», 10 giugno 1907). In questo plumbeo presente, anche quell'episodio, seppur sepolto nel tempo, torreggia, luminoso faro di etica, ai dotti non indegni di questo nome.
ANTONIO LABRIOLA
Il maestro di Croce
di Sergio Caroli
All'alba del 2 febbraio di cent'anni fa moriva a Roma, all'Ospedale teutonico del Campidoglio, Antonio Labriola. Gli ultimi suoi giorni, anzi l'ultimo suo anno di vita, furono per lui di infinito tormento; perché oltre ai dolori fisici che gli impedirono il normale lavoro - lavoro di insegnante, di scrittore, di lettore inesauribile - egli fu afflitto dalla privazione più orribile per tutti e specialmente per lui: quella di non poter parlare. Il 14 febbraio 1904 Benedetto Croce, sul «Marzocco», ne scolpiva, in sette pregnanti pagine, un ritratto che incanta ad ogni rilettura. «Vent'anni fa - vi si legge - proprio tra gennaio ed il febbraio, conobbi Antonio Labriola, in Roma, nella casa di Silvio Spaventa, dove ogni sera si raccoglieva un piccolo gruppo di amici fedeli: qualche deputato, qualche giornalista, e parecchi professori. Erano i tempi del Depretis. Il salotto dello Spaventa rappresentava quanto di più pessimistico si potesse immaginare. Io che dalla politica non ero allettato e che il giure infastidiva - ero studente di giurisprudenza - stavo tutto orecchi ad ascoltare il Labriola, che la politica mutava in satira amenissima, del diritto faceva la critica, e di ogni cosa discorreva con vena abbondante, con spirito scintillante, con informazione sempre fresca delle novità librarie, specie germaniche, di cui egli era come il bollettino serale». Fu lo stesso Spaventa ad esortar Croce a frequentare le lezioni del Labriola all'Università dov'egli finì per ascoltare solo quelle. «Gli altri insegnanti - scriveva - mi annoiavano somministrandomi definizioni belle e fatte, sullo schema costante: "Fu Platone il quale disse, Aristotile invece sentenziò, Kant opinò" ecc. Non potevo persuadermi come tutti quei pensatori, dalla Grecia in qua, avessero dovuto attendere, per essere "integrati" ed "armonizzati", le litografiche dispense di quei miei professori». Invece «il Labriola si faceva punto d'onore di non dar mai una definizione; entrava subito in medias res; mostrava le difficoltà e gli aspetti varii dei problemi, svolgendo indirizzi antitetici come loro necessità intrinseche; non parlava con tono cattedratico, ma con periodi brevi e pungenti, che di tanto in tanto s'innalzavano ed ampliavano ad impeto ed onda oratoria. Parecchi dei miei compagni lamentavano che quel professore non si lasciasse "riassumere", ma io, nei corridoi dell'università, lo difendevo con ardore: in verità quelle lezioni mettevano in fervore il mio cervello e, secondo il detto di Kant, mi insegnavano non pensieri, ma a pensare». «Così mi venni stringendo d'affetto d'amicizia e di dimestichezza col povero Labriola».
Nato a Cassino il 2 luglio 1843, Labriola aveva cominciato ad insegnare a Napoli nel ginnasio Umberto, ma dopo breve tempo guadagnò per concorso la cattedra di filosofia morale e pedagogia all'università di Roma. Uscito dall'ambito della Destra moderata e conservatrice, nel 1886 divenne democratico e socialista. Hegeliano in gioventù, poi antihegeliano in favore di Herbart (sotto l'influsso del quale scrisse i saggi «Della libertà morale», «Morale e religione», «Dell'insegnamento della storia», «Del concetto di libertà» e «Socrate») ritornò, per impulso di Marx, ad Hegel, dando al materialismo storico, divenuto quasi un dogma presso i socialisti italiani e stranieri, una forma critica. Tale evoluzione non sorprese Croce. «Infatti - ricorda l'allievo - egli mi disse un giorno di esser giunto al socialismo rivoluzionario attraverso la critica dell'idea dello Stato. Quando lo Stato etico, vagheggiato dai pubblicisti tedeschi, gli si dimostrò un'utopia e dura ma sola realtà gli scopersero gl'interessi antagonistici delle classi sociali, si trovò nelle braccia del marxismo».
E, del marxismo, Labriola divenne «il miglior conoscitore che mai vi sia stato in Italia e forse nell'Europa tutta» (glielo riconoscerà, ne «La mia vita», anche quel Trotsky, che, secondo Deutscher, «è il solo storico di genio prodotto dalla scuola marxista di pensiero»). Dominatore della filosofia classica tedesca, Labriola comprese, come nessuno, la genesi di quella dottrina, uscita dalla sinistra hegeliana, che egli signoreggiò anche grazie ai rapporti epistolari col vecchio Engels, l'amico fraterno di Marx e con altri esponenti del socialismo tedesco. «Ma meglio di ogni altra parte del marxismo - osservò Croce - egli approfondì la dottrina storica di esso, il materialismo storico». Di questa concezione fu il primo banditore da una cattedra universitaria, il primo che ne trattasse, «non da dilettante, ma da scienziato, con severità d'intenti», avendo «vivo il sentimento del legame tra storia e vita presente, tra storia e politica». Ma - argomenterà altrove Croce - Labriola «non riuscì mai a superare, per quanti sforzi facesse, l'unilateralità del materialismo storico e il conseguente dualismo che esso apriva tra struttura economica e sovrastruttura ideologica e morale, e che spezzava l'unità della storia».
E il discepolo ricorderà che quando egli ebbe pubblicato i suoi saggi sul marxismo e il Labriola protestò contro le conseguenze negative alle quali era pervenuto, egli rispose al suo maestro: che la colpa, se mai era di lui, Labriola, che aveva iniziato a trattare criticamente di quella dottrina, togliendole il carattere di dogma infallibile che possedeva presso i marxisti tedeschi. Croce, che degli scritti del maestro fu editore, assevera poi che «tutti gli studi sulla metodologia della storia che si son fatti in Italia debbono il primo impulso al Labriola che fu sempre aperto e attento ad ogni moto di idee, irrequieto e insoddisfatto, e rinnovò e rinfrescò di continuo la sua cultura». Di lui riconosce anche la «non piccola efficacia sulle cose politiche italiane negli ultimi decenni, sebbene operasse quasi dietro le quinte o nell'altra scuola che egli teneva ogni giorno al caffè Aragno». «Entrato nel socialismo fu il terrore dei socialisti, specie dei giovani: una frusta letteraria sempre levata, che colpiva implacabile». Un aspetto lo differenziava dal socialismo internazionale: egli guardò con favore all'impresa dell'Eritrea e ai disegni di occupazione di Tripoli, fedele, anche in ciò, al marxismo classico che non concepiva l'avvento del socialismo se non preceduto da un pieno sviluppo della borghesia. «Il proletariato - diceva scherzando - è destinato a succedere alla borghesia; sta bene: ma come farà, in Italia, a succedere ad una borghesia che non esiste, a una borghesia di pezzenti?». Cosi testimonia Croce, il quale, nella «Storia d'Italia», annoterà: «Con quanta ansia seguì e con quanto dolore, le cose italiane in Africa».
Quando il 14 novembre 1897 Labriola lesse nell'Università di Roma il discorso di inaugurazione su «L'università e la libertà della scienza», alla presenza del ministro dell'istruzione E. Gianturco, e il ministro restò punto dal modo di parlare del Labriola «da libero uomo», e il Consiglio accademico si rifiutò a lasciare stampare nell'annuario il discorso del collega se non ne fossero state soppresse alcune frasi, il Croce consigliò al Labriola di ritirare senz'altro il manoscritto, glielo stampò lui, divulgandolo in un migliaio e mezzo di copie. Nell'avvertenza premessavi egli scrisse: «...Sono orgoglioso di presentare al pubblico italiano questo discorso, per sentimento e per pensiero uno dei più elevati che si sieno mai uditi nelle aule dell'Università italiane» («Giornale d'Italia», 10 giugno 1907). In questo plumbeo presente, anche quell'episodio, seppur sepolto nel tempo, torreggia, luminoso faro di etica, ai dotti non indegni di questo nome.
l'evoluzionismo di Stephen J. Gould
Repubblica 31.1.04
SE GOULD DIALOGA CON DARWIN
Tradotto l'ultimo saggio
Una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un vero libro-museo
Quell'avventura imprevedibile che modifica e seleziona gli organismi
"La struttura della teoria dell'evoluzione" del grande paleontologo e zoologo è uscita negli Stati Uniti poco prima della prematura scomparsa dello scienziato
di UMBERTO GALIMBERTI
«La teoria dell´evoluzione è come il Duomo di Milano». La metafora risale al fondatore della teoria evoluzionistica Charles Darwin, che ne discusse in un carteggio del 1862 con il paleontologo scozzese Hugh Falconer. Quest´ultimo, piuttosto dubbioso circa la selezione naturale, dava merito al collega di aver gettato le basi di una teoria potente per spiegare la storia naturale, ma lo avvertiva di tenersi pronto a rimaneggiamenti anche radicali poiché «la struttura sovrastante verrà alterata dai suoi successori, come il Duomo di Milano, dove si passa dal romanico a uno stile architettonico diverso». Darwin, sicuro della solidità dell´impianto complessivo della sua opera, rispose che la sua teoria o sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish), oppure, da chi fosse accettata, sarebbe stata sottoposta soltanto a ritocchi marginali.
Tutt´altro che marginali sono invece i «ritocchi» apportati alla teoria di Darwin ne La struttura della teoria dell´evoluzione, l´ultima grande opera del noto paleontologo e zoologo di Harvard Stephen J. Gould, pubblicata negli Stati Uniti poche settimane prima della sua prematura scomparsa, avvenuta nel maggio 2002.
Gould, ben conosciuto anche in Italia per i suoi saggi di storia naturale editi da Feltrinelli, lavorava a questa enorme architettura teorica (più di 1700 pagine) da almeno vent´anni. Era, come lui stesso dichiarò, «il progetto di una vita», costruito con pazienza e tenacia.
Mentre si faceva apprezzare per le doti di divulgatore e di storico della scienza, un filo teorico ininterrotto di snodava e prendeva forma in questa proposta conclusiva, che oggi, grazie al lavoro di un´équipe di traduttori e di esperti di teoria dell´evoluzione appare in edizione italiana come primo volume di una nuova casa editrice, Codice edizioni, fondata da Vittorio Bo. L´opera, che nell´edizione italiana conta 1732 pagine e costa il prezzo promozionale di 58 euro, è stata curata da Telmo Pievani, docente all´università di Milano di epistemologia evolutiva, che ringrazio perché mi ha molto aiutato nella compilazione di questa recensione.
L´opera di Gould può essere considerata una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un libro-museo della storia dell´evoluzionismo e delle sue controversie. E, come ogni cattedrale che si rispetti, l´opera può essere visitata da ingressi diversi. Alcuni lettori potranno seguire la dotta ricostruzione delle principali tappe del pensiero evoluzionista moderno, affrontata nella prima parte del volume. Altri non mancheranno di apprezzare il serrato e avvincente dialogo che l´autore instaura proprio con Darwin, nel tentativo di esplorare linee teoriche che possano riformulare le prospettive originali della teoria, esaltandone al contempo la vitalità attuale. Estimatori e avversari troveranno dunque in questo libro un compendio delle teorie con le quali Gould ha agitato per decenni le acque delle scienze evoluzioniste.
Gould è ben lontano dal voler negare i fondamenti della teoria darwiniana, a dispetto di talune strumentalizzazioni di marca creazionista del suo pensiero, ma neppure ritiene sufficienti i piccoli «ritocchi» in cui sperava Darwin. La seconda parte del volume vuole essere infatti una «revisione ed estensione» della teoria, non certo una confutazione. Semmai, la scommessa di Gould è quella di introdurre, nella teoria dell´evoluzione, un pluralismo esplicativo, rispetto al riduzionismo darwiniano a un´unica causa del processo evolutivo, che ancora si ritrova, ad esempio, nella sociobiologia e nella psicologia evoluzionista.
Il principio che è alla base della teoria evoluzionista di Darwin potrebbe essere sintetizzato dalla formula: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri organismi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque «un´unica causa» dell´evoluzione, il cui meccanismo è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi ancora da identificare.
Per Gould, la storia dell´evoluzione è qualcosa di ben diverso da una lotta fra «geni egoisti» che controllano gli organismi come loro veicoli passivi, al fine di produrre adattamenti progressivamente più perfetti. L´evoluzione è, piuttosto, un´avventura contingente, influenzata da una pletora di fattori eterogenei, non priva di regolarità e di vincoli interni agli organismi, ma pur sempre imprevedibile. Un´avventura che procede a ritmi alterni, nella quale la ridondanza, la flessibilità e la capacità di arrangiarsi hanno generato organismi spesso un po´ imperfetti, ma proprio per questo creativi.
Basti pensare, come ci ricorda Arnold Gehlen, alla plasticità e creatività dell´uomo che, privo di istinti, proprio per questa sua carenza biologica, ha potuto svincolarsi dal suo mondo-ambiente (Um-Welt), a cui è inesorabilmente legato l´animale, e creare un mondo proprio (Welt), perché privo di una codificazione istintuale. Queste cose Gehlen le scrive nella sua opera maggiore L´uomo, edita a suo tempo da Feltrinelli, e oggi, come capita a molti libri fondamentali della nostra cultura, non più in circolazione.
Ma torniamo a Gould che, pur conservando il nucleo della teoria evoluzionista darwiniana, rifiuta il riduzionismo che spiega l´evoluzione col ricorso a una sola causa, per introdurre una pluricausalità gerarchicamente ordinata che, grazie alle recenti scoperte della genetica, va dal gene, alla cellula, all´organismo e alla specie, senza dimenticare i grandi eventi della storia terrestre che producono estinzioni e speciazioni, le alterazioni degli habitat e del clima, le competizioni e cooperazioni fra specie, le variazioni nei ghiacci e negli oceani, i continenti alla deriva e, di tanto in tanto, gli impatti di asteroidi.
In questa trama estesa dell´evoluzione, contrapposta alla nuda semplicità del riduzionismo darwiniano, si nasconde l´ultimo messaggio di Gould. Un messaggio, per chi lo voglia intendere, rivolto anche alle modalità con le quali la specie umana concepisce oggi il proprio ruolo nella biodiversità terrestre e la propria relazione con questo pianeta che, pazientemente, per il momento la ospita. Diciamo «per il momento», perché se la biodiversità è stato il motivo di successo del processo evolutivo, l´uniformità, l´integrazione, l´assimilazione a cui tendono i processi di globalizzazione e di pensiero unico oggi in atto, vanno esattamente nella direzione opposta
SE GOULD DIALOGA CON DARWIN
Tradotto l'ultimo saggio
Una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un vero libro-museo
Quell'avventura imprevedibile che modifica e seleziona gli organismi
"La struttura della teoria dell'evoluzione" del grande paleontologo e zoologo è uscita negli Stati Uniti poco prima della prematura scomparsa dello scienziato
di UMBERTO GALIMBERTI
«La teoria dell´evoluzione è come il Duomo di Milano». La metafora risale al fondatore della teoria evoluzionistica Charles Darwin, che ne discusse in un carteggio del 1862 con il paleontologo scozzese Hugh Falconer. Quest´ultimo, piuttosto dubbioso circa la selezione naturale, dava merito al collega di aver gettato le basi di una teoria potente per spiegare la storia naturale, ma lo avvertiva di tenersi pronto a rimaneggiamenti anche radicali poiché «la struttura sovrastante verrà alterata dai suoi successori, come il Duomo di Milano, dove si passa dal romanico a uno stile architettonico diverso». Darwin, sicuro della solidità dell´impianto complessivo della sua opera, rispose che la sua teoria o sarebbe stata rifiutata in blocco dai creazionisti che l´avrebbero considerata pura spazzatura, robaccia (rubbish), oppure, da chi fosse accettata, sarebbe stata sottoposta soltanto a ritocchi marginali.
Tutt´altro che marginali sono invece i «ritocchi» apportati alla teoria di Darwin ne La struttura della teoria dell´evoluzione, l´ultima grande opera del noto paleontologo e zoologo di Harvard Stephen J. Gould, pubblicata negli Stati Uniti poche settimane prima della sua prematura scomparsa, avvenuta nel maggio 2002.
Gould, ben conosciuto anche in Italia per i suoi saggi di storia naturale editi da Feltrinelli, lavorava a questa enorme architettura teorica (più di 1700 pagine) da almeno vent´anni. Era, come lui stesso dichiarò, «il progetto di una vita», costruito con pazienza e tenacia.
Mentre si faceva apprezzare per le doti di divulgatore e di storico della scienza, un filo teorico ininterrotto di snodava e prendeva forma in questa proposta conclusiva, che oggi, grazie al lavoro di un´équipe di traduttori e di esperti di teoria dell´evoluzione appare in edizione italiana come primo volume di una nuova casa editrice, Codice edizioni, fondata da Vittorio Bo. L´opera, che nell´edizione italiana conta 1732 pagine e costa il prezzo promozionale di 58 euro, è stata curata da Telmo Pievani, docente all´università di Milano di epistemologia evolutiva, che ringrazio perché mi ha molto aiutato nella compilazione di questa recensione.
L´opera di Gould può essere considerata una maestosa cattedrale del pensiero scientifico, un libro-museo della storia dell´evoluzionismo e delle sue controversie. E, come ogni cattedrale che si rispetti, l´opera può essere visitata da ingressi diversi. Alcuni lettori potranno seguire la dotta ricostruzione delle principali tappe del pensiero evoluzionista moderno, affrontata nella prima parte del volume. Altri non mancheranno di apprezzare il serrato e avvincente dialogo che l´autore instaura proprio con Darwin, nel tentativo di esplorare linee teoriche che possano riformulare le prospettive originali della teoria, esaltandone al contempo la vitalità attuale. Estimatori e avversari troveranno dunque in questo libro un compendio delle teorie con le quali Gould ha agitato per decenni le acque delle scienze evoluzioniste.
Gould è ben lontano dal voler negare i fondamenti della teoria darwiniana, a dispetto di talune strumentalizzazioni di marca creazionista del suo pensiero, ma neppure ritiene sufficienti i piccoli «ritocchi» in cui sperava Darwin. La seconda parte del volume vuole essere infatti una «revisione ed estensione» della teoria, non certo una confutazione. Semmai, la scommessa di Gould è quella di introdurre, nella teoria dell´evoluzione, un pluralismo esplicativo, rispetto al riduzionismo darwiniano a un´unica causa del processo evolutivo, che ancora si ritrova, ad esempio, nella sociobiologia e nella psicologia evoluzionista.
Il principio che è alla base della teoria evoluzionista di Darwin potrebbe essere sintetizzato dalla formula: «L´ambiente propone e la selezione dispone». Ciò significa che l´ambiente (che comprende tanto l´ambiente fisico quanto gli altri organismi) agisce sull´organismo che, per conseguire il successo riproduttivo, si adatta a cambiamenti evolutivi o, in caso di insuccesso, si estingue. Per Darwin c´è dunque «un´unica causa» dell´evoluzione, il cui meccanismo è quello del carnefice o del boia che rimuove gli individui inadatti una volta emersi quelli adatti, seguendo processi ancora da identificare.
Per Gould, la storia dell´evoluzione è qualcosa di ben diverso da una lotta fra «geni egoisti» che controllano gli organismi come loro veicoli passivi, al fine di produrre adattamenti progressivamente più perfetti. L´evoluzione è, piuttosto, un´avventura contingente, influenzata da una pletora di fattori eterogenei, non priva di regolarità e di vincoli interni agli organismi, ma pur sempre imprevedibile. Un´avventura che procede a ritmi alterni, nella quale la ridondanza, la flessibilità e la capacità di arrangiarsi hanno generato organismi spesso un po´ imperfetti, ma proprio per questo creativi.
Basti pensare, come ci ricorda Arnold Gehlen, alla plasticità e creatività dell´uomo che, privo di istinti, proprio per questa sua carenza biologica, ha potuto svincolarsi dal suo mondo-ambiente (Um-Welt), a cui è inesorabilmente legato l´animale, e creare un mondo proprio (Welt), perché privo di una codificazione istintuale. Queste cose Gehlen le scrive nella sua opera maggiore L´uomo, edita a suo tempo da Feltrinelli, e oggi, come capita a molti libri fondamentali della nostra cultura, non più in circolazione.
Ma torniamo a Gould che, pur conservando il nucleo della teoria evoluzionista darwiniana, rifiuta il riduzionismo che spiega l´evoluzione col ricorso a una sola causa, per introdurre una pluricausalità gerarchicamente ordinata che, grazie alle recenti scoperte della genetica, va dal gene, alla cellula, all´organismo e alla specie, senza dimenticare i grandi eventi della storia terrestre che producono estinzioni e speciazioni, le alterazioni degli habitat e del clima, le competizioni e cooperazioni fra specie, le variazioni nei ghiacci e negli oceani, i continenti alla deriva e, di tanto in tanto, gli impatti di asteroidi.
