mercoledì 21 gennaio 2004

Botticelli a Parigi e a Firenze

Europa, quotidiano diretto da Federico Orlando
Botticelli renovatio mundi

A Palais du Luxembourg, la mostra “Botticelli, da Lorenzo il Magnifico al Savonarola”, che a marzo verrà riproposta e ampliata a Firenze, riscuote l’attenzione dei parigini: a conferma che il nostro tempo tecnologico, trasformando la “Venere” e la “Primavera” in piatte icone e in loghi per ditte, non è riuscito a svuotarle di senso: il senso di inquietudine che, attraversando le stesse immagini della bellezza femminile, preannuncia la transizione dal ‘400 al ‘500, dall’equilibrio mediceo ai turbamenti religiosi.

di Simona Maggiorelli

È stato l’interprete della cultura alta, neoplatonica e umanista, della corte di Lorenzo de Medici, tra frequentazioni dell’Accademia di Marsilio Ficino e riscoperta dei miti classici in chiave neo pagana. La Venere che nasce dalle acque come simbolo di renovatio mundi ne è un esempio intrigante. Vasari nelle Vite parla di Sandro Botticelli come l’artista più vicino alla signoria medicea, quello che meglio sapeva interpretare i valori della grazia, dell’armonia che improntavano il gusto degli intellettuali della cerchia laurenziana. Parla di Botticelli come pittore della prospettiva, della visione chiara e limpida esaltata da Luca Pacioli.
Artefice di paradisi naturali dove la bellezza femminile regna sovrana.
Ma quella della Primavera, guardando bene, è un’immobilità apparente, un sogno di felicità fragile, percorso da sottilissime, quasi invisibili, fratture. A un secondo sguardo, più approfondito, queste seducenti immagini femminili dal passo leggero, tradiscono un movimento incerto, al punto da sembrare di cadere, di poter andare da un momento all’altro in frantumi. Ed è questa segreta vena di inquietudine il filo di pensiero seguito dall’antologica di Botticelli organizzata dal Senato francese in collaborazione con Firenze Mostre. Una vena di inquietudine che dalle prime prove negli anni ’70 del ‘400 alla ultime nel primo decennio del ‘500 via via, da elemento carsico arriverà a farsi fiume in piena e a esplodere nel turbamento religioso savonaroliano. Una mostra, intitolata semplicemente "Botticelli, da Lorenzo il Magnifico al Savonarola", che sta riscuotendo parecchia attenzione da parte dei parigini.
Lunghe code, non solo di turisti, al Palais du Luxembourg dove la rassegna resterà aperta fino al 23 febbraio (per poi riprendere, in forma più ampia, a Firenze da marzo). Segno che l’epoca della riproducibilità tecnica che ha trasformato la Venere e la Primavera in piatte icone del moderno e perfino in logo di qualche ditta, non è riuscita a svuotarle di senso, a ridurle in immagini consumistiche e usurate. Nonostante l’overdose di brutte riproduzioni, o forse anche per quello, c’è voglia di riscoprire l’arte di Botticelli dal vero, di capire qualcosa di più della sua poetica: complessa mescolanza di simbolismo e immediatezza, di inquieta modernità e di recuperi arcaicizzanti; in un’epoca che vedeva già Leonardo al lavoro con lo sfumato e impegnato a dipingere non solo figure ma anche le profonde dinamiche di affetti dei rapporti umani. E la mostra parigina è un forte richiamo a una visione articolata, non parcellizzata di Botticelli, riuscendo a mettere insieme opere provenienti da paesi lontani o mai uscite dai musei europei dove sono conservate e, nel catalogo pubblicato da Skira, dando elementi per ricostruire la koiné politica e culturale in cui nacquero (la lezione è ancora quella di Aby Warburg) i capolavori botticelliani, ricostruendo la formazione dell’artista nell’epoca in cui faceva scuola Filippo Lippi e il Verrocchio aveva una