In questa trama estesa dell´evoluzione, contrapposta alla nuda semplicità del riduzionismo darwiniano, si nasconde l´ultimo messaggio di Gould. Un messaggio, per chi lo voglia intendere, rivolto anche alle modalità con le quali la specie umana concepisce oggi il proprio ruolo nella biodiversità terrestre e la propria relazione con questo pianeta che, pazientemente, per il momento la ospita. Diciamo «per il momento», perché se la biodiversità è stato il motivo di successo del processo evolutivo, l´uniformità, l´integrazione, l´assimilazione a cui tendono i processi di globalizzazione e di pensiero unico oggi in atto, vanno esattamente nella direzione opposta
venerdì 30 gennaio 2004
Janet Paterson Frame
una segnalazione di Filippo Trojano
Il Messaggero 30.1.04
È morta la più famosa autrice neozelandese
Frame, "pazza" di genio
di FIORELLA IANNUCCI
PER Patrick White, australiano, premio Nobel per la letteratura, Janet Frame era «il miglior romanziere neozelandese di tutti i tempi». E davvero la scrittrice, morta ieri a 79 anni in Nuova Zelanda, lascia molto di più dei suoi scritti: quindici romanzi, cinque raccolte di racconti, per non parlare delle poesie e di alcuni libri per l’infanzia (splendido Cuor di formica, Mondadori) oltre a quell’autobiografia in tre volumi (Un angelo alla mia tavola, Einaudi) che l’ha resa famosa in tutto il mondo e da cui Jane Campion ha tratto, nel 1990, un film indimenticabile. Janet Frame lascia la parabola della sua esistenza, salvata solo dalla letteratura. E la denuncia, attraverso il lirismo e persino l’ironia della sua scrittura, di un mondo che teme a tal punto la “diversità” da segregarla, da mortificarla, da annientarla. Era a un passo dalla lobotomia, Janet Frame, dieci anni alle spalle passate in un ospedale psichiatrico con una diagnosi (sbagliata) di “schizofrenia”. Non aveva ancora trent’anni. Fu un premio, l’Hubert Church, inaspettatamente vinto dai suoi primi racconti (La laguna, edito da Fazi) a fermare il bisturi e a ridarle la libertà. Non così per tutte le altre. Non così per la sua amica di manicomio, Nola. Scrive la Frame: «Lei fu reinserita nel gruppo conosciuto come “le lobotomie”: le portavano in giro, parlavano con loro, le truccavano con maquillage e foulard a fiori floreali per coprire le loro teste rasate. Erano silenziose, docili; avevano occhi grandi e scuri, incastonati in pallidi volti».
Il tema della diversità e del disagio psichico è il cuore di tutta la narrativa di Janet Frame. Da Giardini profumati per i ciechi a Gridano i gufi (editi da Guanda) all’autobiografia, non c’è pagina che non restituisca al lettore quella terribile esperienza di segregazione e umiliazione. Fango, trasformato in oro dalla scrittura di una donna mite, che amava viaggiare (in Europa soprattutto, Baleari, Andorra, Londra, dove visse per alcuni anni, Stati Uniti, Francia) ma, soprattutto, adorava restare sola. In Nuova Zelanda, dove era definitivamente tornata nel 1974, Janet Frame viveva in un luogo isolato, Paluverston North, lontano dalla gente. Lei, come Mina Minim, la giovane Formica di Casa della deliziosa favola scritta per i ragazzi, aveva seguito i consigli della Grande Regina: «Dovete uscire, piccole formiche, e vedere e annusare e provare e toccare da sole, e allora saprete». Finalmente poteva riposarsi.
l'Unità 31.1.04
Janet Frame, un angelo della diversità
È morta a 80 anni la scrittrice neozelandese resa celebre dal film di Jane Campion
In tre volumi autobiografici ha raccontato l'odissea in manicomio con la diagnosi sbagliata di schizofrenia
di Maria Serena Palieri
AIle soglie degli ottant'anni - ottant'anni vissuti con singolari sofferenze e singolare intensitá - è morta ieri di leucemia mieloide a Dunedin, sua città natale nell'Isola del Sud della Nuova Zelanda, Janet Frame: è la scrittrice che Jane Campion, con una magica accoppiata di talentí femmínili, il proprio di cineasta e il suo di narratrice, portò nel 1990 a fama planetaria con la trasposizione cinematografica, dell'autobiografia, Un angelo alla mía tavola,- pluripremiata ai festival di Venezia, e Toronto di quell'anno. Nei tre volumi autobiografici, pubblicati tra íl 1982 e il 1985 (To the IsIand, An Angel at my table, da. cui. il titolo del film, The Envoy from Mirror City), l'umbratile e tenacissima Frame raccontava una vicenda che la consegnava alla famiglia degli artisti - Campana e Sylvia Plath, Hölderlin e Pound per intenderci - «baciati» dalla malattia mentale: scrittori la cui opera riverbera il tormentato viaggio in universi psichicí ignoti ai «saní» ma che, anche, corrono il rischio di diventare oggetto di culto più per la loro vita che per la loro opera Janet Paterson Frame, infatti, era nata a Dunedin nel 1924 da una famiglia di origine fiammingo-scozzese, cinque figli e un padre ingegnere ferroviario caduto in rovina; cresciuta a Oamaru. (là «Waimaru» deì suoi romanzi), aveva sofferto per una serie di tragedie familiari: l'epilessia del fratello maschio, la morte, in due incidenti diversi, nel 1934 e 1947, di due sorelle; e fu nel '47, dopo che la sorella Isabel annegò e dopo aver tentato il suicidio, che ebbe inizio la sua odissea psichiatrica: anni passati in manicomio, con la diagnosi di schizofrenia, sottoposta a centinaia di elettroshock, soggetta all'umiliazione, e alla níentificazione che raccontò poi in Dentro il muro (primo dei suoi titoli tradotti in italiano, da Interno Giallo nel '92), finché fu una raccolta di racconti a salvarla dal capitolo finale, l'operazione di lobotomia («non rimpiangerà mai di averla fatta», ha scritto, le disse il medico). Con The Lagoon, nel 1951, vinse infatti lo Hubert Chur Memorial Award e ottenne di mantenere intero il proprio cervello.
Sarà uno psichiatra britannico, qualche anno dopo, a certificarle che ín realtà, non era mai stata schízofreníca: secondo la sua diagnosi quella paziente era semplicemente una donna che preferiva la solitudine e che era diversa dagli altri. Uscita dal calvario psichiatrico, diventata scrittrice a tutti gli effettì, Janet Frame visse poi a Ibiza, Andorra, Londra e New York, per tornare più tardi in Nuova Zelanda.
Considerata la più grande scrittrice di quella terra dopo l'anglicizzata Katharine Mansfield a più riprese candidata al Nobel tradotta in sedici lingue, Frame ci ha lasciato quindici romanzi, cinque raccolte di racconti, tre collezioni di poesie, l'autobiografia e svariati libri per bambini (in italiano, dopo il successo del film di Jane Campion, l'hanno tradotta oltre a Interno Giallo, Einaudi, Guanda, Tea, Tropea, Fazi e Mondadori).
Molte delle sue opere crescono intorno al binomio salute-pazzia, ma non tutte: Intensive Care, del 1972, è per esempio un romanzo anti-utopico, ambientato in una Terra dove i supertecnocrati hanno scatenato la Terza guerra mondiale. Pure, la potenza della sua sperimentazione narrativa risiede nell'usare la schizofrenia come inedita chiave di lettura della realtà: un tema centrale, nella sua opera, è la paura che il «sano» ha del «matto».
Mentre la dimensione allucinatoria diventa un grimaldello per forzare il linguaggio oltre le catene del banale e del necessario.
In prima persona, Frame considerava che la miglior cosa che avesse scritto fosse una favola il cui titolo in italiano suona Uccello, Aquila, Spírito: dove l'uccello (l'immaginazione e l'ispirazione) viene mangiato dall'aquila (il materialismo) e questa dallo spirito malevolo (l'immaginazione repressa e. l'individualismo). Altri hanno visto nella sua opera riflesse in infinite forme le parole Tempesta, Mare, Isola, Esilio, Magia, Ritorno: sono i codici di Prospero nella Tempesta shakespeariana.
Chiudiamo con dei suoi versi che ben raccontano cosa significa essere «diversa» dagli altri ed essere per questo considerata pazza. Scrive, in Vivere nel Maniototo (Interno Giallo 1992),
Il Messaggero 30.1.04
È morta la più famosa autrice neozelandese
Frame, "pazza" di genio
di FIORELLA IANNUCCI
PER Patrick White, australiano, premio Nobel per la letteratura, Janet Frame era «il miglior romanziere neozelandese di tutti i tempi». E davvero la scrittrice, morta ieri a 79 anni in Nuova Zelanda, lascia molto di più dei suoi scritti: quindici romanzi, cinque raccolte di racconti, per non parlare delle poesie e di alcuni libri per l’infanzia (splendido Cuor di formica, Mondadori) oltre a quell’autobiografia in tre volumi (Un angelo alla mia tavola, Einaudi) che l’ha resa famosa in tutto il mondo e da cui Jane Campion ha tratto, nel 1990, un film indimenticabile. Janet Frame lascia la parabola della sua esistenza, salvata solo dalla letteratura. E la denuncia, attraverso il lirismo e persino l’ironia della sua scrittura, di un mondo che teme a tal punto la “diversità” da segregarla, da mortificarla, da annientarla. Era a un passo dalla lobotomia, Janet Frame, dieci anni alle spalle passate in un ospedale psichiatrico con una diagnosi (sbagliata) di “schizofrenia”. Non aveva ancora trent’anni. Fu un premio, l’Hubert Church, inaspettatamente vinto dai suoi primi racconti (La laguna, edito da Fazi) a fermare il bisturi e a ridarle la libertà. Non così per tutte le altre. Non così per la sua amica di manicomio, Nola. Scrive la Frame: «Lei fu reinserita nel gruppo conosciuto come “le lobotomie”: le portavano in giro, parlavano con loro, le truccavano con maquillage e foulard a fiori floreali per coprire le loro teste rasate. Erano silenziose, docili; avevano occhi grandi e scuri, incastonati in pallidi volti».
Il tema della diversità e del disagio psichico è il cuore di tutta la narrativa di Janet Frame. Da Giardini profumati per i ciechi a Gridano i gufi (editi da Guanda) all’autobiografia, non c’è pagina che non restituisca al lettore quella terribile esperienza di segregazione e umiliazione. Fango, trasformato in oro dalla scrittura di una donna mite, che amava viaggiare (in Europa soprattutto, Baleari, Andorra, Londra, dove visse per alcuni anni, Stati Uniti, Francia) ma, soprattutto, adorava restare sola. In Nuova Zelanda, dove era definitivamente tornata nel 1974, Janet Frame viveva in un luogo isolato, Paluverston North, lontano dalla gente. Lei, come Mina Minim, la giovane Formica di Casa della deliziosa favola scritta per i ragazzi, aveva seguito i consigli della Grande Regina: «Dovete uscire, piccole formiche, e vedere e annusare e provare e toccare da sole, e allora saprete». Finalmente poteva riposarsi.
l'Unità 31.1.04
Janet Frame, un angelo della diversità
È morta a 80 anni la scrittrice neozelandese resa celebre dal film di Jane Campion
In tre volumi autobiografici ha raccontato l'odissea in manicomio con la diagnosi sbagliata di schizofrenia
di Maria Serena Palieri
AIle soglie degli ottant'anni - ottant'anni vissuti con singolari sofferenze e singolare intensitá - è morta ieri di leucemia mieloide a Dunedin, sua città natale nell'Isola del Sud della Nuova Zelanda, Janet Frame: è la scrittrice che Jane Campion, con una magica accoppiata di talentí femmínili, il proprio di cineasta e il suo di narratrice, portò nel 1990 a fama planetaria con la trasposizione cinematografica, dell'autobiografia, Un angelo alla mía tavola,- pluripremiata ai festival di Venezia, e Toronto di quell'anno. Nei tre volumi autobiografici, pubblicati tra íl 1982 e il 1985 (To the IsIand, An Angel at my table, da. cui. il titolo del film, The Envoy from Mirror City), l'umbratile e tenacissima Frame raccontava una vicenda che la consegnava alla famiglia degli artisti - Campana e Sylvia Plath, Hölderlin e Pound per intenderci - «baciati» dalla malattia mentale: scrittori la cui opera riverbera il tormentato viaggio in universi psichicí ignoti ai «saní» ma che, anche, corrono il rischio di diventare oggetto di culto più per la loro vita che per la loro opera Janet Paterson Frame, infatti, era nata a Dunedin nel 1924 da una famiglia di origine fiammingo-scozzese, cinque figli e un padre ingegnere ferroviario caduto in rovina; cresciuta a Oamaru. (là «Waimaru» deì suoi romanzi), aveva sofferto per una serie di tragedie familiari: l'epilessia del fratello maschio, la morte, in due incidenti diversi, nel 1934 e 1947, di due sorelle; e fu nel '47, dopo che la sorella Isabel annegò e dopo aver tentato il suicidio, che ebbe inizio la sua odissea psichiatrica: anni passati in manicomio, con la diagnosi di schizofrenia, sottoposta a centinaia di elettroshock, soggetta all'umiliazione, e alla níentificazione che raccontò poi in Dentro il muro (primo dei suoi titoli tradotti in italiano, da Interno Giallo nel '92), finché fu una raccolta di racconti a salvarla dal capitolo finale, l'operazione di lobotomia («non rimpiangerà mai di averla fatta», ha scritto, le disse il medico). Con The Lagoon, nel 1951, vinse infatti lo Hubert Chur Memorial Award e ottenne di mantenere intero il proprio cervello.
Sarà uno psichiatra britannico, qualche anno dopo, a certificarle che ín realtà, non era mai stata schízofreníca: secondo la sua diagnosi quella paziente era semplicemente una donna che preferiva la solitudine e che era diversa dagli altri. Uscita dal calvario psichiatrico, diventata scrittrice a tutti gli effettì, Janet Frame visse poi a Ibiza, Andorra, Londra e New York, per tornare più tardi in Nuova Zelanda.
Considerata la più grande scrittrice di quella terra dopo l'anglicizzata Katharine Mansfield a più riprese candidata al Nobel tradotta in sedici lingue, Frame ci ha lasciato quindici romanzi, cinque raccolte di racconti, tre collezioni di poesie, l'autobiografia e svariati libri per bambini (in italiano, dopo il successo del film di Jane Campion, l'hanno tradotta oltre a Interno Giallo, Einaudi, Guanda, Tea, Tropea, Fazi e Mondadori).
Molte delle sue opere crescono intorno al binomio salute-pazzia, ma non tutte: Intensive Care, del 1972, è per esempio un romanzo anti-utopico, ambientato in una Terra dove i supertecnocrati hanno scatenato la Terza guerra mondiale. Pure, la potenza della sua sperimentazione narrativa risiede nell'usare la schizofrenia come inedita chiave di lettura della realtà: un tema centrale, nella sua opera, è la paura che il «sano» ha del «matto».
Mentre la dimensione allucinatoria diventa un grimaldello per forzare il linguaggio oltre le catene del banale e del necessario.
In prima persona, Frame considerava che la miglior cosa che avesse scritto fosse una favola il cui titolo in italiano suona Uccello, Aquila, Spírito: dove l'uccello (l'immaginazione e l'ispirazione) viene mangiato dall'aquila (il materialismo) e questa dallo spirito malevolo (l'immaginazione repressa e. l'individualismo). Altri hanno visto nella sua opera riflesse in infinite forme le parole Tempesta, Mare, Isola, Esilio, Magia, Ritorno: sono i codici di Prospero nella Tempesta shakespeariana.
Chiudiamo con dei suoi versi che ben raccontano cosa significa essere «diversa» dagli altri ed essere per questo considerata pazza. Scrive, in Vivere nel Maniototo (Interno Giallo 1992),
«D'ora in ora più selvatica. Lo so.
Da tanti anni divorata,
tagliata, ritagliata, i rami costretti a destra e a manca,
mi slanciai fiorendo minuti fiori bianchi
sopra gli steccati fisso in viso le persone
Mi guardano le api, mi ha preso in manto il vento.
Forte e aspro è il mio gusto, rigogliose le mie fronde.
Si acciglia la gente, se vede che metto ancora una radice»
immagini che vengono da ottomila anni fa
una segnalazione di Filippo Trojano
Repubblica 30.1.04
L'INTERVISTA
A Latmos, sui versanti della montagna, ne sono state contate 140 per un totale di oltre 500 figure: una mostra fotografica da oggi a Lecce
Ecco il primo ritratto di famiglia è vecchio di ottomila anni
La scoperta in Turchia: immagini di uomini, donne, bambini
L'uomo diventa sedentario e getta le basi per il suo nucleo di discendenza
I dipinti sono stati fatti con ematite rossa sui massi del monte: forse luoghi sacri
di CINZIA DAL MASO
ROMA - Sono i primi ritratti di famiglia, i primi al mondo. Segnano il momento in cui l´uomo, diventato agricoltore e sedentario, crea la famiglia, il senso di discendenza e di ereditarietà, la società modernamente intesa. E la rappresenta. È una scoperta davvero eccezionale. Immagini di uomini e donne affrontati o abbracciati, gruppi di tre o più persone sempre abbracciati o accostati o in cerchio. A volte sono figure piccole e grandi assieme che paiono l´intera famiglia riunita, nonni genitori e figli pronti per il ciak. A "scattarlo" circa sette-ottomila anni fa è stato un abilissimo pittore che, munito di abbondante ematite rossa, l´ha fissato per sempre su massi e ripari del monte Latmos nella Turchia occidentale. Abile davvero nel ritrarre uomini longilinei ma con solide gambe e la testa a zig-zag o a forma di "t", e donne di profilo per evidenziare le natiche abnormi ma così leggere che paiono danzare. Sono figure bellissime, eleganti nella loro essenzialità.
Le ha scoperte e indagate Anneliese Peshlow dell´Istituto archeologico germanico di Berlino in anni di paziente ricognizione su ogni versante della montagna. Finora ha contato in tutto 140 pitture per un totale di oltre 500 figure rappresentate. E ha finalmente deciso di farle conoscere al mondo con una mostra fotografica che dalla Germania è scesa in Italia e oggi si inaugura al Convento dei Teatini di Lecce. Inaugurazione seguita il giorno dopo da una tavola rotonda che vedrà convergere a Lecce il fior fiore dell´intellighenzia mondiale in fatto di Neolitico. Tutti ad ascoltare la Peshlow, il suo racconto. Perché finora pareva che l´arte dell´uomo neolitico si limitasse a qualche statuina in pietra o argilla o poco più. Finora c´erano solo le stanze-tempio di Catalhöyük (in Turchia centrale) e le pitture della grotta di Porto Badisco (sulla costa adriatica, proprio vicino Lecce) a dire che i primi agricoltori non tenevano solo il capo chino sulla terra ma sapevano anche produrre grande arte. Parevano isolate eccezioni. Poi, qualche anno fa, d´improvviso, in Turchia sud-orientale (area-chiave per le origini del Neolitico) sono spuntate le enormi teste d´uomo in pietra di Nevali Cori, e gli svettanti pilastri di Göbekli Tepe con grandi rilievi di uomini e animali. E ora giunge la sorprendente scoperta del Latmos. Tutte in un´asse che va dalla Turchia al Salento. Solo lì, almeno per ora. Ancora pochi e per noi ancora enigmatici. Ma sufficienti per dirci che il Neolitico non è stata solo una rivoluzione tecnologica e sociale, il momento in cui l´uomo ha cominciato a dominare la natura e a riunirsi in villaggi. Col Neolitico è nato anche il concetto moderno di arte. Per questo Isabella Caneva dell´Università di Lecce ha voluto riunire (nell´ambito della Scuola di specializzazione in archeologia) tutti i suoi colleghi. Per andare a fondo, capire bene la portata rivoluzionaria dell´arte neolitica, la sua importanza anche per noi moderni. «Prima, nelle caverne paleolitiche, l´uomo dipingeva il mondo esterno di cui aveva timore, feroci animali braccati da intrepidi e solitari cacciatori», spiega Caneva. «Col Neolitico dipinge se stesso, il proprio mondo. Perché è lui al centro del mondo. Anche gli animali di Göbekli Tepe sono in realtà animali domestici dal significato simbolico. A Catalhöyük è la casa tutta, decorata con pitture ed enormi rilievi, ad assurgere a simbolo della nuova società. Col Neolitico nasce un nuovo modo di pensare, "moderno", che si riflette nell´arte. Nasce il ruolo sociale dell´arte». Delle sue forme, simboli e significati, si dibatterà domani a Lecce.
Anneliese Peshlow è l'archeologa tedesca che ha trovato le pitture
"Che sorpresa, quelle donne formose"
"Ero lì per trovare tracce greche e romane, invece ho trovato utensili e visto disegni geometrici"
ROMA - «Cercavo l´età classica e ho trovato la preistoria». Anneliese Peshlow dell´Istituto archeologico germanico di Berlino racconta come la sua scoperta sia stata frutto del caso. «Il monte si trova alle spalle della grande Mileto e incombe su Eraclea Latmia. Era logico pensare di trovarvi testimonianze greche o romane».
Perché è anche un luogo del mito.
«Per i Greci era il territorio di caccia del giovane Endimione. Di lui si innamorò la dea della luna Selene che chiese a Zeus di renderlo immortale. I Greci dicevano che ogni notte la luna scendeva sul Latmos per unirsi al suo amato».
Quali?
«In epoca bizantina, in periodi di siccità, si facevano processioni fin sulla vetta del monte per implorare la pioggia. Ma io credo che questo culto sia più antico. È probabile che la sua cima fosse la sede del Dio della Tempesta, divinità principe per le genti anatoliche. E le pitture dimostrano che la sacralità del monte risale alla più remota antichità».
C´è connessione tra le pitture neolitiche e l´acqua?
«Il pittore preistorico ha scelto luoghi singolari: grandi massi disposti in modo da formare un´area chiusa. Secondo me erano luoghi sacri. E la maggior parte è vicino a corsi d´acqua o sorgenti».
Come ha potuto datare le pitture?
«L´anno scorso ho indagato due siti e vi ho trovato utensili in pietra e ceramiche che rimandano all´epoca neolitica. Molti dei motivi geometrici che contornano le figure dipinte e decorano le natiche delle donne sono molto simili a quelli dipinti sulle giare di Hacilar, insediamento neolitico a est del Latmos. A settembre cominceranno gli scavi sul monte, grazie agli archeologi del Museo Pigorini di Roma». (c.d.m.)
Repubblica 30.1.04
L'INTERVISTA
A Latmos, sui versanti della montagna, ne sono state contate 140 per un totale di oltre 500 figure: una mostra fotografica da oggi a Lecce
Ecco il primo ritratto di famiglia è vecchio di ottomila anni
La scoperta in Turchia: immagini di uomini, donne, bambini
L'uomo diventa sedentario e getta le basi per il suo nucleo di discendenza
I dipinti sono stati fatti con ematite rossa sui massi del monte: forse luoghi sacri
di CINZIA DAL MASO
ROMA - Sono i primi ritratti di famiglia, i primi al mondo. Segnano il momento in cui l´uomo, diventato agricoltore e sedentario, crea la famiglia, il senso di discendenza e di ereditarietà, la società modernamente intesa. E la rappresenta. È una scoperta davvero eccezionale. Immagini di uomini e donne affrontati o abbracciati, gruppi di tre o più persone sempre abbracciati o accostati o in cerchio. A volte sono figure piccole e grandi assieme che paiono l´intera famiglia riunita, nonni genitori e figli pronti per il ciak. A "scattarlo" circa sette-ottomila anni fa è stato un abilissimo pittore che, munito di abbondante ematite rossa, l´ha fissato per sempre su massi e ripari del monte Latmos nella Turchia occidentale. Abile davvero nel ritrarre uomini longilinei ma con solide gambe e la testa a zig-zag o a forma di "t", e donne di profilo per evidenziare le natiche abnormi ma così leggere che paiono danzare. Sono figure bellissime, eleganti nella loro essenzialità.
Le ha scoperte e indagate Anneliese Peshlow dell´Istituto archeologico germanico di Berlino in anni di paziente ricognizione su ogni versante della montagna. Finora ha contato in tutto 140 pitture per un totale di oltre 500 figure rappresentate. E ha finalmente deciso di farle conoscere al mondo con una mostra fotografica che dalla Germania è scesa in Italia e oggi si inaugura al Convento dei Teatini di Lecce. Inaugurazione seguita il giorno dopo da una tavola rotonda che vedrà convergere a Lecce il fior fiore dell´intellighenzia mondiale in fatto di Neolitico. Tutti ad ascoltare la Peshlow, il suo racconto. Perché finora pareva che l´arte dell´uomo neolitico si limitasse a qualche statuina in pietra o argilla o poco più. Finora c´erano solo le stanze-tempio di Catalhöyük (in Turchia centrale) e le pitture della grotta di Porto Badisco (sulla costa adriatica, proprio vicino Lecce) a dire che i primi agricoltori non tenevano solo il capo chino sulla terra ma sapevano anche produrre grande arte. Parevano isolate eccezioni. Poi, qualche anno fa, d´improvviso, in Turchia sud-orientale (area-chiave per le origini del Neolitico) sono spuntate le enormi teste d´uomo in pietra di Nevali Cori, e gli svettanti pilastri di Göbekli Tepe con grandi rilievi di uomini e animali. E ora giunge la sorprendente scoperta del Latmos. Tutte in un´asse che va dalla Turchia al Salento. Solo lì, almeno per ora. Ancora pochi e per noi ancora enigmatici. Ma sufficienti per dirci che il Neolitico non è stata solo una rivoluzione tecnologica e sociale, il momento in cui l´uomo ha cominciato a dominare la natura e a riunirsi in villaggi. Col Neolitico è nato anche il concetto moderno di arte. Per questo Isabella Caneva dell´Università di Lecce ha voluto riunire (nell´ambito della Scuola di specializzazione in archeologia) tutti i suoi colleghi. Per andare a fondo, capire bene la portata rivoluzionaria dell´arte neolitica, la sua importanza anche per noi moderni. «Prima, nelle caverne paleolitiche, l´uomo dipingeva il mondo esterno di cui aveva timore, feroci animali braccati da intrepidi e solitari cacciatori», spiega Caneva. «Col Neolitico dipinge se stesso, il proprio mondo. Perché è lui al centro del mondo. Anche gli animali di Göbekli Tepe sono in realtà animali domestici dal significato simbolico. A Catalhöyük è la casa tutta, decorata con pitture ed enormi rilievi, ad assurgere a simbolo della nuova società. Col Neolitico nasce un nuovo modo di pensare, "moderno", che si riflette nell´arte. Nasce il ruolo sociale dell´arte». Delle sue forme, simboli e significati, si dibatterà domani a Lecce.
Anneliese Peshlow è l'archeologa tedesca che ha trovato le pitture
"Che sorpresa, quelle donne formose"
"Ero lì per trovare tracce greche e romane, invece ho trovato utensili e visto disegni geometrici"
ROMA - «Cercavo l´età classica e ho trovato la preistoria». Anneliese Peshlow dell´Istituto archeologico germanico di Berlino racconta come la sua scoperta sia stata frutto del caso. «Il monte si trova alle spalle della grande Mileto e incombe su Eraclea Latmia. Era logico pensare di trovarvi testimonianze greche o romane».
Perché è anche un luogo del mito.
«Per i Greci era il territorio di caccia del giovane Endimione. Di lui si innamorò la dea della luna Selene che chiese a Zeus di renderlo immortale. I Greci dicevano che ogni notte la luna scendeva sul Latmos per unirsi al suo amato».
Quali?
«In epoca bizantina, in periodi di siccità, si facevano processioni fin sulla vetta del monte per implorare la pioggia. Ma io credo che questo culto sia più antico. È probabile che la sua cima fosse la sede del Dio della Tempesta, divinità principe per le genti anatoliche. E le pitture dimostrano che la sacralità del monte risale alla più remota antichità».
C´è connessione tra le pitture neolitiche e l´acqua?
«Il pittore preistorico ha scelto luoghi singolari: grandi massi disposti in modo da formare un´area chiusa. Secondo me erano luoghi sacri. E la maggior parte è vicino a corsi d´acqua o sorgenti».
Come ha potuto datare le pitture?
«L´anno scorso ho indagato due siti e vi ho trovato utensili in pietra e ceramiche che rimandano all´epoca neolitica. Molti dei motivi geometrici che contornano le figure dipinte e decorano le natiche delle donne sono molto simili a quelli dipinti sulle giare di Hacilar, insediamento neolitico a est del Latmos. A settembre cominceranno gli scavi sul monte, grazie agli archeologi del Museo Pigorini di Roma». (c.d.m.)
Immanuel Kant e Benjamin Constant
con l'aggiunta di Sant'Agostino e di Jenkélévitch
Corriere della Sera 30.1.04
«Siate sempre sinceri». Ma Constant non era d’accordo con lui
Con il titolo Le droit de mentir, il diritto di mentire, un editore francese di libri tascabili, Mille e une nuits, pubblica per due euro i testi di una bizzarra controversia. Ne furono protagonisti Immanuel Kant e Benjamin Constant. Non si tratta di una scoperta (quei testi esistono anche in traduzione italiana, editi da Bruno Mondadori), ma è un’occasione. L’occasione di toccare un tema - quello della menzogna, e dei suoi rapporti con la vita pubblica, la politica, la società - che nessuno, suppongo, sarebbe così ardito da definire inattuale. Basti pensare all’avvenimento saliente dell’anno appena terminato - la guerra in Iraq -, e al corteggio di bugie che ne hanno accompagnato la preparazione e lo svolgimento. Ho detto che quella controversia fu bizzarra; intendevo dire che tale appare a noi, convinti come siamo che una società in cui tutti dicano la verità, o almeno quella che in buonafede credono essere la verità, sia la più improbabile delle utopie. Ma non era un’utopia per Kant. Il suo sistema morale si reggeva tutto, com’è noto, su un principio di veridicità assoluta; e senza quel principio, che non tollerava eccezioni, gli sembrava che una società, con la sua fittissima rete di impegni reciproci, non avrebbe potuto sussistere. Su questa strada era disposto a giungere alle conseguenze più estreme, come dimostra l’esempio che innescò la polemica con Benjamin Constant.
Mettiamo, disse Kant, che un uomo sia perseguitato da un nemico intenzionato a ucciderlo; che quell’uomo vi chieda di nasconderlo nella vostra casa; che voi lo nascondiate; che il suo persecutore bussi alla porta e pretenda di sapere se l’uomo che cerca abbia trovato rifugio da voi; ebbene, secondo Kant, anche in un caso del genere il principio di veridicità obbliga il protettore dello sfortunato fuggiasco a dire la verità. Incredibilmente, il dovere vi impone di rispondere: «Sì». Molto tempo prima, un altro fiero difensore della Verità, sant’Agostino, aveva, nell’opuscolo Contro la menzogna, prospettato la stessa ipotesi; e anche lui era giunto alla conclusione che neppure in un caso del genere la menzogna era lecita.
Tuttavia Agostino aveva lasciato una coraggiosa alternativa alla delazione: si poteva non rispondere. Così si era comportato un vescovo di Tagaste di nome Fermo, «che nella volontà fu ancora più fermo. Egli aveva nascosto con massima solerzia un uomo che si era rifugiato presso di lui. Interrogato per ordine dell’Imperatore, che aveva spedito delle guardie a prelevare quell’uomo, rispose che non poteva né mentire, né rivelare il nascondiglio del ricercato, e sopportando molti tormenti corporali (a quel tempo gli imperatori non erano cristiani) restò saldo nella sua decisione. Quando più tardi fu tradotto in presenza dell’Imperatore, si mostrò di una virtù così ammirevole da ottenere senza difficoltà la grazia per l’uomo che aveva tenuto presso di sé». Più radicale, Kant non lascia vie di scampo: a una domanda precisa bisogna rispondere in maniera precisa e veritiera, in modo che nessun grumo di opacità contamini una società che si mantiene virtuosamente trasparente, anche se vi accadono cose atroci.
Tra Agostino e Kant, c’è da credere che molti altri, più oscuri, si siano misurati con un «caso di coscienza» che non ci intriga più. «Caso chiuso», si potrebbe dire: non credo che oggi esista qualcuno che pregi la veridicità al punto da condividere la raccomandazione kantiana. Un filosofo del XX secolo, Vladimir Jenkélévitch, ha scritto: «Mentire ai poliziotti della Gestapo che ci chiedono se nascondiamo presso di noi un partigiano, non è mentire...; data la situazione, è un sacro dovere rispondere: qui non c’è nessuno, anche se qualcuno c’è». Queste parole costituiscono per noi una sorta di sigillo della questione. Sigillo liquidatorio, sullo sfondo un’esperienza storica atroce: quella del nazismo.
Più articolate, più sfumate, le obiezioni di Benjamin Constant, formulate alla luce di un’altra esperienza terribile: quella della Rivoluzione francese e dei suoi sviluppi. Il suo saggio, che avrebbe provocato almeno due risposte di Kant, è del 1797. «Preso in maniera assoluta e isolata», scrive Constant, «il principio morale che obbliga a dire la verità renderebbe impossibile ogni vita sociale». Secondo Constant, tutti i principi, anche i più sacrosanti, se spogliati di quei criteri che li rendono applicabili caso per caso, provocano «distruzione e sconvolgimento»; e il principio di veridicità non fa eccezione. «Dire la verità è un dovere», afferma Constant, per precisare subito dopo: «Ma che cos’è un dovere? L’idea di dovere è inseparabile da quella dei diritti: un dovere è ciò che, in un essere, corrisponde ai diritti di un altro. Dove non ci sono diritti, non ci sono doveri. Dunque dire la verità è un dovere solo verso quelli che hanno diritto alla verità. Ma non ha diritto alla verità chi nuoce agli altri».
«Avere diritto alla verità»: questa formula di Constant, che non aveva senso nel sistema kantiano (e infatti Kant se ne sbarazzò con poche frasi taglienti), è preziosa e memorabile per noi, che viviamo in un mondo in cui il principio di veridicità viene preso sempre più alla leggera. Esistono rapporti che sarebbero vuoti e incomprensibili se al loro interno non vigessero, come elementi specifici, dei «diritti alla verità» - e dunque degli obblighi alla veridicità: per esempio, il rapporto tra elettori ed eletti, o quello tra il sistema dei media e i suoi utenti. Secondo un luogo comune, certo non scevro di qualche fondamento, i cittadini di certe democrazie - in primo luogo gli Stati Uniti - sarebbero più severi verso le bugie dei loro rappresentanti di quanto non lo siamo noi europei, inclini, sin dai tempi di Odisseo, ad ammirare la versatilità e la prontezza di chi pratica con successo la menzogna; ma la cronaca di questi anni ci spinge a dubitarne. L’impressione è che si menta sempre di più, e in maniera più sfrontata, da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
In questa situazione la formula di Constant merita di essere ripetuta, di entrare a far parte del nostro linguaggio. Come elettori, come utenti dei media, insomma come cittadini, noi abbiamo «diritto alla verità» (ma sarebbe più esatto dire: «diritto alla veridicità», cioè a una comunicazione senza doppiezze). Questa rivendicazione non può che essere parte integrante della nostra idea di democrazia. Anche se poi non è il caso di farsi molte illusioni: non basta certo una formula per arginare una menzogna che non è più il semplice e simmetrico rovescio della realtà, come immaginavano i moralisti classici e come continuano a immaginare gli appassionati di logica nei loro rompicapo, ma un flusso pervasivo, un ibrido di vero e di falso che, ancora prima di distruggere la verità, ne distrugge lo stile.
«Siate sempre sinceri». Ma Constant non era d’accordo con lui
Con il titolo Le droit de mentir, il diritto di mentire, un editore francese di libri tascabili, Mille e une nuits, pubblica per due euro i testi di una bizzarra controversia. Ne furono protagonisti Immanuel Kant e Benjamin Constant. Non si tratta di una scoperta (quei testi esistono anche in traduzione italiana, editi da Bruno Mondadori), ma è un’occasione. L’occasione di toccare un tema - quello della menzogna, e dei suoi rapporti con la vita pubblica, la politica, la società - che nessuno, suppongo, sarebbe così ardito da definire inattuale. Basti pensare all’avvenimento saliente dell’anno appena terminato - la guerra in Iraq -, e al corteggio di bugie che ne hanno accompagnato la preparazione e lo svolgimento. Ho detto che quella controversia fu bizzarra; intendevo dire che tale appare a noi, convinti come siamo che una società in cui tutti dicano la verità, o almeno quella che in buonafede credono essere la verità, sia la più improbabile delle utopie. Ma non era un’utopia per Kant. Il suo sistema morale si reggeva tutto, com’è noto, su un principio di veridicità assoluta; e senza quel principio, che non tollerava eccezioni, gli sembrava che una società, con la sua fittissima rete di impegni reciproci, non avrebbe potuto sussistere. Su questa strada era disposto a giungere alle conseguenze più estreme, come dimostra l’esempio che innescò la polemica con Benjamin Constant.
Mettiamo, disse Kant, che un uomo sia perseguitato da un nemico intenzionato a ucciderlo; che quell’uomo vi chieda di nasconderlo nella vostra casa; che voi lo nascondiate; che il suo persecutore bussi alla porta e pretenda di sapere se l’uomo che cerca abbia trovato rifugio da voi; ebbene, secondo Kant, anche in un caso del genere il principio di veridicità obbliga il protettore dello sfortunato fuggiasco a dire la verità. Incredibilmente, il dovere vi impone di rispondere: «Sì». Molto tempo prima, un altro fiero difensore della Verità, sant’Agostino, aveva, nell’opuscolo Contro la menzogna, prospettato la stessa ipotesi; e anche lui era giunto alla conclusione che neppure in un caso del genere la menzogna era lecita.
Tuttavia Agostino aveva lasciato una coraggiosa alternativa alla delazione: si poteva non rispondere. Così si era comportato un vescovo di Tagaste di nome Fermo, «che nella volontà fu ancora più fermo. Egli aveva nascosto con massima solerzia un uomo che si era rifugiato presso di lui. Interrogato per ordine dell’Imperatore, che aveva spedito delle guardie a prelevare quell’uomo, rispose che non poteva né mentire, né rivelare il nascondiglio del ricercato, e sopportando molti tormenti corporali (a quel tempo gli imperatori non erano cristiani) restò saldo nella sua decisione. Quando più tardi fu tradotto in presenza dell’Imperatore, si mostrò di una virtù così ammirevole da ottenere senza difficoltà la grazia per l’uomo che aveva tenuto presso di sé». Più radicale, Kant non lascia vie di scampo: a una domanda precisa bisogna rispondere in maniera precisa e veritiera, in modo che nessun grumo di opacità contamini una società che si mantiene virtuosamente trasparente, anche se vi accadono cose atroci.
Tra Agostino e Kant, c’è da credere che molti altri, più oscuri, si siano misurati con un «caso di coscienza» che non ci intriga più. «Caso chiuso», si potrebbe dire: non credo che oggi esista qualcuno che pregi la veridicità al punto da condividere la raccomandazione kantiana. Un filosofo del XX secolo, Vladimir Jenkélévitch, ha scritto: «Mentire ai poliziotti della Gestapo che ci chiedono se nascondiamo presso di noi un partigiano, non è mentire...; data la situazione, è un sacro dovere rispondere: qui non c’è nessuno, anche se qualcuno c’è». Queste parole costituiscono per noi una sorta di sigillo della questione. Sigillo liquidatorio, sullo sfondo un’esperienza storica atroce: quella del nazismo.
Più articolate, più sfumate, le obiezioni di Benjamin Constant, formulate alla luce di un’altra esperienza terribile: quella della Rivoluzione francese e dei suoi sviluppi. Il suo saggio, che avrebbe provocato almeno due risposte di Kant, è del 1797. «Preso in maniera assoluta e isolata», scrive Constant, «il principio morale che obbliga a dire la verità renderebbe impossibile ogni vita sociale». Secondo Constant, tutti i principi, anche i più sacrosanti, se spogliati di quei criteri che li rendono applicabili caso per caso, provocano «distruzione e sconvolgimento»; e il principio di veridicità non fa eccezione. «Dire la verità è un dovere», afferma Constant, per precisare subito dopo: «Ma che cos’è un dovere? L’idea di dovere è inseparabile da quella dei diritti: un dovere è ciò che, in un essere, corrisponde ai diritti di un altro. Dove non ci sono diritti, non ci sono doveri. Dunque dire la verità è un dovere solo verso quelli che hanno diritto alla verità. Ma non ha diritto alla verità chi nuoce agli altri».
«Avere diritto alla verità»: questa formula di Constant, che non aveva senso nel sistema kantiano (e infatti Kant se ne sbarazzò con poche frasi taglienti), è preziosa e memorabile per noi, che viviamo in un mondo in cui il principio di veridicità viene preso sempre più alla leggera. Esistono rapporti che sarebbero vuoti e incomprensibili se al loro interno non vigessero, come elementi specifici, dei «diritti alla verità» - e dunque degli obblighi alla veridicità: per esempio, il rapporto tra elettori ed eletti, o quello tra il sistema dei media e i suoi utenti. Secondo un luogo comune, certo non scevro di qualche fondamento, i cittadini di certe democrazie - in primo luogo gli Stati Uniti - sarebbero più severi verso le bugie dei loro rappresentanti di quanto non lo siamo noi europei, inclini, sin dai tempi di Odisseo, ad ammirare la versatilità e la prontezza di chi pratica con successo la menzogna; ma la cronaca di questi anni ci spinge a dubitarne. L’impressione è che si menta sempre di più, e in maniera più sfrontata, da una parte e dall’altra dell’Atlantico.
In questa situazione la formula di Constant merita di essere ripetuta, di entrare a far parte del nostro linguaggio. Come elettori, come utenti dei media, insomma come cittadini, noi abbiamo «diritto alla verità» (ma sarebbe più esatto dire: «diritto alla veridicità», cioè a una comunicazione senza doppiezze). Questa rivendicazione non può che essere parte integrante della nostra idea di democrazia. Anche se poi non è il caso di farsi molte illusioni: non basta certo una formula per arginare una menzogna che non è più il semplice e simmetrico rovescio della realtà, come immaginavano i moralisti classici e come continuano a immaginare gli appassionati di logica nei loro rompicapo, ma un flusso pervasivo, un ibrido di vero e di falso che, ancora prima di distruggere la verità, ne distrugge lo stile.
alcune notizie da "Le Scienze"
edizione italiana dello "Scientific American"
29.01.2004
Ossigeno ed evoluzione della vita
Metodi di datazione molecolari descrivono l'evoluzione eucariotica
Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista "BMC Evolutionary Biology", l'ossigeno ha svolto un ruolo chiave nell'evoluzione degli organismi complessi. Lo studio mostra infatti che la complessità delle forme di vita è aumentata prima di quanto si pensasse, e in parallelo con la disponibilità di ossigeno come fonte di energia.
In quello che è lo studio finora più vasto non dedicato esclusivamente ai vertebrati, i ricercatori della Pennsylvania State University hanno usato metodi di datazione molecolare per creare una nuova linea temporale dell'evoluzione eucariotica. Aggiungendo informazioni sul numero di differenti tipi di cellule possedute da ciascun gruppo di organismi, i ricercatori hanno ricostruito come la complessità della vita è aumentata nel corso del tempo. Lo studio mostra che gli organismi contenenti tipi di cellula più diversificati si sono evoluti in seguito ad aumenti dell'ossigeno atmosferico.
"Per costruire un organismo multicellulare complesso, con tutte le comunicazioni e le segnalazioni fra le cellule che richiede, - spiega Blair Hedges, che ha condotto la ricerca - c'è bisogno di energia. In assenza di ossigeno o di mitocondri, gli organismi complessi non sarebbero stati in grado di svilupparsi". Lo studio ha rivelato infatti che gli organismi contenenti più di due o tre diversi tipi di cellula sono apparsi solo quando l'ambiente di superficie divenne ossigenato, circa 2.300 milioni di anni fa. Proprio a quell'epoca le cellule divennero in grado di estrarre l'energia dall'ossigeno grazie alla comparsa dei mitocondri.
27.01.2004
L'estrogeno rende vulnerabili allo stress
La scoperta spiegherebbe la maggior propensione delle donne alla depressione
Secondo uno studio di ricercatori dell'Università di Yale, livelli di estrogeno elevati possono aumentare la risposta del cervello allo stress, rendendo le donne più vulnerabili a malattie mentali come la depressione e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Secondo la neurologa Becca Shansky, la scoperta potrebbe spiegare come mai nelle donne le malattie legate allo stress si verificano due volte più spesso che negli uomini. Inoltre chiarirebbe perché questa discrepanza comincia a comparire dalla pubertà, prosegue durante l'età fertile e declina poi dopo la menopausa. Lo studio verrà pubblicato sul numero di marzo della rivista "Molecular Psychiatry"
I ricercatori hanno esposto topi maschi e femmine a differenti livelli di stress, e li hanno poi sottoposti a un esercizio di memoria a breve termine. Gli scienziati hanno scoperto che, in assenza di stress, i maschi e le femmine ottenevano gli stessi risultati. Dopo l'esposizione a elevati livelli di stress, entrambi commettevano significativi errori di memoria. Tuttavia, con un livello di stress moderato, le femmine risultavano danneggiate e i maschi no, il che suggerisce che le femmine sono più sensibili agli effetti dello stress. Questo si verificava solo quando le femmine si trovavano in una fase di alto estrogeno. Successivi esperimenti con placebo hanno confermato che l'ormone aumenta la risposta del cervello allo stress.
27.01.2004
Dormiamoci sopra
Una notte di riposo può aiutare a risolvere un enigma
Alcuni esperimenti effettuati da ricercatori tedeschi mostrano che un problema difficile può effettivamente essere risolto "dormendoci sopra". Gli scienziati sostengono infatti che, mentre dormiamo, il nostro cervello manipola i dati in modo da presentarci una soluzione al momento del risveglio: in poche parole, il sonno migliora il cosiddetto "pensiero laterale".
Molte prove aneddotiche da tempo suggeriscono che una notte di riposo può portare chiarezza di fronte a un enigma complesso. Per esempio, il chimico russo Dmitri Mendeleyev progettò la sua tavola periodica degli elementi in seguito a un momento di "illuminazione" notturna. "Disse di aver avuto un sogno - spiega Ullrich Wagner dell'Università di Lubecca, in Germania - nel quale tutti gli elementi andavano a collocarsi nelle giuste posizioni".
Negli esperimenti condotti da Wagner e colleghi, alcuni volontari si sono confrontati con dei problemi di aritmetica e si sono poi sottoposti a un intervallo di otto ore. Coloro che in questo intervallo hanno dormito, erano poi più propensi (con una probabilità doppia) a scoprire che esisteva una regola nascosta che consentiva sostanzialmente di semplificare i calcoli.
"Riteniamo - spiega Wagner - che il sonno agisca sugli schemi creati durante l'addestramento, ristrutturandoli e fornendo nuovi indizi". Secondo lo scienziato, i dati vengono vagliati nell'ippocampo e nella corteccia prefrontale, aree del cervello che immagazzinano e analizzano i ricordi.
U. Wagner, S. Gais, H. Haider, R. Verleger, J. Born, Sleep inspires insight. Nature, 427, 352 - 355, doi:10.1038/nature02223 (2004).
27.01.2004
Un modello per le migrazioni umane
Lo studio del cromosoma Y consente di descrivere il cammino dei nostri antenati
I primi esseri umani che migravano dall'Africa verso gli altri continenti portavano con sé piccole differenze genetiche. Gli studi odierni possono fornire soltanto una fotografia dell'attuale situazione del nostro corredo genetico, senza rivelare le ondate che hanno condotto alla situazione corrente. Ora alcuni ricercatori alla Scuola di Medicina dell'Università di Stanford hanno sviluppato un modello per individuare i luoghi dove le mutazioni sono inizialmente apparse, fornendo così un nuovo metodo per individuare il cammino migratorio dei nostri antenati.
Lo studio è stato condotto dal celebre genetista Luca Cavalli-Sforza, esperto dell'evoluzione degli esseri umani moderni. Gran parte del suo lavoro recente riguarda le mutazioni nel cromosoma Y, che vengono trasmesse esclusivamente da padre in figlio, negli ultimi 50.000 anni in cui gli uomini si sono diffusi dall'Africa nel resto del mondo.
Queste mutazioni, molte delle quali non provocano cambiamenti fisici, tendono a verificarsi con un tasso costante e rappresentano una sorta di orologio genetico. Per esempio, se una popolazione presenta dieci mutazioni dopo 50.000 anni di evoluzione dall'antenato comune in Africa, allora la quinta mutazione è probabilmente sorta 25.000 anni fa.
Con l'aiuto del programmatore Christopher Edmonds e della statistica Anita Lillie, Cavalli-Sforza ha costruito un modello al computer per simulare la diffusione delle mutazioni in una popolazione che migra. I risultati, pubblicati online sul sito della rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" (PNAS), permettono di determinare l'origine di una mutazione con buona precisione.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
Ossigeno ed evoluzione della vita
Metodi di datazione molecolari descrivono l'evoluzione eucariotica
Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista "BMC Evolutionary Biology", l'ossigeno ha svolto un ruolo chiave nell'evoluzione degli organismi complessi. Lo studio mostra infatti che la complessità delle forme di vita è aumentata prima di quanto si pensasse, e in parallelo con la disponibilità di ossigeno come fonte di energia.
In quello che è lo studio finora più vasto non dedicato esclusivamente ai vertebrati, i ricercatori della Pennsylvania State University hanno usato metodi di datazione molecolare per creare una nuova linea temporale dell'evoluzione eucariotica. Aggiungendo informazioni sul numero di differenti tipi di cellule possedute da ciascun gruppo di organismi, i ricercatori hanno ricostruito come la complessità della vita è aumentata nel corso del tempo. Lo studio mostra che gli organismi contenenti tipi di cellula più diversificati si sono evoluti in seguito ad aumenti dell'ossigeno atmosferico.
"Per costruire un organismo multicellulare complesso, con tutte le comunicazioni e le segnalazioni fra le cellule che richiede, - spiega Blair Hedges, che ha condotto la ricerca - c'è bisogno di energia. In assenza di ossigeno o di mitocondri, gli organismi complessi non sarebbero stati in grado di svilupparsi". Lo studio ha rivelato infatti che gli organismi contenenti più di due o tre diversi tipi di cellula sono apparsi solo quando l'ambiente di superficie divenne ossigenato, circa 2.300 milioni di anni fa. Proprio a quell'epoca le cellule divennero in grado di estrarre l'energia dall'ossigeno grazie alla comparsa dei mitocondri.
27.01.2004
L'estrogeno rende vulnerabili allo stress
La scoperta spiegherebbe la maggior propensione delle donne alla depressione
Secondo uno studio di ricercatori dell'Università di Yale, livelli di estrogeno elevati possono aumentare la risposta del cervello allo stress, rendendo le donne più vulnerabili a malattie mentali come la depressione e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). Secondo la neurologa Becca Shansky, la scoperta potrebbe spiegare come mai nelle donne le malattie legate allo stress si verificano due volte più spesso che negli uomini. Inoltre chiarirebbe perché questa discrepanza comincia a comparire dalla pubertà, prosegue durante l'età fertile e declina poi dopo la menopausa. Lo studio verrà pubblicato sul numero di marzo della rivista "Molecular Psychiatry"
I ricercatori hanno esposto topi maschi e femmine a differenti livelli di stress, e li hanno poi sottoposti a un esercizio di memoria a breve termine. Gli scienziati hanno scoperto che, in assenza di stress, i maschi e le femmine ottenevano gli stessi risultati. Dopo l'esposizione a elevati livelli di stress, entrambi commettevano significativi errori di memoria. Tuttavia, con un livello di stress moderato, le femmine risultavano danneggiate e i maschi no, il che suggerisce che le femmine sono più sensibili agli effetti dello stress. Questo si verificava solo quando le femmine si trovavano in una fase di alto estrogeno. Successivi esperimenti con placebo hanno confermato che l'ormone aumenta la risposta del cervello allo stress.
27.01.2004
Dormiamoci sopra
Una notte di riposo può aiutare a risolvere un enigma
Alcuni esperimenti effettuati da ricercatori tedeschi mostrano che un problema difficile può effettivamente essere risolto "dormendoci sopra". Gli scienziati sostengono infatti che, mentre dormiamo, il nostro cervello manipola i dati in modo da presentarci una soluzione al momento del risveglio: in poche parole, il sonno migliora il cosiddetto "pensiero laterale".
Molte prove aneddotiche da tempo suggeriscono che una notte di riposo può portare chiarezza di fronte a un enigma complesso. Per esempio, il chimico russo Dmitri Mendeleyev progettò la sua tavola periodica degli elementi in seguito a un momento di "illuminazione" notturna. "Disse di aver avuto un sogno - spiega Ullrich Wagner dell'Università di Lubecca, in Germania - nel quale tutti gli elementi andavano a collocarsi nelle giuste posizioni".
Negli esperimenti condotti da Wagner e colleghi, alcuni volontari si sono confrontati con dei problemi di aritmetica e si sono poi sottoposti a un intervallo di otto ore. Coloro che in questo intervallo hanno dormito, erano poi più propensi (con una probabilità doppia) a scoprire che esisteva una regola nascosta che consentiva sostanzialmente di semplificare i calcoli.
"Riteniamo - spiega Wagner - che il sonno agisca sugli schemi creati durante l'addestramento, ristrutturandoli e fornendo nuovi indizi". Secondo lo scienziato, i dati vengono vagliati nell'ippocampo e nella corteccia prefrontale, aree del cervello che immagazzinano e analizzano i ricordi.
U. Wagner, S. Gais, H. Haider, R. Verleger, J. Born, Sleep inspires insight. Nature, 427, 352 - 355, doi:10.1038/nature02223 (2004).
27.01.2004
Un modello per le migrazioni umane
Lo studio del cromosoma Y consente di descrivere il cammino dei nostri antenati
I primi esseri umani che migravano dall'Africa verso gli altri continenti portavano con sé piccole differenze genetiche. Gli studi odierni possono fornire soltanto una fotografia dell'attuale situazione del nostro corredo genetico, senza rivelare le ondate che hanno condotto alla situazione corrente. Ora alcuni ricercatori alla Scuola di Medicina dell'Università di Stanford hanno sviluppato un modello per individuare i luoghi dove le mutazioni sono inizialmente apparse, fornendo così un nuovo metodo per individuare il cammino migratorio dei nostri antenati.
Lo studio è stato condotto dal celebre genetista Luca Cavalli-Sforza, esperto dell'evoluzione degli esseri umani moderni. Gran parte del suo lavoro recente riguarda le mutazioni nel cromosoma Y, che vengono trasmesse esclusivamente da padre in figlio, negli ultimi 50.000 anni in cui gli uomini si sono diffusi dall'Africa nel resto del mondo.
Queste mutazioni, molte delle quali non provocano cambiamenti fisici, tendono a verificarsi con un tasso costante e rappresentano una sorta di orologio genetico. Per esempio, se una popolazione presenta dieci mutazioni dopo 50.000 anni di evoluzione dall'antenato comune in Africa, allora la quinta mutazione è probabilmente sorta 25.000 anni fa.
Con l'aiuto del programmatore Christopher Edmonds e della statistica Anita Lillie, Cavalli-Sforza ha costruito un modello al computer per simulare la diffusione delle mutazioni in una popolazione che migra. I risultati, pubblicati online sul sito della rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" (PNAS), permettono di determinare l'origine di una mutazione con buona precisione.
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
l'indagine sull'infanticidio di Cogne
Libertà 30.1.04
A Cogne due anni fa l'omicidio di Samuele
Il superperito della polizia criminale tedesca chiede tempo fino al 31 marzo per la sua relazione
MILANO Il silenzio che domina le valli ai piedi del Gran Paradiso è rotto, al mattino, dal rombo del motore dell'eliambulanza che arriva da Aosta e punta alla frazione di Montroz di Cogne. Sono circa le 9 del 30 gennaio 2002, in casa di Stefano Lorenzi e Anna Maria Franzoni giace esanime il piccolo Samuele, 3 anni appena, secondo figlio della coppia, gravemente ferito da una mano che ancora oggi, a due anni dal delitto, resta avvolta dal mistero. Gli atti processuali sono ancora in corso. La superperizia, disposta dal gup di Aosta, Eugenio Gramola, è in alto mare: i consulenti depositeranno i loro studi solo il 31 marzo e l'udienza preliminare è prevista per il 26 aprile. A due anni dal delitto, insomma, non si sa ancora chi ha ucciso il piccolo Samuele. Per gli inquirenti di Aosta è stata la madre, Anna Maria Franzoni, unica indagata. Arrestata, scarcerata, sottoposta a perizia psichiatrica e interrogata innumerevoli volte, si è dichiarata innocente: «Il mostro è a Cogne. E' libero!», ha sempre affermato Anna Maria ai giornalisti e davanti le telecamere. L'avvocato della difesa, Carlo Taormina, sostiene di aver individuato il vero assassino di Samuele. Ma fino ad oggi nessun nome è stato fatto. Le prove su cui si basa l'accusa per dimostrare che la Franzoni è l'assassina del figlio sono prevalentemente riferite agli orari, alle macchie di sangue trovate sugli zoccoli e sul pigiama. Manca una prova fondamentale: l'arma del delitto. Mai trovata. L'iter giudiziario in questi due anni è stato frenetico. Il caso di Cogne è passato dalle mani della Procura di Aosta al Tribunale di Torino e alla Cassazione più volte. Risultato? Il dibattimento in aula non è ancora iniziato. L'ultima mossa della magistratura aostana risale al 16 settembre 2003 quando, durante l'udienza preliminare sul rinvio a giudizio della Franzoni, il gup, Eugenio Gramola, ha disposto la superperizia. Hermann Schmitter sta ancora scrivendo la relazione sull'esame delle traiettorie che avrebbero compiuto gli schizzi di sangue del bambino trovati nella stanza dove fu ucciso. A chiedere la proroga è stato infatti lo stesso Schmitter, collaboratore della Bundeskriminalamt, la polizia criminale tedesca, considerato uno dei massimi esperti a livello europero del settore. All'origine della richiesta di proroga c'è il ritardo nella traduzione degli atti in Germania. Anche gli altri due consulenti, Piero Boccardo, docente del Politecnico di Torino, incaricato di svolgere l'esame su un frammento osseo trovato nel letto dove fu massacrato Samuele, e il medico legale Vincenzo Pascali, dell'Università Cattolica di Roma, incaricato di analizzare le tracce di sostanza ematica trovate sugli zoccoli di Anna Maria Franzoni, hanno chiesto una proroga dei termini per la consegna delle rispettive perizie. «La verità sul delitto di Samuele è ancora tutta da scrivere. Quando sarà finito il processo - afferma Taormina - pubblicherò un libro». Roberta Rizzo
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
A Cogne due anni fa l'omicidio di Samuele
Il superperito della polizia criminale tedesca chiede tempo fino al 31 marzo per la sua relazione
MILANO Il silenzio che domina le valli ai piedi del Gran Paradiso è rotto, al mattino, dal rombo del motore dell'eliambulanza che arriva da Aosta e punta alla frazione di Montroz di Cogne. Sono circa le 9 del 30 gennaio 2002, in casa di Stefano Lorenzi e Anna Maria Franzoni giace esanime il piccolo Samuele, 3 anni appena, secondo figlio della coppia, gravemente ferito da una mano che ancora oggi, a due anni dal delitto, resta avvolta dal mistero. Gli atti processuali sono ancora in corso. La superperizia, disposta dal gup di Aosta, Eugenio Gramola, è in alto mare: i consulenti depositeranno i loro studi solo il 31 marzo e l'udienza preliminare è prevista per il 26 aprile. A due anni dal delitto, insomma, non si sa ancora chi ha ucciso il piccolo Samuele. Per gli inquirenti di Aosta è stata la madre, Anna Maria Franzoni, unica indagata. Arrestata, scarcerata, sottoposta a perizia psichiatrica e interrogata innumerevoli volte, si è dichiarata innocente: «Il mostro è a Cogne. E' libero!», ha sempre affermato Anna Maria ai giornalisti e davanti le telecamere. L'avvocato della difesa, Carlo Taormina, sostiene di aver individuato il vero assassino di Samuele. Ma fino ad oggi nessun nome è stato fatto. Le prove su cui si basa l'accusa per dimostrare che la Franzoni è l'assassina del figlio sono prevalentemente riferite agli orari, alle macchie di sangue trovate sugli zoccoli e sul pigiama. Manca una prova fondamentale: l'arma del delitto. Mai trovata. L'iter giudiziario in questi due anni è stato frenetico. Il caso di Cogne è passato dalle mani della Procura di Aosta al Tribunale di Torino e alla Cassazione più volte. Risultato? Il dibattimento in aula non è ancora iniziato. L'ultima mossa della magistratura aostana risale al 16 settembre 2003 quando, durante l'udienza preliminare sul rinvio a giudizio della Franzoni, il gup, Eugenio Gramola, ha disposto la superperizia. Hermann Schmitter sta ancora scrivendo la relazione sull'esame delle traiettorie che avrebbero compiuto gli schizzi di sangue del bambino trovati nella stanza dove fu ucciso. A chiedere la proroga è stato infatti lo stesso Schmitter, collaboratore della Bundeskriminalamt, la polizia criminale tedesca, considerato uno dei massimi esperti a livello europero del settore. All'origine della richiesta di proroga c'è il ritardo nella traduzione degli atti in Germania. Anche gli altri due consulenti, Piero Boccardo, docente del Politecnico di Torino, incaricato di svolgere l'esame su un frammento osseo trovato nel letto dove fu massacrato Samuele, e il medico legale Vincenzo Pascali, dell'Università Cattolica di Roma, incaricato di analizzare le tracce di sostanza ematica trovate sugli zoccoli di Anna Maria Franzoni, hanno chiesto una proroga dei termini per la consegna delle rispettive perizie. «La verità sul delitto di Samuele è ancora tutta da scrivere. Quando sarà finito il processo - afferma Taormina - pubblicherò un libro». Roberta Rizzo
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
Cina
ANSA
Cina: corruzione provoca ondata di suicidi, 1.200 membri Pcc
Quasi ottomila fuggiti all'estero
(ANSA)-PECHINO, 29 GEN-Piu' di 1200 membri del Partito Comunista Cinese suicidi e quasi ottomila fuggiti all'estero in seguito ad accuse di corruzione.Lo rivela il giornale di Hong Kong Wen Wei Po, considerato vicino al governo di Pechino. Il maggior numero di fuggitivi (1240) proviene dalla provincia meridionale del Guangdong,in grave crisi economica. Seguono la provincia centrale dell'Henan (854) e quella del Fujian, sulla costa sudorientale del paese con 586 latitanti.
copyright @ 2004 ANSA
Cina: corruzione provoca ondata di suicidi, 1.200 membri Pcc
Quasi ottomila fuggiti all'estero
(ANSA)-PECHINO, 29 GEN-Piu' di 1200 membri del Partito Comunista Cinese suicidi e quasi ottomila fuggiti all'estero in seguito ad accuse di corruzione.Lo rivela il giornale di Hong Kong Wen Wei Po, considerato vicino al governo di Pechino. Il maggior numero di fuggitivi (1240) proviene dalla provincia meridionale del Guangdong,in grave crisi economica. Seguono la provincia centrale dell'Henan (854) e quella del Fujian, sulla costa sudorientale del paese con 586 latitanti.
copyright @ 2004 ANSA
Paolo Soleri
Repubblica 30.1.04
edizione di Firenze
L'architetto nel deserto Paolo Soleri e la sua citt?
Trenta anni di vita con settanta abitanti
di Irene Bignardi
«La parola utopia irrita profondamente Paolo Soleri - il nostro ospite, che ha ottantatré anni brillantemente portati, una bella faccia asciugata dal sole del deserto, gli occhi blu, un camiciotto verde, braghe di tela al ginocchio e l´aria di un poeta che, pur da poeta, ha molto molto da fare e corre sempre, efficientissimo e fiero, da un punto all´altro della sua città del sole. Utopia vuol dire un luogo che non c´è da nessuna parte. Dunque non esiste utopia, protesta, dove la stessa cosa c´è. E qui ad Arcosanti c´è, da trent´anni, e nel 2000 si è festeggiato il trentennale della posa della prima pietra. L´idea, la sua idea, resiste, la minicittà esiste, ci sono i suoi settanta abitanti, la vita scorre, siamo addirittura alla seconda generazione di arcosantesi. Mi arrendo. Usiamo la parola utopia, prometto, come marchingegno dialettico, giusto per capirci. Diremo utopia e parleremo di ideali, speranze, rivoluzione dell´esistente. Non è convinto. Come ha scritto, "il laboratorio è per definizione una cosa con cui l´utopia non può coesistere. L´utopia è conclusiva, se non la conclusione stessa." Soleri ha l´aria di non prendere sul serio il clima di adorazione che vede in lui un guru, la comunità che lo adora, gli allievi che ritornano, tutto teso com´è verso un futuro che continua a elaborare, a immaginare, a combattere con le sue armi. "Non disegno città. Metto giù idee che in qualche modo aprano una prospettiva diversa su quello che riguarda la città o che la città può diventare". Arcosanti, con Cosanti e la sua realtà realizzata, è un modello, una proposta, una provocazione, un´utopia con molte rughe - e insieme una realtà fatta di gente che da quei mesi e quegli anni con Soleri ha imparato, comunque, a guardare il reale e il possibile in maniera non convenzionale, a non accettare come scontata la cultura della grande città e dei sobborghi, dei vecchi e dei giovani, dei poveri e dei ricchi, e a sognare, secondo l´insegnamento del vecchio maestro, una comunità di umanità.
edizione di Firenze
L'architetto nel deserto Paolo Soleri e la sua citt?
Trenta anni di vita con settanta abitanti
di Irene Bignardi
«La parola utopia irrita profondamente Paolo Soleri - il nostro ospite, che ha ottantatré anni brillantemente portati, una bella faccia asciugata dal sole del deserto, gli occhi blu, un camiciotto verde, braghe di tela al ginocchio e l´aria di un poeta che, pur da poeta, ha molto molto da fare e corre sempre, efficientissimo e fiero, da un punto all´altro della sua città del sole. Utopia vuol dire un luogo che non c´è da nessuna parte. Dunque non esiste utopia, protesta, dove la stessa cosa c´è. E qui ad Arcosanti c´è, da trent´anni, e nel 2000 si è festeggiato il trentennale della posa della prima pietra. L´idea, la sua idea, resiste, la minicittà esiste, ci sono i suoi settanta abitanti, la vita scorre, siamo addirittura alla seconda generazione di arcosantesi. Mi arrendo. Usiamo la parola utopia, prometto, come marchingegno dialettico, giusto per capirci. Diremo utopia e parleremo di ideali, speranze, rivoluzione dell´esistente. Non è convinto. Come ha scritto, "il laboratorio è per definizione una cosa con cui l´utopia non può coesistere. L´utopia è conclusiva, se non la conclusione stessa." Soleri ha l´aria di non prendere sul serio il clima di adorazione che vede in lui un guru, la comunità che lo adora, gli allievi che ritornano, tutto teso com´è verso un futuro che continua a elaborare, a immaginare, a combattere con le sue armi. "Non disegno città. Metto giù idee che in qualche modo aprano una prospettiva diversa su quello che riguarda la città o che la città può diventare". Arcosanti, con Cosanti e la sua realtà realizzata, è un modello, una proposta, una provocazione, un´utopia con molte rughe - e insieme una realtà fatta di gente che da quei mesi e quegli anni con Soleri ha imparato, comunque, a guardare il reale e il possibile in maniera non convenzionale, a non accettare come scontata la cultura della grande città e dei sobborghi, dei vecchi e dei giovani, dei poveri e dei ricchi, e a sognare, secondo l´insegnamento del vecchio maestro, una comunità di umanità.
due mostre a Milano
Le civiltà del Perù da Chavín agli Inca
La Collezione Federico Balzarotti al Castello Sforzesco L'esposizione, attraverso duecento reperti, presenta una delle più rilevanti raccolte di arte peruviana preispanica. La raccolta ha un carattere antologico ed è la sola che consente di capire il percorso storico del Perù preispanico: da Chavín (900-200 a.C.) agli Inca (1440-1532). In mostra sono rappresentate tutte le culture che si sono succedute nella regione: Cupisnique, Paracas, Moche, Nasca, Recuay, Huari, Chimú, Chancay.
dal 29/01/2004 al 02/05/2004 Civici Musei Castello Sforzesco Milano info: Piazza Castello; tel. 0262083947
Soutin, Kisling, Utrillo e la Parigi di Montparnasse
Una mostra dedicata a Soutine, Kisling, Utrillo e ad alcuni amici, che come loro frequentavano abitualmente leggendari café parigini. Oltre ai dipinti in esposizione alcuni ritratti fotografici realizzati da Germaine Nordmann (Parigi 1902-1997), assidua visitatrice degli studi degli artisti.
dal 28/01/2004 al 28/02/2004 Farsetti Arte Milano info: Via della Spiga, 52; tel. 02794274 - 0276013228
La Collezione Federico Balzarotti al Castello Sforzesco L'esposizione, attraverso duecento reperti, presenta una delle più rilevanti raccolte di arte peruviana preispanica. La raccolta ha un carattere antologico ed è la sola che consente di capire il percorso storico del Perù preispanico: da Chavín (900-200 a.C.) agli Inca (1440-1532). In mostra sono rappresentate tutte le culture che si sono succedute nella regione: Cupisnique, Paracas, Moche, Nasca, Recuay, Huari, Chimú, Chancay.
dal 29/01/2004 al 02/05/2004 Civici Musei Castello Sforzesco Milano info: Piazza Castello; tel. 0262083947
Soutin, Kisling, Utrillo e la Parigi di Montparnasse
Una mostra dedicata a Soutine, Kisling, Utrillo e ad alcuni amici, che come loro frequentavano abitualmente leggendari café parigini. Oltre ai dipinti in esposizione alcuni ritratti fotografici realizzati da Germaine Nordmann (Parigi 1902-1997), assidua visitatrice degli studi degli artisti.
dal 28/01/2004 al 28/02/2004 Farsetti Arte Milano info: Via della Spiga, 52; tel. 02794274 - 0276013228
attenti a quel che mangiate
(c'è rischio di schizofrenia, dicono i neurologi australiani!)
ANSA 30.1.04
MEDICINA: SCHIZOFRENIA LEGATA A CARENZA VITAMINA D, RICERCA
SYDNEY, 30 GEN I bambini nati in inverno sono piu suscettibili alla schizofrenia, secondo una ricerca australiana che ha individuato un legame tra la malattia e la deficienza di vitamina D, che a sua volta si puo assorbire dall esposizione alla luce del sole. È raccomandabile quindi che le donne incinte trascorrano il piu tempo possibile all'aria aperta, od almeno assumano supplementi di vitamina D.
La connessione fra la malattia e la D è emersa dapprima da statistiche che mostravano come durante i mesi invernali piu freddi, quando c'è meno luce del sole, si registri un aumento dal 7 al 10% nel numero di persone nate con la schizofrenia [sic!]. Le evidenze statistiche sono state poi confermate dalla ricerca, condotta su topi di laboratorio, da studiosi del Centro di ricerca sulla salute mentale di Brisbane, e presentata oggi al Congresso annuale dell'Australian Neuroscience Society a Melbourne.
Nello studio i topi allevati con carenza di vitamina D hanno messo al mondo prole con cervelli distorti ed altre deformità, che corrispondono a quelle trovate nei cervelli di pazienti umani affetti da schizofrenia. Il prof. Darryl Eyles, che ha guidato la ricerca, ha riconosciuto che il lavoro sulla deficienza di vitamina D e ancora nelle fasi iniziali, ma è gia accertato che questa vitamina è un regolatore diretto di un fattore di crescita dei nervi, che è essenziale nello sviluppo dei neuroni cerebrali.
Ora stiamo conducendo esperimenti su animali, sui modi in cui l'assenza di vitamina D nella madre puo avere conseguenze sullo sviluppo cerebrale del feto, ha spiegato Eyles. È comunque gia evidente che le donne incinte dovrebbero essere incoraggiate ad esporsi di piu alla luce naturale. È consigliabile per le future madri esporsi con moderazione alla luce del sole o supplementare la dieta bevendo latte fortificato con vitamina D, ha aggiunto. (ANSA)
MEDICINA: SCHIZOFRENIA LEGATA A CARENZA VITAMINA D, RICERCA
SYDNEY, 30 GEN I bambini nati in inverno sono piu suscettibili alla schizofrenia, secondo una ricerca australiana che ha individuato un legame tra la malattia e la deficienza di vitamina D, che a sua volta si puo assorbire dall esposizione alla luce del sole. È raccomandabile quindi che le donne incinte trascorrano il piu tempo possibile all'aria aperta, od almeno assumano supplementi di vitamina D.
La connessione fra la malattia e la D è emersa dapprima da statistiche che mostravano come durante i mesi invernali piu freddi, quando c'è meno luce del sole, si registri un aumento dal 7 al 10% nel numero di persone nate con la schizofrenia [sic!]. Le evidenze statistiche sono state poi confermate dalla ricerca, condotta su topi di laboratorio, da studiosi del Centro di ricerca sulla salute mentale di Brisbane, e presentata oggi al Congresso annuale dell'Australian Neuroscience Society a Melbourne.
Nello studio i topi allevati con carenza di vitamina D hanno messo al mondo prole con cervelli distorti ed altre deformità, che corrispondono a quelle trovate nei cervelli di pazienti umani affetti da schizofrenia. Il prof. Darryl Eyles, che ha guidato la ricerca, ha riconosciuto che il lavoro sulla deficienza di vitamina D e ancora nelle fasi iniziali, ma è gia accertato che questa vitamina è un regolatore diretto di un fattore di crescita dei nervi, che è essenziale nello sviluppo dei neuroni cerebrali.
Ora stiamo conducendo esperimenti su animali, sui modi in cui l'assenza di vitamina D nella madre puo avere conseguenze sullo sviluppo cerebrale del feto, ha spiegato Eyles. È comunque gia evidente che le donne incinte dovrebbero essere incoraggiate ad esporsi di piu alla luce naturale. È consigliabile per le future madri esporsi con moderazione alla luce del sole o supplementare la dieta bevendo latte fortificato con vitamina D, ha aggiunto. (ANSA)
giovedì 29 gennaio 2004
neurologi canadesi:
depressione e dimensioni dell'ippocampo
ricevuto da Tonino Scrimenti
DEPRESSIONE, SCOPERTA UNA ANOMALIA STRUTTURALE
(AGI) - Washington, 29.1.04
Una anomalia strutturale e' stata identificata da neuroscienziati canadesi nel cervello di adolescenti sofferenti della forma piu' grave di depressione: si tratta di dimensioni ridotte dell'ippocampo, la regione del cervello che entra in funzione al momento della formazione della memoria, e della motivazione e dell'emozione.
Le conclusioni della ricerca, svolta da un gruppo di studio della Dalhousie University (Nova Scotia) e del Consiglio Nazionale delle Ricerche del Canada, coincidono con altre ricerche che gia' avevano indicato nella riduzione delle dimensioni dell'ippocampo una delle conseguenze della depressione sulle strutture cerebrali. Tale riduzione puo' essere provocata anche dallo stress intenso e da un trauma, che sono entrambi fattori che innescano anche la depressione.
Sono stati esaminati 34 ragazzi, tutti volontari, di eta' compresa fra i 13 ed i 18 anni, la meta' dei quali accusava una forma grave di disturbo depressivo. Servendosi della tecnica di visualizzazione tramite risonanza magnetica, gli scienziati hanno scandagliato il volume del loro ippocampo destro e di quello sinistro: e quella regione del cervello, come scrivono i due relatori della ricerca, Frank MacMastere e Vivek Kusukamar, sul giornale internet "BioMedCentral", e' risultata mediamente piu' piccola del 17 per cento nei soggetti depressi, rispetto a quelli sani.
Altri studi recenti avevano indicato la possibilita' di ripristinare con farmaci anti-depressivi cellule cerebrali disattivate.
DEPRESSIONE, SCOPERTA UNA ANOMALIA STRUTTURALE
(AGI) - Washington, 29.1.04
Una anomalia strutturale e' stata identificata da neuroscienziati canadesi nel cervello di adolescenti sofferenti della forma piu' grave di depressione: si tratta di dimensioni ridotte dell'ippocampo, la regione del cervello che entra in funzione al momento della formazione della memoria, e della motivazione e dell'emozione.
Le conclusioni della ricerca, svolta da un gruppo di studio della Dalhousie University (Nova Scotia) e del Consiglio Nazionale delle Ricerche del Canada, coincidono con altre ricerche che gia' avevano indicato nella riduzione delle dimensioni dell'ippocampo una delle conseguenze della depressione sulle strutture cerebrali. Tale riduzione puo' essere provocata anche dallo stress intenso e da un trauma, che sono entrambi fattori che innescano anche la depressione.
Sono stati esaminati 34 ragazzi, tutti volontari, di eta' compresa fra i 13 ed i 18 anni, la meta' dei quali accusava una forma grave di disturbo depressivo. Servendosi della tecnica di visualizzazione tramite risonanza magnetica, gli scienziati hanno scandagliato il volume del loro ippocampo destro e di quello sinistro: e quella regione del cervello, come scrivono i due relatori della ricerca, Frank MacMastere e Vivek Kusukamar, sul giornale internet "BioMedCentral", e' risultata mediamente piu' piccola del 17 per cento nei soggetti depressi, rispetto a quelli sani.
Altri studi recenti avevano indicato la possibilita' di ripristinare con farmaci anti-depressivi cellule cerebrali disattivate.
un convegno di psichiatria a Genova da domani
Repubblica, edizione di Genova 29.1.04
Quando la psichiatria incontra la letteratura
"Il senso della psichiatria" è il titolo del convegno che si aprirà domani mattina nel salone Nettuno del Palazzo del Principe. La giornata di studio, organizzato dall´Università degli Studi di Genova, si aprirà alle otto con un saluto del presidente Romolo Rossi, docente di psichiatra e psicoanalista. Relatori del congresso, che ha come sottotitolo "Incontro tra Psicoanalisi, Psicopatologia e Letteratura", saranno lo stesso presidente del convegno Romolo Rossi; il professor Bruno Callieri dell´Università La Sapienza di Roma, psicopatologo, il quale parlerà di "Dialettica tra Senso e Significato in Psichiatria"; Arnaldo Ballerini della Scuola di Psichiatria dell´Università di Firenze e Presidente della Società Italiana per la Psicopatologia; Mario Rossi Monti, psichiatra dell´Università di Urbino; Anna Lunetta, psichiatra e psicoterapeuta a Genova, Dipartimento delle Dipendenze; Caterina Vecchiato, psichiatra presso la Sezione di Psichiatria del Dipartimento dell´Università di Genova, Ospedale San Martino; Edoardo Sanguineti, italianista e poeta, che terrà una relazione dal titolo Tra Psiche e Soma. Nel convegno, tra l´altro, si parlerà del rischio teorico (riduzionismo concettuale) e pratico (cure inefficaci) che sta correndo la psichiatria nel mondo occidentale, anche in Italia.
Quando la psichiatria incontra la letteratura
"Il senso della psichiatria" è il titolo del convegno che si aprirà domani mattina nel salone Nettuno del Palazzo del Principe. La giornata di studio, organizzato dall´Università degli Studi di Genova, si aprirà alle otto con un saluto del presidente Romolo Rossi, docente di psichiatra e psicoanalista. Relatori del congresso, che ha come sottotitolo "Incontro tra Psicoanalisi, Psicopatologia e Letteratura", saranno lo stesso presidente del convegno Romolo Rossi; il professor Bruno Callieri dell´Università La Sapienza di Roma, psicopatologo, il quale parlerà di "Dialettica tra Senso e Significato in Psichiatria"; Arnaldo Ballerini della Scuola di Psichiatria dell´Università di Firenze e Presidente della Società Italiana per la Psicopatologia; Mario Rossi Monti, psichiatra dell´Università di Urbino; Anna Lunetta, psichiatra e psicoterapeuta a Genova, Dipartimento delle Dipendenze; Caterina Vecchiato, psichiatra presso la Sezione di Psichiatria del Dipartimento dell´Università di Genova, Ospedale San Martino; Edoardo Sanguineti, italianista e poeta, che terrà una relazione dal titolo Tra Psiche e Soma. Nel convegno, tra l´altro, si parlerà del rischio teorico (riduzionismo concettuale) e pratico (cure inefficaci) che sta correndo la psichiatria nel mondo occidentale, anche in Italia.
mercoledì 28 gennaio 2004
la voce "Massimo Fagioli"
come è pubblicata sulla Garzantina Cinema
Fagioli Massimo sceneggiatore e regista italiano. Laureato in medicina e specializzato in neuropsichiatria, esercita la professione di psicanalista. Nel 1971 il suo libro Istinto di morte e conoscenza suscita un acceso dibattito che si conclude con la sua uscita dalla Società psicanalitica italiana. Il regista M. Bellocchio lo consulta durante la lavorazione di Il diavolo in corpo (1986), ispirato all’omonimo film di C. Autant-Lara, a sua volta tratto dal famoso romanzo di R. Radiguet. La collaborazione con Bellocchio si fa più stretta e nel 1991 firma la sceneggiatura di La condanna (Orso d’argento a Berlino), che esplora i tormentati rapporti tra consapevolezza e inconscio nell’animo di una donna dopo una notte d’amore con uno sconosciuto. La componente lirica e onirica si accentua con Il sogno della farfalla (1994), sempre di Bellocchio, in cui la sua sceneggiatura accantona le comuni convenzioni narrative per raccontare la storia di un giovane che rifiuta di parlare. Nel 1998 passa dietro la macchina da presa con Il cielo della luna, film su una donna socialmente e professionalmente realizzata, ma insoddisfatta della sua perfetta esistenza borghese, che nella sua ricerca di un fondamento più saldo abbandona tutto e tutti, anche l’amico clochard, interpretato da Fagioli stesso.
l'ideologia della destra
Repubblica 28.1.04
Quei futuristi rivoluzionari che detestano le virtù borghesi
Si conclude l´inchiesta sulla cultura della destra
Schmitt non è un reazionario: sa perfettamente che la sua teologia politica è solo un grimaldello
Musil, facendo la parodia di Rathenau nell´"Uomo senza qualità" criticava il capitalismo senz'anima
Nella formazione originaria del fascismo l'apporto marinettiano ha un ruolo importantissimo
di ANTONIO GNOLI
Venezia. Fu sul finire degli anni Settanta che Massimo Cacciari, un po´ a sorpresa, aprì una linea di credito nei riguardi della cultura di destra e in particolare di alcuni suoi protagonisti che la sinistra aveva emarginato. Quello sdoganamento - per cui improvvisamente ci si trovava di fronte ad autori (soprattutto tedeschi) come Schmitt e Jünger o in parte come Evola, usciti da un lungo oblio se non proprio da una clandestinità - era anche il frutto delle difficoltà teoriche in cui il marxismo aveva finito con il trovarsi. Dice Cacciari: «Quell´esigenza partiva anche dal desiderio di capire che la destra non era soltanto violenza bestiale. Ma c´era un sostrato di idee e questioni di indiscutibile portata che andava affrontato».
E quell´esigenza è rimasta?
«Diciamo che oggi le cose vanno affrontate con maggiore analiticità rispetto a trent´anni fa. Anche perché le conoscenze di quelle correnti della cultura di destra europea sono infinitamente cresciute» .
Ma la sua curiosità di allora da che cosa era motivata?
«Sia io che altri provammo a riattraversare quelle culture, servendoci di una idea diversa della politica».
Ossia?
«Rispetto allo schema assiale classico, per cui i lati opposti sono occupati da sinistra e destra e poi c´è un centro che rappresenta la posizione virtuosa, adottammo uno schema ortogonale della politica. Nella convinzione che ci sono aspetti del pensiero della destra che interessano la politica in generale e in particolare la sinistra».
È possibile che l´elemento trasversale dipendesse dalla medesima reazione critica che sinistra e destra ebbero tra le due guerre di fronte al liberalismo?
«È senz´altro l´elemento principale, anche se non avrei difficoltà a retrodatarlo. A cavallo fra l´Otto e il Novecento emerge sia a sinistra che a destra una critica non tanto alla democrazia liberale quanto a un liberalismo in cui predomina l´elemento di scambio e di mercato. È un prendere le distanze dal contrattualismo che in Carl Schmitt si riassumerà nel concetto di critica all´età della neutralizzazione».
Ossia di critica all´età liberale classica?
«Sì, e quel liberalismo produce, come reazione, una specie di reciproca attrazione fra socialismo e destra. È un fenomeno che avrà particolare rilievo in Italia».
Pensa al passaggio di Mussolini dalle posizioni socialiste alla destra nazionalista e poi al fascismo?
«È senz´altro un aspetto. Ma solo all´interno di questo contesto si spiega il richiamo originario di Gentile al Marx delle tesi su Feuerbach, o la formazione stessa di Gramsci. Ed è questo che trent´anni fa ci ha interessato: una cultura di destra che criticando l´età liberale della neutralizzazione incrociava obiettivamente un elemento filosofico portante della critica socialista alla democrazia liberale».
Quali effetti ebbe questo bisogno di voler superare l´individualismo liberale?
«Sul piano della destra europea produsse due filoni abbastanza in contraddizione fra loro. Uno propriamente statalista che si conclude con l´affermazione di una potenza autonoma della politica la quale, tuttavia, per avere effettiva sovranità, autorità, legittimità, si deve configurare eticamente».
Cioè deve dar vita a uno Stato etico.
«Sì. A uno Stato che alla lontana troviamo più in Fichte che in Hegel e in seguito sarà teorizzato da Gentile. L´altro filone è quello organicistico, che ha dentro di sé un forte richiamo alla comunità originaria. Lo sfondo qui è determinato in primo luogo dai romantici tedeschi, ed è fortemente polemico nei confronti della tradizione statalista».
E queste due destre avranno un differente atteggiamento nei riguardi della tradizione socialista?
«Inevitabilmente. Le correnti organiciste si contrapporranno frontalmente al socialismo. Perché a differenza della loro, la visione socialista è cosmopolita, internazionale, universale. Più vicina in questo alla tradizione statalista».
Fino a un certo punto.
«È vero, nel senso che nella concezione marxiana e socialista lo Stato deve essere superato. Lo stato non è la casa, la dimora, come lo è nella concezione gentiliana».
Schmitt che è il grande critico della neutralizzazione che posto occupa?
«Lui non è riconducibile né ai romantici né a Hegel, proviene da Weber. Il suo problema è costruire uno stato con criteri hobbesiani, fuori dagli equivoci organicistici ed etici».
E per questo si mette agli ordini dei nazisti?
«Lavora per loro, convinto di poter creare un processo decisionale nuovo. Cade in un abbaglio, quello della costruzione politica attraverso meccanismi plebiscitari. Ma direi che in generale sono tutte le culture di destra di quel momento, organicistiche, statalistiche, plebiscitarie, a illudersi di imbrigliare il nazismo e il fascismo. Invece accade il contrario. E Schmitt a un certo punto se ne rende conto. Ma è troppo tardi, perché la prepotenza politica del nazismo ingabbia tutto».
Chi si sottrae a questa morsa politica è l´esperienza della rivoluzione conservatrice.
«Armin Mohler, che sull´argomento scrisse nel 1950 un libro importante, definì gli esponenti della rivoluzione conservatrice come "i trotzkisti del nazionalsocialismo" e come tali furono perseguitati. Ma è bene precisare che con questo movimento non hanno nulla a che fare un apocalittico come Spengler e uno come Schmitt».
Qual è il nucleo del loro pensiero?
«Gli autori della rivoluzione conservatrice hanno come denominatore comune il rigetto dell´eredità francese. Sono antigiacobini ma non reazionari. Non si confondono con il grande pensiero controrivoluzionario della restaurazione».
Non si confondono con de Maistre?
«Non solo, neppure con Bonald, Donoso Cortés, che sono, come è noto, i grandi autori studiati da Schmitt».
E nei quali il cattolicesimo ha una funzione non indifferente.
«Appunto. Mentre nella rivoluzione conservatrice gli elementi cattolici sono scarsi. Tutto è svolto in una prospettiva molto tedesca: reinterpretano l´età liberale in una chiave estetico aristocratica. Per questo movimento la democrazia liberale fallisce perché a un certo punto diventa democrazia in senso negativo».
Diventa democrazia di massa.
«Diventa oclocrazia, ossia dominio politico delle masse ma anche individualismo economico. Dunque non rigettano la democrazia, ma ritengono che la democrazia debba essere governata elitariamente».
Chi sono i maggiori rappresentanti?
«Il nome che mi viene in mente è Hugo von Hofmannsthal. C´è un suo saggio del 1927 sulla letteratura austriaca - che è la grande teorizzazione della rivoluzione conservatrice - in cui confluiscono elementi organicistici, negazione di ogni individualismo sradicato, legame con la lingua e il territorio, rifiuto di ogni cosmopolitismo liberale e socialista, di ogni giacobinismo, ma al tempo stesso di ogni forma autoritaria totalitaria».
Il mantello dell´estetica copre tutto.
«Diciamo che è la valorizzazione dell´elemento estetico aristocratico. Secondo me la figura in cui la rivoluzione conservatrice si esprime con la massima nettezza e insuperabile ironia, fino a dissolversi, è l´Arnheim di Musil. La parodia che fa di Rathenau in L´uomo senza qualità mostra come Musil al fondo criticasse il capitalismo senza anima».
Chi invece insiste sullo stile è Gottfried Benn.
«In lui si fa evidente l´apprezzamento del bello, del carattere estetico dell´esperienza. Ai suoi occhi, come a quelli degli altri esponenti della rivoluzione conservatrice, l´aristocrazia deve governare lo stato liberale, deve guidare la democrazia. Occorre perciò formare un governo dei migliori, non un governo del führer, del dittatore».
In quegli anni, parliamo del periodo a cavallo fra il dieci e il venti, assistiamo a delle letture piuttosto singolari di Platone che vanno nella direzione del governo dei migliori.
«Sono soprattutto le letture dei grandi professori tedeschi di greco - la grande scuola filologica dei Wilamowitz - a porre le basi perché si formi questa idea di un governo aristocratico dalle forme democratiche. Ma, ripeto, il testo fondamentale è L´uomo senza qualità che può essere letto come un grande affresco in cui viene dissacrata la visione della rivoluzione conservatrice».
Perché Musil descrivendola la dissacra?
«Perché è consapevole che il moderno va nella direzione opposta dall´estetizzazione della politica».
Un fenomeno simile lo abbiamo con d´Annunzio.
«Simile fino a un certo punto. Anzi, distinguerei nettamente il suo atteggiamento da quello degli esponenti della rivoluzione conservatrice. Anche se va tenuto presente che d´Annunzio è forse l´ultimo grande fatto culturale e antropologico che l´Italia dona all´Europa».
L´ultimo di quale serie?
«Dal Rinascimento in poi l´Italia ha per lungo tempo fornito modelli culturali all´Europa. E d´Annunzio è appunto l´ultimo di questi doni. Ma la rivoluzione conservatrice ha poco a che fare con lui. Musil e Hofmannsthal che di lui amano il lato letterario detestano l´elemento demagogico e populistico che ritengono intrinsecamente autoritario. Così come rifiutano un aspetto nuovo e assolutamente diverso della cultura di destra, cioè l´esperienza futurista».
Che si incarna nella destra rivoluzionaria.
«Non a caso. Lotta contro le degenerazioni della democrazia, ma non è a favore di una restaurazione aristocratica. Sostiene che il capitalismo abbia già un anima, la sua, ed è inutile cambiargliela, come pretendono letterati, esteti e filologi. Del capitalismo esalta la macchina, il sistema, la potenza. E questo sarà un elemento formidabile nella formazione agli inizi del Novecento di una destra europea».
L´aspetto più evidente, almeno in Italia, è una qualche coincidenza fra il programma futurista e una certa idea del fascismo.
«Il futurismo è una componente essenziale del fascismo. Che poi finisca con l´imborghesirsi, con l´istituzionalizzarsi, valga per tutti il Marinetti che finisce all´Accademia d´Italia, fa parte di una logica quasi inevitabile delle avanguardie. Però nella formazione originaria del fascismo l´elemento futurista e rivoluzionario ha un ruolo importantissimo. Tra l´altro Gramsci lo comprende perfettamente. E De Felice non farà che recuperare quella intuizione, per cui il futurismo è essenziale sia per spiegare la nascita del fascismo che alcune parti del pensiero gentiliano».
Questa sua ultima affermazione è meno chiara.
«Intendo futurismo come l´equivalente di rivoluzione. L´attualismo di Gentile è in qualche modo futurismo, cioè atto rivoluzionario. Si tratta dell´interpretazione delle tesi di Marx, che Gentile fa sue. Critica il lato economicistico e sociologistico che del contemporaneo fa Marx e sposta l´elemento rivoluzionario sul piano del pensiero come atto. Agli occhi di Gentile il pensiero è tale non solo quando riflette e pensa il mondo, ma quando s´invera nel trasformarlo».
E questa è la filosofia di Marx?
«Per Gentile sì. Ed è un punto che Del Noce e altri hanno messo in evidenza. Per cui questo aspetto è fondamentale per spiegare la genesi del movimento fascista. E si tratta di una riflessione completamente estranea al nazismo».
Dalle cose dette fin qui vediamo delinearsi due destre, una moderna e l´altra antimoderna.
«E questa distinzione è fondamentale perché di solito quando si parla del suo lato critico del moderno, non si vede l´altra faccia, quella che fa l´apologia del rischio, dell´innovazione, del progressismo capitalista e industrialista, che denuncia l´imborghesimento, che rifiuta i compromessi con le burocrazie statali, che si rammarica della perdita dello slancio vitale della fase eroica. A fronte di questa destra c´è quella organicistica, comunitaria che, abbiamo visto, denuncia l´individualismo che non ha più radici».
Lei accennava anche alle destre in cui l´aspetto culturale si intreccia col pensiero religioso.
«Mi riferivo alla destra cattolica reazionaria e ai suoi grandi maestri della restaurazione: de Maistre, Bonald, Donoso Cortés. Il loro pensiero per certi versi è il meno attuale ma anche il più inquietante».
Quando dice inquietante intende pericoloso?
«Intendo che è talmente drastico da andare alla questione essenziale: o, con la morte di dio e la perdita di tutti i valori, finiremo travolti dall´ateismo, oppure occorrerà scegliere la strada opposta. Ma il punto vero è che per questi pensatori, il dilemma non riguarda tanto la coscienza religiosa del singolo, il sentimento di credenza, bensì va posto all´autorità politica».
L´alternativa è o cristianesimo o ateismo?
«Non ci sono vie di mezzo. Ed è una scelta di cui non si può fare carico la democrazia liberale, perché costoro la considerano del tutto impotente a contenere questa deriva anarchica e nichilista».
Ma questa critica alla democrazia da dove nasce?
«Dalla considerazione che la sua legittimità è messa in crisi dalla sua stessa rappresentanza. Il problema della democrazia è come ridurre il potere sovrano senza distruggerlo. E questo per de Maistre è una contraddizione in termini».
A quale modello politico si richiamano?
«La forma politica che adottano è la Chiesa. E questo vale tanto per i pensatori come de Maistre, quanto per Schmitt».
Ma come convive in Schmitt il suo aspetto weberiano, di consapevolezza del processo di secolarizzazione, con la teologia politica?
«Ma Schmitt non è un reazionario. Sa perfettamente che la sua teologia politica non ha nessuna valenza propositiva. È solo un grimaldello ermeneutico per rappresentare concettualmente il politico contemporaneo. I grandi maestri della restaurazione avanzano l´esigenza di una teologia politica costruttiva, costituente. In Schmitt questo elemento è assente. È un pensatore totalmente disincantato. Non è un reazionario che guarda con nostalgia alla figura del Papa, è uno che si chiede come si può costruire un nuovo artificio statuale nell´epoca della crisi della democrazia liberale, della crisi del diritto internazionale e dell´espandersi dei mercati finanziari».
L´impressione è che questi tentativi di sistemare concettualmente una materia così contrastata, e al suo interno conflittuale, oggi siano del tutto tramontati. C´è una spiegazione plausibile?
«Mi sta chiedendo se quelle destre culturali di cui abbiamo parlato hanno ancora senso?».
Sì.
«Le diverse tradizioni della destra europea - da quella organicistica a quella della rivoluzione conservatrice eccetera - avevano un fine che era tentare di stabilire una identità europea. Ora questa ambizione è del tutto collassata nel secondo dopoguerra. Se prescindiamo dall´esperienza dei totalitarismi, possiamo anche spingerci a riconoscere che nella prima parte del secolo la destra ha tentato di pensare un´idea di Europa. E quando oggi il Papa sottolinea le radici cristiane dell´Europa, non fa che riproporre in piccolo il dilemma: o ateismo o cristianesimo. Se vuole è tutto qui quello che oggi è rimasto delle destre culturali».
(5 - fine. Le puntate precedenti sono uscite il 14 e il 23 dicembre, il 15 e il 20 gennaio)
Quei futuristi rivoluzionari che detestano le virtù borghesi
Si conclude l´inchiesta sulla cultura della destra
Schmitt non è un reazionario: sa perfettamente che la sua teologia politica è solo un grimaldello
Musil, facendo la parodia di Rathenau nell´"Uomo senza qualità" criticava il capitalismo senz'anima
Nella formazione originaria del fascismo l'apporto marinettiano ha un ruolo importantissimo
di ANTONIO GNOLI
Venezia. Fu sul finire degli anni Settanta che Massimo Cacciari, un po´ a sorpresa, aprì una linea di credito nei riguardi della cultura di destra e in particolare di alcuni suoi protagonisti che la sinistra aveva emarginato. Quello sdoganamento - per cui improvvisamente ci si trovava di fronte ad autori (soprattutto tedeschi) come Schmitt e Jünger o in parte come Evola, usciti da un lungo oblio se non proprio da una clandestinità - era anche il frutto delle difficoltà teoriche in cui il marxismo aveva finito con il trovarsi. Dice Cacciari: «Quell´esigenza partiva anche dal desiderio di capire che la destra non era soltanto violenza bestiale. Ma c´era un sostrato di idee e questioni di indiscutibile portata che andava affrontato».
E quell´esigenza è rimasta?
«Diciamo che oggi le cose vanno affrontate con maggiore analiticità rispetto a trent´anni fa. Anche perché le conoscenze di quelle correnti della cultura di destra europea sono infinitamente cresciute» .
Ma la sua curiosità di allora da che cosa era motivata?
«Sia io che altri provammo a riattraversare quelle culture, servendoci di una idea diversa della politica».
Ossia?
«Rispetto allo schema assiale classico, per cui i lati opposti sono occupati da sinistra e destra e poi c´è un centro che rappresenta la posizione virtuosa, adottammo uno schema ortogonale della politica. Nella convinzione che ci sono aspetti del pensiero della destra che interessano la politica in generale e in particolare la sinistra».
È possibile che l´elemento trasversale dipendesse dalla medesima reazione critica che sinistra e destra ebbero tra le due guerre di fronte al liberalismo?
«È senz´altro l´elemento principale, anche se non avrei difficoltà a retrodatarlo. A cavallo fra l´Otto e il Novecento emerge sia a sinistra che a destra una critica non tanto alla democrazia liberale quanto a un liberalismo in cui predomina l´elemento di scambio e di mercato. È un prendere le distanze dal contrattualismo che in Carl Schmitt si riassumerà nel concetto di critica all´età della neutralizzazione».
Ossia di critica all´età liberale classica?
«Sì, e quel liberalismo produce, come reazione, una specie di reciproca attrazione fra socialismo e destra. È un fenomeno che avrà particolare rilievo in Italia».
Pensa al passaggio di Mussolini dalle posizioni socialiste alla destra nazionalista e poi al fascismo?
«È senz´altro un aspetto. Ma solo all´interno di questo contesto si spiega il richiamo originario di Gentile al Marx delle tesi su Feuerbach, o la formazione stessa di Gramsci. Ed è questo che trent´anni fa ci ha interessato: una cultura di destra che criticando l´età liberale della neutralizzazione incrociava obiettivamente un elemento filosofico portante della critica socialista alla democrazia liberale».
Quali effetti ebbe questo bisogno di voler superare l´individualismo liberale?
«Sul piano della destra europea produsse due filoni abbastanza in contraddizione fra loro. Uno propriamente statalista che si conclude con l´affermazione di una potenza autonoma della politica la quale, tuttavia, per avere effettiva sovranità, autorità, legittimità, si deve configurare eticamente».
Cioè deve dar vita a uno Stato etico.
«Sì. A uno Stato che alla lontana troviamo più in Fichte che in Hegel e in seguito sarà teorizzato da Gentile. L´altro filone è quello organicistico, che ha dentro di sé un forte richiamo alla comunità originaria. Lo sfondo qui è determinato in primo luogo dai romantici tedeschi, ed è fortemente polemico nei confronti della tradizione statalista».
E queste due destre avranno un differente atteggiamento nei riguardi della tradizione socialista?
«Inevitabilmente. Le correnti organiciste si contrapporranno frontalmente al socialismo. Perché a differenza della loro, la visione socialista è cosmopolita, internazionale, universale. Più vicina in questo alla tradizione statalista».
Fino a un certo punto.
«È vero, nel senso che nella concezione marxiana e socialista lo Stato deve essere superato. Lo stato non è la casa, la dimora, come lo è nella concezione gentiliana».
Schmitt che è il grande critico della neutralizzazione che posto occupa?
«Lui non è riconducibile né ai romantici né a Hegel, proviene da Weber. Il suo problema è costruire uno stato con criteri hobbesiani, fuori dagli equivoci organicistici ed etici».
E per questo si mette agli ordini dei nazisti?
«Lavora per loro, convinto di poter creare un processo decisionale nuovo. Cade in un abbaglio, quello della costruzione politica attraverso meccanismi plebiscitari. Ma direi che in generale sono tutte le culture di destra di quel momento, organicistiche, statalistiche, plebiscitarie, a illudersi di imbrigliare il nazismo e il fascismo. Invece accade il contrario. E Schmitt a un certo punto se ne rende conto. Ma è troppo tardi, perché la prepotenza politica del nazismo ingabbia tutto».
Chi si sottrae a questa morsa politica è l´esperienza della rivoluzione conservatrice.
«Armin Mohler, che sull´argomento scrisse nel 1950 un libro importante, definì gli esponenti della rivoluzione conservatrice come "i trotzkisti del nazionalsocialismo" e come tali furono perseguitati. Ma è bene precisare che con questo movimento non hanno nulla a che fare un apocalittico come Spengler e uno come Schmitt».
Qual è il nucleo del loro pensiero?
«Gli autori della rivoluzione conservatrice hanno come denominatore comune il rigetto dell´eredità francese. Sono antigiacobini ma non reazionari. Non si confondono con il grande pensiero controrivoluzionario della restaurazione».
Non si confondono con de Maistre?
«Non solo, neppure con Bonald, Donoso Cortés, che sono, come è noto, i grandi autori studiati da Schmitt».
E nei quali il cattolicesimo ha una funzione non indifferente.
«Appunto. Mentre nella rivoluzione conservatrice gli elementi cattolici sono scarsi. Tutto è svolto in una prospettiva molto tedesca: reinterpretano l´età liberale in una chiave estetico aristocratica. Per questo movimento la democrazia liberale fallisce perché a un certo punto diventa democrazia in senso negativo».
Diventa democrazia di massa.
«Diventa oclocrazia, ossia dominio politico delle masse ma anche individualismo economico. Dunque non rigettano la democrazia, ma ritengono che la democrazia debba essere governata elitariamente».
Chi sono i maggiori rappresentanti?
«Il nome che mi viene in mente è Hugo von Hofmannsthal. C´è un suo saggio del 1927 sulla letteratura austriaca - che è la grande teorizzazione della rivoluzione conservatrice - in cui confluiscono elementi organicistici, negazione di ogni individualismo sradicato, legame con la lingua e il territorio, rifiuto di ogni cosmopolitismo liberale e socialista, di ogni giacobinismo, ma al tempo stesso di ogni forma autoritaria totalitaria».
Il mantello dell´estetica copre tutto.
«Diciamo che è la valorizzazione dell´elemento estetico aristocratico. Secondo me la figura in cui la rivoluzione conservatrice si esprime con la massima nettezza e insuperabile ironia, fino a dissolversi, è l´Arnheim di Musil. La parodia che fa di Rathenau in L´uomo senza qualità mostra come Musil al fondo criticasse il capitalismo senza anima».
Chi invece insiste sullo stile è Gottfried Benn.
«In lui si fa evidente l´apprezzamento del bello, del carattere estetico dell´esperienza. Ai suoi occhi, come a quelli degli altri esponenti della rivoluzione conservatrice, l´aristocrazia deve governare lo stato liberale, deve guidare la democrazia. Occorre perciò formare un governo dei migliori, non un governo del führer, del dittatore».
In quegli anni, parliamo del periodo a cavallo fra il dieci e il venti, assistiamo a delle letture piuttosto singolari di Platone che vanno nella direzione del governo dei migliori.
«Sono soprattutto le letture dei grandi professori tedeschi di greco - la grande scuola filologica dei Wilamowitz - a porre le basi perché si formi questa idea di un governo aristocratico dalle forme democratiche. Ma, ripeto, il testo fondamentale è L´uomo senza qualità che può essere letto come un grande affresco in cui viene dissacrata la visione della rivoluzione conservatrice».
Perché Musil descrivendola la dissacra?
«Perché è consapevole che il moderno va nella direzione opposta dall´estetizzazione della politica».
Un fenomeno simile lo abbiamo con d´Annunzio.
«Simile fino a un certo punto. Anzi, distinguerei nettamente il suo atteggiamento da quello degli esponenti della rivoluzione conservatrice. Anche se va tenuto presente che d´Annunzio è forse l´ultimo grande fatto culturale e antropologico che l´Italia dona all´Europa».
L´ultimo di quale serie?
«Dal Rinascimento in poi l´Italia ha per lungo tempo fornito modelli culturali all´Europa. E d´Annunzio è appunto l´ultimo di questi doni. Ma la rivoluzione conservatrice ha poco a che fare con lui. Musil e Hofmannsthal che di lui amano il lato letterario detestano l´elemento demagogico e populistico che ritengono intrinsecamente autoritario. Così come rifiutano un aspetto nuovo e assolutamente diverso della cultura di destra, cioè l´esperienza futurista».
Che si incarna nella destra rivoluzionaria.
«Non a caso. Lotta contro le degenerazioni della democrazia, ma non è a favore di una restaurazione aristocratica. Sostiene che il capitalismo abbia già un anima, la sua, ed è inutile cambiargliela, come pretendono letterati, esteti e filologi. Del capitalismo esalta la macchina, il sistema, la potenza. E questo sarà un elemento formidabile nella formazione agli inizi del Novecento di una destra europea».
L´aspetto più evidente, almeno in Italia, è una qualche coincidenza fra il programma futurista e una certa idea del fascismo.
«Il futurismo è una componente essenziale del fascismo. Che poi finisca con l´imborghesirsi, con l´istituzionalizzarsi, valga per tutti il Marinetti che finisce all´Accademia d´Italia, fa parte di una logica quasi inevitabile delle avanguardie. Però nella formazione originaria del fascismo l´elemento futurista e rivoluzionario ha un ruolo importantissimo. Tra l´altro Gramsci lo comprende perfettamente. E De Felice non farà che recuperare quella intuizione, per cui il futurismo è essenziale sia per spiegare la nascita del fascismo che alcune parti del pensiero gentiliano».
Questa sua ultima affermazione è meno chiara.
«Intendo futurismo come l´equivalente di rivoluzione. L´attualismo di Gentile è in qualche modo futurismo, cioè atto rivoluzionario. Si tratta dell´interpretazione delle tesi di Marx, che Gentile fa sue. Critica il lato economicistico e sociologistico che del contemporaneo fa Marx e sposta l´elemento rivoluzionario sul piano del pensiero come atto. Agli occhi di Gentile il pensiero è tale non solo quando riflette e pensa il mondo, ma quando s´invera nel trasformarlo».
E questa è la filosofia di Marx?
«Per Gentile sì. Ed è un punto che Del Noce e altri hanno messo in evidenza. Per cui questo aspetto è fondamentale per spiegare la genesi del movimento fascista. E si tratta di una riflessione completamente estranea al nazismo».
Dalle cose dette fin qui vediamo delinearsi due destre, una moderna e l´altra antimoderna.
«E questa distinzione è fondamentale perché di solito quando si parla del suo lato critico del moderno, non si vede l´altra faccia, quella che fa l´apologia del rischio, dell´innovazione, del progressismo capitalista e industrialista, che denuncia l´imborghesimento, che rifiuta i compromessi con le burocrazie statali, che si rammarica della perdita dello slancio vitale della fase eroica. A fronte di questa destra c´è quella organicistica, comunitaria che, abbiamo visto, denuncia l´individualismo che non ha più radici».
Lei accennava anche alle destre in cui l´aspetto culturale si intreccia col pensiero religioso.
«Mi riferivo alla destra cattolica reazionaria e ai suoi grandi maestri della restaurazione: de Maistre, Bonald, Donoso Cortés. Il loro pensiero per certi versi è il meno attuale ma anche il più inquietante».
Quando dice inquietante intende pericoloso?
«Intendo che è talmente drastico da andare alla questione essenziale: o, con la morte di dio e la perdita di tutti i valori, finiremo travolti dall´ateismo, oppure occorrerà scegliere la strada opposta. Ma il punto vero è che per questi pensatori, il dilemma non riguarda tanto la coscienza religiosa del singolo, il sentimento di credenza, bensì va posto all´autorità politica».
L´alternativa è o cristianesimo o ateismo?
«Non ci sono vie di mezzo. Ed è una scelta di cui non si può fare carico la democrazia liberale, perché costoro la considerano del tutto impotente a contenere questa deriva anarchica e nichilista».
Ma questa critica alla democrazia da dove nasce?
«Dalla considerazione che la sua legittimità è messa in crisi dalla sua stessa rappresentanza. Il problema della democrazia è come ridurre il potere sovrano senza distruggerlo. E questo per de Maistre è una contraddizione in termini».
A quale modello politico si richiamano?
«La forma politica che adottano è la Chiesa. E questo vale tanto per i pensatori come de Maistre, quanto per Schmitt».
Ma come convive in Schmitt il suo aspetto weberiano, di consapevolezza del processo di secolarizzazione, con la teologia politica?
«Ma Schmitt non è un reazionario. Sa perfettamente che la sua teologia politica non ha nessuna valenza propositiva. È solo un grimaldello ermeneutico per rappresentare concettualmente il politico contemporaneo. I grandi maestri della restaurazione avanzano l´esigenza di una teologia politica costruttiva, costituente. In Schmitt questo elemento è assente. È un pensatore totalmente disincantato. Non è un reazionario che guarda con nostalgia alla figura del Papa, è uno che si chiede come si può costruire un nuovo artificio statuale nell´epoca della crisi della democrazia liberale, della crisi del diritto internazionale e dell´espandersi dei mercati finanziari».
L´impressione è che questi tentativi di sistemare concettualmente una materia così contrastata, e al suo interno conflittuale, oggi siano del tutto tramontati. C´è una spiegazione plausibile?
«Mi sta chiedendo se quelle destre culturali di cui abbiamo parlato hanno ancora senso?».
Sì.
«Le diverse tradizioni della destra europea - da quella organicistica a quella della rivoluzione conservatrice eccetera - avevano un fine che era tentare di stabilire una identità europea. Ora questa ambizione è del tutto collassata nel secondo dopoguerra. Se prescindiamo dall´esperienza dei totalitarismi, possiamo anche spingerci a riconoscere che nella prima parte del secolo la destra ha tentato di pensare un´idea di Europa. E quando oggi il Papa sottolinea le radici cristiane dell´Europa, non fa che riproporre in piccolo il dilemma: o ateismo o cristianesimo. Se vuole è tutto qui quello che oggi è rimasto delle destre culturali».
(5 - fine. Le puntate precedenti sono uscite il 14 e il 23 dicembre, il 15 e il 20 gennaio)
martedì 27 gennaio 2004
il dottor Geoffroy
Repubblica edizione di Milano 27.1.04
IL DOCUMENTO
In ventinove pagine il ritratto di un malato che crede di essere sano
Nella sua mente c'è il delirio "Ho ucciso per la mia libertà"
di ANNALISA CAMORANI
«Il dottor Geoffroy è stato uno psichiatra tragicamente travolto dalle dinamiche affettive con cui si confrontava». Ci sono le due aggressioni di cui è stato vittima dietro il disturbo delirante che lo ha portato a uccidere. Aggressioni che non ha mai dimenticato e che lo hanno trasformato da vittima a carnefice. «L´atteggiamento del dottor Geoffroy - scrivono i professori Francesco Barale e Alessandra Luzzago - è sprezzante e apertamente polemico. La mimica vivace ed espressiva. La comunicazione implicita che dà è del tipo: sono un combattente estremo, non mi avrete mai. Combatterò fino alla fine».
È scritta in ventinove pagine la fotografia che i due periti incaricati dal tribunale hanno fatto ad Arturo Geoffroy per poi concludere che è incapace di intendere e di volere, incapace di stare a processo e pericoloso socialmente. Nella relazione la mente dell´ex psichiatra è descritta come «un universo ribollente e trainante di ira paranoicale». Situazione aggravata dal fatto che continua ad assumere farmaci antidepressivi che accentuano la sua malattia: «Il trattamento psicofarmacolocio che il dottor Geoffroy si è auto prescritto (un antidepressivo che i sanitari del carcere sono riusciti solo a diminuire nelle dosi) non è tale neppure da permettere di ipotizzare un minimo controllo sul disturbo».
Sulla dinamica che lo ha portato all´omicidio i due periti osservano: «È interessante notare che il dottor Geoffroy sembra essersi profondamente identificato con l´aggressore. Sembra aver agito ripetendo lo stesso scenario di aggressione di cui era stato vittima lui stesso nel ?97 quando era stato alcune ore sotto la minaccia di un paziente psicotico che rivendicava da lui il risarcimento per torti pensionistici subiti». Da quell´episodio parte la battaglia per ottenere il riconoscimento della causa di servizio. Di fronte al rifiuto, Geoffroy denuncia l´Asl, l´Inps, i pm e i giudici che non lo hanno ascoltato. E poi ancora i magistrati di cassazione, i membri del Csm, il ministero di Grazia e Giustizia, il presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica. Anche i magistrati della procura di Genova, Milano, Brescia, Firenze e Torino finiscono nel suo mirino. Tra Geoffroy («che proviene da una famiglia benestante della medio-alta borghesia, con una importante tradizione militare risalente all´avo ufficiale napoleonico») e il resto del mondo, ormai, è guerra aperta. Lui, però, si ritiene una persona assolutamente sana di mente, tanto che rifiuta di sottoporsi a una perizia psichiatrica. Lui è sano, è il mondo che lo perseguita. In carcere, però, si trova bene. Tutto questo emerge chiaramente nella lettera che Geoffroy scrive allo psichiatra del carcere di Genova e che i due esperti allegano alla perizia «perché delinea con estrema chiarezza il suo pensiero in merito al reato».
«Le scrivo - spiega l´ex psichiatra - perché ritengo di dover immediatamente interrompere il nostro rapporto, oltretutto iniziato solo perché sollecitato, da chi non so, ma certo di cui per nulla sentivo il bisogno. Le mie condizioni psicofisiche, infatti, sono più che buone. Anche se tale buona condizione è relativa all´acquisizione da tempo della terapia che, essendo medico psichiatra, sono perfettamente in grado di gestire. Dormo bene, mi sveglio riposato, dopo pranzo faccio una siesta che spesso supera l´ora, mangio con appetito e più di quanto non facessi in libertà, la tonalità del mio umore è buona e anche stabile, l´iniziativa non mi mancava e non mi manca, i nessi associativi sono più che validi e saldi, il mio pensiero, in quanto a contenuti, seppure orientato a recuperare la mia legittima libertà, mi permette di affrontare discretamente qualunque situazione o argomento, mentre la mia affettività è coerente con i contenuti di pensiero, "s´intona"». Geoffroy si descrive sereno e tranquillo «e non certo - specifica - perché abbia fiducia nella giustizia, ché una tale affermazione da me proferita suonerebbe ben peggio che un paradosso, ma semplicemente perché ho fiducia in me stesso. Certo, come sempre, più di prima. Infatti la mia autostima (che "alcuni" vorrebbero vacillante, tanto che ancora molteplici sono i tentativi da parte di "terzi" di instillare in me sensi di colpa irrealistici e immotivati) in seguito ai fatti dell´otto agosto (l´omicidio, ndr) non ha potuto che accrescersi e rafforzarsi. Sono pentito solo per non avere agito con due anni d´anticipo, poiché già allora ricorrevano tutti gli estremi per farlo legalmente». Riguardo all´omicidio, Geoffroy scrive: «Posso dire che, se per ipotesi, avessi potuto riservare lo stesso trattamento contemporaneamente a dieci, dei cento e più che ancora affollano questa vicenda ripugnante, lo avrei fatto e avrei fatto bene. L´omicidio? Il mio primo atto destinato alla autotutela della mia incolumità e libertà che ha avuto successo». Parlando del suo processo e della detenzione in carcere, annota: «Desiderano altri morti? Altro sangue? Non lo sanno ancora che nessuno è tenuto a subire la violenza di altri, nemmeno io? Cosa vogliono, una strage? Chi delinque a mio danno risponde».
IL DOCUMENTO
In ventinove pagine il ritratto di un malato che crede di essere sano
Nella sua mente c'è il delirio "Ho ucciso per la mia libertà"
di ANNALISA CAMORANI
«Il dottor Geoffroy è stato uno psichiatra tragicamente travolto dalle dinamiche affettive con cui si confrontava». Ci sono le due aggressioni di cui è stato vittima dietro il disturbo delirante che lo ha portato a uccidere. Aggressioni che non ha mai dimenticato e che lo hanno trasformato da vittima a carnefice. «L´atteggiamento del dottor Geoffroy - scrivono i professori Francesco Barale e Alessandra Luzzago - è sprezzante e apertamente polemico. La mimica vivace ed espressiva. La comunicazione implicita che dà è del tipo: sono un combattente estremo, non mi avrete mai. Combatterò fino alla fine».
È scritta in ventinove pagine la fotografia che i due periti incaricati dal tribunale hanno fatto ad Arturo Geoffroy per poi concludere che è incapace di intendere e di volere, incapace di stare a processo e pericoloso socialmente. Nella relazione la mente dell´ex psichiatra è descritta come «un universo ribollente e trainante di ira paranoicale». Situazione aggravata dal fatto che continua ad assumere farmaci antidepressivi che accentuano la sua malattia: «Il trattamento psicofarmacolocio che il dottor Geoffroy si è auto prescritto (un antidepressivo che i sanitari del carcere sono riusciti solo a diminuire nelle dosi) non è tale neppure da permettere di ipotizzare un minimo controllo sul disturbo».
Sulla dinamica che lo ha portato all´omicidio i due periti osservano: «È interessante notare che il dottor Geoffroy sembra essersi profondamente identificato con l´aggressore. Sembra aver agito ripetendo lo stesso scenario di aggressione di cui era stato vittima lui stesso nel ?97 quando era stato alcune ore sotto la minaccia di un paziente psicotico che rivendicava da lui il risarcimento per torti pensionistici subiti». Da quell´episodio parte la battaglia per ottenere il riconoscimento della causa di servizio. Di fronte al rifiuto, Geoffroy denuncia l´Asl, l´Inps, i pm e i giudici che non lo hanno ascoltato. E poi ancora i magistrati di cassazione, i membri del Csm, il ministero di Grazia e Giustizia, il presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica. Anche i magistrati della procura di Genova, Milano, Brescia, Firenze e Torino finiscono nel suo mirino. Tra Geoffroy («che proviene da una famiglia benestante della medio-alta borghesia, con una importante tradizione militare risalente all´avo ufficiale napoleonico») e il resto del mondo, ormai, è guerra aperta. Lui, però, si ritiene una persona assolutamente sana di mente, tanto che rifiuta di sottoporsi a una perizia psichiatrica. Lui è sano, è il mondo che lo perseguita. In carcere, però, si trova bene. Tutto questo emerge chiaramente nella lettera che Geoffroy scrive allo psichiatra del carcere di Genova e che i due esperti allegano alla perizia «perché delinea con estrema chiarezza il suo pensiero in merito al reato».
«Le scrivo - spiega l´ex psichiatra - perché ritengo di dover immediatamente interrompere il nostro rapporto, oltretutto iniziato solo perché sollecitato, da chi non so, ma certo di cui per nulla sentivo il bisogno. Le mie condizioni psicofisiche, infatti, sono più che buone. Anche se tale buona condizione è relativa all´acquisizione da tempo della terapia che, essendo medico psichiatra, sono perfettamente in grado di gestire. Dormo bene, mi sveglio riposato, dopo pranzo faccio una siesta che spesso supera l´ora, mangio con appetito e più di quanto non facessi in libertà, la tonalità del mio umore è buona e anche stabile, l´iniziativa non mi mancava e non mi manca, i nessi associativi sono più che validi e saldi, il mio pensiero, in quanto a contenuti, seppure orientato a recuperare la mia legittima libertà, mi permette di affrontare discretamente qualunque situazione o argomento, mentre la mia affettività è coerente con i contenuti di pensiero, "s´intona"». Geoffroy si descrive sereno e tranquillo «e non certo - specifica - perché abbia fiducia nella giustizia, ché una tale affermazione da me proferita suonerebbe ben peggio che un paradosso, ma semplicemente perché ho fiducia in me stesso. Certo, come sempre, più di prima. Infatti la mia autostima (che "alcuni" vorrebbero vacillante, tanto che ancora molteplici sono i tentativi da parte di "terzi" di instillare in me sensi di colpa irrealistici e immotivati) in seguito ai fatti dell´otto agosto (l´omicidio, ndr) non ha potuto che accrescersi e rafforzarsi. Sono pentito solo per non avere agito con due anni d´anticipo, poiché già allora ricorrevano tutti gli estremi per farlo legalmente». Riguardo all´omicidio, Geoffroy scrive: «Posso dire che, se per ipotesi, avessi potuto riservare lo stesso trattamento contemporaneamente a dieci, dei cento e più che ancora affollano questa vicenda ripugnante, lo avrei fatto e avrei fatto bene. L´omicidio? Il mio primo atto destinato alla autotutela della mia incolumità e libertà che ha avuto successo». Parlando del suo processo e della detenzione in carcere, annota: «Desiderano altri morti? Altro sangue? Non lo sanno ancora che nessuno è tenuto a subire la violenza di altri, nemmeno io? Cosa vogliono, una strage? Chi delinque a mio danno risponde».
la lotta di liberazione delle donne islamiche:
la testimonianza di Emma Bonino
Corriere della Sera 27.1.04
Emma e l’Islam: la mia campagna per la libertà
di GOFFREDO BUCCINI
IL CAIRO - La liberazione a volte è un flashback femminista. «Insomma, due anni fa mi ritrovo in un convegno a Kabul, finalmente senza talebani, e c'erano tutte queste donne islamiche in un teatro delabré che pareva tanto la via Pompeo Magno della mia epoca. Parlavano dal palco e non si sentiva un accidente: microfono guasto. E allora una di loro, col velo e tutto quanto, ha gridato: "Meglio così, il microfono è un simbolo fallico!". Beh, mi sono emozionata e m'è venuto un tale sorriso di tenerezza! Perché anche noi le dicevamo, queste stupidaggini, e ci pareva tanto alternativa una riunione senza ordine del giorno, senza presidenza».
Magari senza microfono. «Appunto». Ritorno al passato. «Sì, questo pezzo della mia vita è così. E d'altra parte ogni viaggio che abbia un senso è anche un viaggio interiore». La casa madre, in questo viaggio interiore di Emma Bonino dentro l'Islam al femminile e sulla sponda Sud, spesso dimenticata, dei diritti umani, sta al Cairo, in una strada di cui lei stessa non ricorda il nome («boh, potrebbe essere El Mazad, El Sewersy, comunque la trova di fronte al Marriott, venga tranquillo»), al quarto piano di un palazzo che guarda il Nilo, sull'isolotto di Zamalek. Alla decima sigaretta e al primo nescafè del mattino l'eurodeputata che s'è fatta sparare e chiudere in galera dai bar budos del mullah Omar, arrestare in nome delle libertà individuali a New York come nella natia Bra (provincia di Cuneo), s'è tuffata nell'umanità dolente in Jugoslavia come in Ruanda e nello Zaire e s'è guadagnata da commissaria europea l'ammirazione di mezzo mondo - alle Canarie le hanno intitolato una strada, per i francesi è «Emma Courage», gli spagnoli la amano più della Carrà - dice infine che «è come da noi negli anni Settanta». Cioè? «Cioè anche qui le donne scardineranno tutto, sono un fattore rivoluzionario. Ho detto mille volte che il femminismo è il ventre molle dell'islamismo». Non sarà un po' forte il parallelo tra fanfaniani antidivorzisti e muftì col Corano nella fondina? «Al contrario. Pensi che un intellettuale musulmano moderato come Gamal Al-Banna mi chiede sempre se gli trovo in inglese una storia della Dc, "di questi cattolici che hanno saputo trasformarsi in un partito sempre più laico"». Ottimista? «Le cose marciano. L'Islam politico è già fallito». E nuvole di democrazia scorrono nel cielo di Emma, fresca trionfatrice della conferenza di Sana'a, dove, davanti al triplo dei delegati attesi alla vigilia, ha costretto un tipo come Amr Moussa all'impensabile: «Sappiamo che dobbiamo cambiare, finora siamo stati incapaci di cogliere i processi in movimento», ha ammesso il segretario della Lega Araba. Nel salotto pieno di luce, davanti a una foto con autografo di Aung San Suu Kyi, la Nobel perseguitata dalla dittatura birmana, la Bonino fa a cazzotti con alcuni nugoli di zanzare del Nilo e sorride dolcemente: «Allora come adesso, non è che le realtà me le invento: ci sono...». E lei le fa esplodere come un detonatore? «Eh, l'immagine del detonatore mi piace, sì». Al Cairo c'è arrivata la prima volta un po’ per caso ad aprile 2000, sulle piste d'una femminista qui molto famosa, Nawal El-Saadawi, processata per apostasia: «Una con cui non siamo d'accordo su molto, lei è comunista, nasserita e antiamericana. Però al processo si difendeva in un modo che m'è piaciuto. L'apostasia comporta automaticamente il divorzio, perché il marito non può restare con una donna non più musulmana. E lei diceva: "Dopo quarant'anni di matrimonio avrei ottime ragioni per divorziare, ma no n perché me l'imponete voi". Ho cominciato a capire che l'Egitto non era amico e moderato come ce lo raccontavano. Poi ho conosciuto Saad Ibrahim, pure lui sotto processo. Aveva infangato l'Egitto, dicevano: in realtà aveva denunciato brogli elettorali. Lui è un vulcano, mi ricorda molto Marco, sì, Marco Pannella. In Italia le elezioni del 2001 ci erano andate malissimo. Ho pensato: quasi quasi resto qua a studiare l'arabo». Ancora sta studiando. Nel frattempo, qualche altra cosetta la fa. Lavora con Mona El-Tobgui, ginecologa, figlia di una ginecologa che trent'anni fa girava villaggio per villaggio battendosi contro l'infibulazione. «La prima volta che l'ho incontrata aveva il velo. Mi ha detto: "Copre la testa, mica ostruisce il cervello". Insieme abbiamo pensato che, villaggio per villaggio, nel 4000 stavamo ancora qua a batterci contro le mutilazioni sulle donne. Com'era per me e la Faccio trent'anni fa davanti a 400mila aborti clandestini l'anno, il problema è politico. Così nasce il p rogetto, con l'Aidos e otto organizzazioni non governative africane e arabe». Una lobby. «Sì, advocacy di donne, per le donne, per cambiare la politica, rompiamo le scatole a governatori, presidenti, vogliamo leggi, facciamo convegni, ci aiutano pure la moglie di Mubarak e la regina di Giordania. Io non credo nell'esportazione della democrazia, ma nel sostegno a quei pochi che si battono per averla, sì. Nawal ha scritto un libricino bellissimo contro l'infibulazione, Fidhous . Sihem Ben Seedrine, tunisina, impegnata in una Ong, l'hanno arrestata per attentato contro l'immagine del suo Paese. Democrazia e diritti delle donne qui vanno insieme. Salwa, la mia insegnante di arabo, mutilata da bambina, mi ha raccontato che quando faceva pipì sua madre la metteva nella tinozza dell'acqua tiepida perché l'urina non le bruciasse sulla ferita. Mi ha detto: "Ci mettevo ore per una pipì". Sono rimasta senza parole». Al ricordo la voce le si fa roca, ma potrebbero essere le sigarette. Apre sul computer il sito del partito radicale, le foto di lei a Sana'a, «con le pinguine», le donne velate che le stanno attorno («c'è chi mi ricorda la Tullia Carrettoni, chi la Maraini, chi me stessa», dice). «La prossima partita è in Arabia Saudita, ha un peso enorme». Al Forum di Gedda, giorni fa, un gruppo di imprenditrici s'è presentato senza velo, chiedendo riforme: «Le donne sono il motore della crescita economica», ha detto la manager Loubna Olayan. «E il gran mufti è andato fuori dalla grazia di Dio», ridacchia la Bonino: «Per adesso il ruolo della comunità internazionale non si vede. Noi siamo troppo soft e gli americani pensano di poter risolvere con la guerra pure i problemi politici». E' improbabile che avrà modo di dire queste cose a Ginevra, come Alto commissario Onu per i diritti umani: il nostro governo non sgomita troppo per sostenere la sua candidatura. «Vede, quando nel '99 presi l'8,5 per cento alle europee, Berlusconi mi chiamò e mi fece: "Se mi autorizza a dire che i suoi voti si sommano ai nostri, possiamo dichiarare la vittoria". Io risposi che mi pareva difficile autorizzare alcunché. Cinque anni prima lui mi aveva indicato come commissario europeo su pressione di Pannella e cinque anni dopo, tornando, io mi sono "rubata" quell'8,5 per cento. Credo che questo reato di lesa maestà non se lo sia scordato. Ma non mi pare un grosso problema. Mi sono appena iscritta a un altro corso di arabo».
Emma e l’Islam: la mia campagna per la libertà
di GOFFREDO BUCCINI
IL CAIRO - La liberazione a volte è un flashback femminista. «Insomma, due anni fa mi ritrovo in un convegno a Kabul, finalmente senza talebani, e c'erano tutte queste donne islamiche in un teatro delabré che pareva tanto la via Pompeo Magno della mia epoca. Parlavano dal palco e non si sentiva un accidente: microfono guasto. E allora una di loro, col velo e tutto quanto, ha gridato: "Meglio così, il microfono è un simbolo fallico!". Beh, mi sono emozionata e m'è venuto un tale sorriso di tenerezza! Perché anche noi le dicevamo, queste stupidaggini, e ci pareva tanto alternativa una riunione senza ordine del giorno, senza presidenza».
Magari senza microfono. «Appunto». Ritorno al passato. «Sì, questo pezzo della mia vita è così. E d'altra parte ogni viaggio che abbia un senso è anche un viaggio interiore». La casa madre, in questo viaggio interiore di Emma Bonino dentro l'Islam al femminile e sulla sponda Sud, spesso dimenticata, dei diritti umani, sta al Cairo, in una strada di cui lei stessa non ricorda il nome («boh, potrebbe essere El Mazad, El Sewersy, comunque la trova di fronte al Marriott, venga tranquillo»), al quarto piano di un palazzo che guarda il Nilo, sull'isolotto di Zamalek. Alla decima sigaretta e al primo nescafè del mattino l'eurodeputata che s'è fatta sparare e chiudere in galera dai bar budos del mullah Omar, arrestare in nome delle libertà individuali a New York come nella natia Bra (provincia di Cuneo), s'è tuffata nell'umanità dolente in Jugoslavia come in Ruanda e nello Zaire e s'è guadagnata da commissaria europea l'ammirazione di mezzo mondo - alle Canarie le hanno intitolato una strada, per i francesi è «Emma Courage», gli spagnoli la amano più della Carrà - dice infine che «è come da noi negli anni Settanta». Cioè? «Cioè anche qui le donne scardineranno tutto, sono un fattore rivoluzionario. Ho detto mille volte che il femminismo è il ventre molle dell'islamismo». Non sarà un po' forte il parallelo tra fanfaniani antidivorzisti e muftì col Corano nella fondina? «Al contrario. Pensi che un intellettuale musulmano moderato come Gamal Al-Banna mi chiede sempre se gli trovo in inglese una storia della Dc, "di questi cattolici che hanno saputo trasformarsi in un partito sempre più laico"». Ottimista? «Le cose marciano. L'Islam politico è già fallito». E nuvole di democrazia scorrono nel cielo di Emma, fresca trionfatrice della conferenza di Sana'a, dove, davanti al triplo dei delegati attesi alla vigilia, ha costretto un tipo come Amr Moussa all'impensabile: «Sappiamo che dobbiamo cambiare, finora siamo stati incapaci di cogliere i processi in movimento», ha ammesso il segretario della Lega Araba. Nel salotto pieno di luce, davanti a una foto con autografo di Aung San Suu Kyi, la Nobel perseguitata dalla dittatura birmana, la Bonino fa a cazzotti con alcuni nugoli di zanzare del Nilo e sorride dolcemente: «Allora come adesso, non è che le realtà me le invento: ci sono...». E lei le fa esplodere come un detonatore? «Eh, l'immagine del detonatore mi piace, sì». Al Cairo c'è arrivata la prima volta un po’ per caso ad aprile 2000, sulle piste d'una femminista qui molto famosa, Nawal El-Saadawi, processata per apostasia: «Una con cui non siamo d'accordo su molto, lei è comunista, nasserita e antiamericana. Però al processo si difendeva in un modo che m'è piaciuto. L'apostasia comporta automaticamente il divorzio, perché il marito non può restare con una donna non più musulmana. E lei diceva: "Dopo quarant'anni di matrimonio avrei ottime ragioni per divorziare, ma no n perché me l'imponete voi". Ho cominciato a capire che l'Egitto non era amico e moderato come ce lo raccontavano. Poi ho conosciuto Saad Ibrahim, pure lui sotto processo. Aveva infangato l'Egitto, dicevano: in realtà aveva denunciato brogli elettorali. Lui è un vulcano, mi ricorda molto Marco, sì, Marco Pannella. In Italia le elezioni del 2001 ci erano andate malissimo. Ho pensato: quasi quasi resto qua a studiare l'arabo». Ancora sta studiando. Nel frattempo, qualche altra cosetta la fa. Lavora con Mona El-Tobgui, ginecologa, figlia di una ginecologa che trent'anni fa girava villaggio per villaggio battendosi contro l'infibulazione. «La prima volta che l'ho incontrata aveva il velo. Mi ha detto: "Copre la testa, mica ostruisce il cervello". Insieme abbiamo pensato che, villaggio per villaggio, nel 4000 stavamo ancora qua a batterci contro le mutilazioni sulle donne. Com'era per me e la Faccio trent'anni fa davanti a 400mila aborti clandestini l'anno, il problema è politico. Così nasce il p rogetto, con l'Aidos e otto organizzazioni non governative africane e arabe». Una lobby. «Sì, advocacy di donne, per le donne, per cambiare la politica, rompiamo le scatole a governatori, presidenti, vogliamo leggi, facciamo convegni, ci aiutano pure la moglie di Mubarak e la regina di Giordania. Io non credo nell'esportazione della democrazia, ma nel sostegno a quei pochi che si battono per averla, sì. Nawal ha scritto un libricino bellissimo contro l'infibulazione, Fidhous . Sihem Ben Seedrine, tunisina, impegnata in una Ong, l'hanno arrestata per attentato contro l'immagine del suo Paese. Democrazia e diritti delle donne qui vanno insieme. Salwa, la mia insegnante di arabo, mutilata da bambina, mi ha raccontato che quando faceva pipì sua madre la metteva nella tinozza dell'acqua tiepida perché l'urina non le bruciasse sulla ferita. Mi ha detto: "Ci mettevo ore per una pipì". Sono rimasta senza parole». Al ricordo la voce le si fa roca, ma potrebbero essere le sigarette. Apre sul computer il sito del partito radicale, le foto di lei a Sana'a, «con le pinguine», le donne velate che le stanno attorno («c'è chi mi ricorda la Tullia Carrettoni, chi la Maraini, chi me stessa», dice). «La prossima partita è in Arabia Saudita, ha un peso enorme». Al Forum di Gedda, giorni fa, un gruppo di imprenditrici s'è presentato senza velo, chiedendo riforme: «Le donne sono il motore della crescita economica», ha detto la manager Loubna Olayan. «E il gran mufti è andato fuori dalla grazia di Dio», ridacchia la Bonino: «Per adesso il ruolo della comunità internazionale non si vede. Noi siamo troppo soft e gli americani pensano di poter risolvere con la guerra pure i problemi politici». E' improbabile che avrà modo di dire queste cose a Ginevra, come Alto commissario Onu per i diritti umani: il nostro governo non sgomita troppo per sostenere la sua candidatura. «Vede, quando nel '99 presi l'8,5 per cento alle europee, Berlusconi mi chiamò e mi fece: "Se mi autorizza a dire che i suoi voti si sommano ai nostri, possiamo dichiarare la vittoria". Io risposi che mi pareva difficile autorizzare alcunché. Cinque anni prima lui mi aveva indicato come commissario europeo su pressione di Pannella e cinque anni dopo, tornando, io mi sono "rubata" quell'8,5 per cento. Credo che questo reato di lesa maestà non se lo sia scordato. Ma non mi pare un grosso problema. Mi sono appena iscritta a un altro corso di arabo».
il dibattito sulla psicoterapia in Francia:
un'intervista al genero di Lacan (!)
La Stampa 27.1.04
Appelli, manifesti, assemblee pubbliche, intellettuali in campo (da Bernard-Henri Lévy, a Philippe Sollers) come usava una volta,
un movimento antiautoritario animato da un déjà-vu sessantottardo che ha rotto il guscio di silenzio dentro cui viaggiava questa riforma
di Cesare Martinetti
corrispondente da PARIGI
ANGOSCIATI e nervosi. Parricidi alla ricerca di un padre. Ostinati regolatori dell’universo. Delusi da una patria che vorrebbero nazione eletta. Marianna è sul lettino dell' analista, ma intanto trangugia psicofarmaci: i francesi ne sono i primi consumatori del mondo. Lo dice il governo che vorrebbe regolare per legge anche l’informe mondo del disagio esistenziale. A psicoterapeuti e psicanalisti si pensa di imporre l'esame di Stato. Dai 14 anni in su i ragazzi dovranno riempire a scuola un questionario sui propri disagi psichici. Come per il velo islamico, la disoccupazione, la prostituzione. Controllare, regolare, approvare una legge. Sorvegliare e punire, diceva un indagatore dell’anima francese come Michel Foucault.
Jacques-Alain Miller è, per così dire, il capo degli psicanalisti francesi che in gran parte sono «lacaniani» e cioè seguaci di quella corrente del freudismo elaborata da Jacques Lacan. Anzi, Miller è genero di Lacan, avendo sposato sua figlia. Lui ha condotto la battaglia della psicanalisi francese contro la nuova legge della sanità che vorrebbe inquadrare e controllare gli psicanalisti. Un emendamento approvato in una di quelle sedute notturne a cui partecipano sparuti gruppi di deputati ha scatenato quello che Libération ha chiamato «una ventata di Maggio ’68 nel gelido inverno raffariniano», (da Raffarin, il primo ministro in carica). L’emendamento puntava a mettere ordine nel creativo universo della «psy» francese accordando solo a medici o psicologi la patente di psicanalisti, previa verifica dallo Stato. Il contrario del lacanismo che è invece fondato sull’autolegittimazione, dopo anni di analisi a cui l’analista (non per forza medico o psicologo) deve sottoporsi prima di diventare tale.
La proposta del governo è stata stoppata. Appelli, manifesti, assemblee pubbliche, intellettuali in campo (Bernard-Henri Lévy, Elisabeth Roudinesco, Philippe Sollers) come usava una volta, un movimento antiautoritario animato da un déjà-vu sessantottardo che ha rotto il guscio di silenzio dentro cui viaggiava questa riforma, ma che sta anche cominciando a riflettere su quest’aria regolatrice che avvolge la Francia. Jacques-Alain Miller ce ne offre una lettura lacaniana.
Professore, cos’è questa vostra psicanalisi?
«Io la chiamo un "cuscino compassionevole", un ascolto alla sofferenza, uno spazio che necessariamente si sviluppa in modo non regolato ma che è indispensabile all’equilibrio sociale. È uno spazio di libertà».
Perché siete contrari alla regolazione di questo spazio?
«Perché se viene violato con le armi del controllo sociale si va a squilibrare la società. La sofferenza esiste indipendentemente dalle decisioni del governo e ha bisogno di essere ascoltata. Il risultato di un controllo dall'alto sarà l'aumento della clandestinità».
Però il governo intendeva dare più sicurezze ai pazienti e combattere gli psicoterapeuti ciarlatani. Non pensa che debba esistere una garanzia per chi si vuole rivolgere a uno psicanalista?
«Infatti noi accettiamo che si costituisca un collegio deontologico, anche inquadrato dalla legge, ma autoregolamentato. Imporre agli psicoterapeuti una formazione universitaria, non risolve il problema. Ci sono medici perversi e psicologi esibizionisti. Quella che conta è la formazione personale sul divano attraverso l’analisi, cosa che nessuna università può garantire. L’analisi è una relazione di fiducia, confidenziale e segreta».
Questa battaglia per la libertà di divano sembra allargarsi. Che cosa vede lei dietro l’offensiva del governo sugli psicanalisti?
«Secondo noi questa faccenda rivela il desiderio dell’amministrazione della salute di cambiare molto profondamente le cose. E cioè si vuol passare dalla tradizione clinica francese del caso per caso ad un approccio statistico ed epidemiologico che propone di governare la società attraverso regolamenti universali dello Stato. È una specie di nuovo totalitarismo della salute».
Addirittura?
«Sì, nel campo della psicoterapia è una tendenza nata curiosamente in Quebec e che si sta diffondendo in Francia e in Europa. Lo sfondo di tutto ciò è che la società del rischio, come è stata chiamata, si rivela essere una società della paura alimentata oggi anche dal terrorismo che esprime un desiderio di sicurezza totale. Per questo si va diffondendo oggi il principio di precauzione che però sta restringendo gli spazi di libertà».
Non è un punto di vista un po’ sessantottino?
«Molti noi vengono dal 68, ma io sono convinto che ci troviamo di fronte a un vero pericolo, uno stato etico, lo stato della regolamentazione illimitata e generale che si serve della paura per imbrigliare il desiderio di libertà».
Mi faccia un altro esempio.
«Il ministero dell’Istruzione ha appena diramato una circolare che prevede di accertare la salute mentale dei ragazzi. A tutti gli allievi della "troisième", che hanno 14 anni, sarà dato da riempire un questionario in cui gli si chiede di quali disturbi mentali soffrono. Questa è follia amministrativa. È "igienismo", l’instaurazione di uno stato burocratico a tendenza totalitaria. Naturalmente dicono che è per il nostro bene, dicono che è per la salute mentale dei giovani e vogliono distribuire questi questionari a tutta la popolazione. È ridicolo».
Eppure in tutta Europa c’è oggi una tendenza politica liberale, le politiche sociali tendono a rompere i vincoli e le sicurezze. Non è contraddittorio con quel che lei dice?
«È paradossale, certo, siamo in un momento storico liberale. Ma l’amministrazione è più forte degli uomini politici. E l’amministrazione è del tutto illiberale, l’igienismo è necessariamente autoritario».
In questa tendenza c’è una specificità francese? Per esempio, si dice che i francesi siano i maggiori consumatori al mondo di psicofarmaci. È vero?
«Sì, è vero. Per molti anni qui da noi ha dilagato l’alcolismo, ora si può pensare che la fiducia negli psicofarmaci abbia rimpiazzato l’alcol. Bisogna credere che esiste un’angoscia francese».
Può definirla?
«Mi piacerebbe trovare una bella formula... forse è il prezzo che i francesi pagano per aver tagliato la testa al re. È un popolo parricida».
Che però è alla continua ricerca di un padre, con un presidente della Repubblica che assomiglia ad un re.
«Sì, un popolo parricida angosciato e che dunque ha bisogno di qualcuno che lo protegga dalle proprie angosce. Un popolo nervoso, con un’attitudine rivoluzionaria, che ha dispiegato straordinarie energie nella Rivoluzione e con Napoleone. Uno Stato che era la più grande potenza d’Europa e persino del mondo con Luigi XIV e che ha fatto di se stesso una nazione eletta, ha voluto essere il suo stesso ideale. E siccome non è realistico... ora vive nell’angoscia».
Anche questa ostinazione contro il velo islamico, questa determinazione nel voler fare una legge che lo proibisca ha a che fare con l’angoscia?
«Dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo del partito comunista che nella società giocava un grande ruolo conservatore, le religioni hanno preso grande forza. E così la vecchia tradizione laica cerca una soluzione per mettere un colpo di freno. Il problema è che questa legge sta già creando una grande confusione prima ancora di essere votata».
Una difesa della propria identità?
«Sì, come il voto a Le Pen che appare un rifugio contro i cambiamenti. La destra francese resta tradizionalista, un liberale liberista e innovatore come Alain Madelin non trova consensi. Una destra antiamericana che vive sulla speranza di poter fermare le accelerazioni della Storia».
E voi lacaniani a che gioco giocate?
«Siamo il nocciolo duro della libertà».
Appelli, manifesti, assemblee pubbliche, intellettuali in campo (da Bernard-Henri Lévy, a Philippe Sollers) come usava una volta,
un movimento antiautoritario animato da un déjà-vu sessantottardo che ha rotto il guscio di silenzio dentro cui viaggiava questa riforma
di Cesare Martinetti
corrispondente da PARIGI
ANGOSCIATI e nervosi. Parricidi alla ricerca di un padre. Ostinati regolatori dell’universo. Delusi da una patria che vorrebbero nazione eletta. Marianna è sul lettino dell' analista, ma intanto trangugia psicofarmaci: i francesi ne sono i primi consumatori del mondo. Lo dice il governo che vorrebbe regolare per legge anche l’informe mondo del disagio esistenziale. A psicoterapeuti e psicanalisti si pensa di imporre l'esame di Stato. Dai 14 anni in su i ragazzi dovranno riempire a scuola un questionario sui propri disagi psichici. Come per il velo islamico, la disoccupazione, la prostituzione. Controllare, regolare, approvare una legge. Sorvegliare e punire, diceva un indagatore dell’anima francese come Michel Foucault.
Jacques-Alain Miller è, per così dire, il capo degli psicanalisti francesi che in gran parte sono «lacaniani» e cioè seguaci di quella corrente del freudismo elaborata da Jacques Lacan. Anzi, Miller è genero di Lacan, avendo sposato sua figlia. Lui ha condotto la battaglia della psicanalisi francese contro la nuova legge della sanità che vorrebbe inquadrare e controllare gli psicanalisti. Un emendamento approvato in una di quelle sedute notturne a cui partecipano sparuti gruppi di deputati ha scatenato quello che Libération ha chiamato «una ventata di Maggio ’68 nel gelido inverno raffariniano», (da Raffarin, il primo ministro in carica). L’emendamento puntava a mettere ordine nel creativo universo della «psy» francese accordando solo a medici o psicologi la patente di psicanalisti, previa verifica dallo Stato. Il contrario del lacanismo che è invece fondato sull’autolegittimazione, dopo anni di analisi a cui l’analista (non per forza medico o psicologo) deve sottoporsi prima di diventare tale.
La proposta del governo è stata stoppata. Appelli, manifesti, assemblee pubbliche, intellettuali in campo (Bernard-Henri Lévy, Elisabeth Roudinesco, Philippe Sollers) come usava una volta, un movimento antiautoritario animato da un déjà-vu sessantottardo che ha rotto il guscio di silenzio dentro cui viaggiava questa riforma, ma che sta anche cominciando a riflettere su quest’aria regolatrice che avvolge la Francia. Jacques-Alain Miller ce ne offre una lettura lacaniana.
Professore, cos’è questa vostra psicanalisi?
«Io la chiamo un "cuscino compassionevole", un ascolto alla sofferenza, uno spazio che necessariamente si sviluppa in modo non regolato ma che è indispensabile all’equilibrio sociale. È uno spazio di libertà».
Perché siete contrari alla regolazione di questo spazio?
«Perché se viene violato con le armi del controllo sociale si va a squilibrare la società. La sofferenza esiste indipendentemente dalle decisioni del governo e ha bisogno di essere ascoltata. Il risultato di un controllo dall'alto sarà l'aumento della clandestinità».
Però il governo intendeva dare più sicurezze ai pazienti e combattere gli psicoterapeuti ciarlatani. Non pensa che debba esistere una garanzia per chi si vuole rivolgere a uno psicanalista?
«Infatti noi accettiamo che si costituisca un collegio deontologico, anche inquadrato dalla legge, ma autoregolamentato. Imporre agli psicoterapeuti una formazione universitaria, non risolve il problema. Ci sono medici perversi e psicologi esibizionisti. Quella che conta è la formazione personale sul divano attraverso l’analisi, cosa che nessuna università può garantire. L’analisi è una relazione di fiducia, confidenziale e segreta».
Questa battaglia per la libertà di divano sembra allargarsi. Che cosa vede lei dietro l’offensiva del governo sugli psicanalisti?
«Secondo noi questa faccenda rivela il desiderio dell’amministrazione della salute di cambiare molto profondamente le cose. E cioè si vuol passare dalla tradizione clinica francese del caso per caso ad un approccio statistico ed epidemiologico che propone di governare la società attraverso regolamenti universali dello Stato. È una specie di nuovo totalitarismo della salute».
Addirittura?
«Sì, nel campo della psicoterapia è una tendenza nata curiosamente in Quebec e che si sta diffondendo in Francia e in Europa. Lo sfondo di tutto ciò è che la società del rischio, come è stata chiamata, si rivela essere una società della paura alimentata oggi anche dal terrorismo che esprime un desiderio di sicurezza totale. Per questo si va diffondendo oggi il principio di precauzione che però sta restringendo gli spazi di libertà».
Non è un punto di vista un po’ sessantottino?
«Molti noi vengono dal 68, ma io sono convinto che ci troviamo di fronte a un vero pericolo, uno stato etico, lo stato della regolamentazione illimitata e generale che si serve della paura per imbrigliare il desiderio di libertà».
Mi faccia un altro esempio.
«Il ministero dell’Istruzione ha appena diramato una circolare che prevede di accertare la salute mentale dei ragazzi. A tutti gli allievi della "troisième", che hanno 14 anni, sarà dato da riempire un questionario in cui gli si chiede di quali disturbi mentali soffrono. Questa è follia amministrativa. È "igienismo", l’instaurazione di uno stato burocratico a tendenza totalitaria. Naturalmente dicono che è per il nostro bene, dicono che è per la salute mentale dei giovani e vogliono distribuire questi questionari a tutta la popolazione. È ridicolo».
Eppure in tutta Europa c’è oggi una tendenza politica liberale, le politiche sociali tendono a rompere i vincoli e le sicurezze. Non è contraddittorio con quel che lei dice?
«È paradossale, certo, siamo in un momento storico liberale. Ma l’amministrazione è più forte degli uomini politici. E l’amministrazione è del tutto illiberale, l’igienismo è necessariamente autoritario».
In questa tendenza c’è una specificità francese? Per esempio, si dice che i francesi siano i maggiori consumatori al mondo di psicofarmaci. È vero?
«Sì, è vero. Per molti anni qui da noi ha dilagato l’alcolismo, ora si può pensare che la fiducia negli psicofarmaci abbia rimpiazzato l’alcol. Bisogna credere che esiste un’angoscia francese».
Può definirla?
«Mi piacerebbe trovare una bella formula... forse è il prezzo che i francesi pagano per aver tagliato la testa al re. È un popolo parricida».
Che però è alla continua ricerca di un padre, con un presidente della Repubblica che assomiglia ad un re.
«Sì, un popolo parricida angosciato e che dunque ha bisogno di qualcuno che lo protegga dalle proprie angosce. Un popolo nervoso, con un’attitudine rivoluzionaria, che ha dispiegato straordinarie energie nella Rivoluzione e con Napoleone. Uno Stato che era la più grande potenza d’Europa e persino del mondo con Luigi XIV e che ha fatto di se stesso una nazione eletta, ha voluto essere il suo stesso ideale. E siccome non è realistico... ora vive nell’angoscia».
Anche questa ostinazione contro il velo islamico, questa determinazione nel voler fare una legge che lo proibisca ha a che fare con l’angoscia?
«Dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo del partito comunista che nella società giocava un grande ruolo conservatore, le religioni hanno preso grande forza. E così la vecchia tradizione laica cerca una soluzione per mettere un colpo di freno. Il problema è che questa legge sta già creando una grande confusione prima ancora di essere votata».
Una difesa della propria identità?
«Sì, come il voto a Le Pen che appare un rifugio contro i cambiamenti. La destra francese resta tradizionalista, un liberale liberista e innovatore come Alain Madelin non trova consensi. Una destra antiamericana che vive sulla speranza di poter fermare le accelerazioni della Storia».
E voi lacaniani a che gioco giocate?
«Siamo il nocciolo duro della libertà».
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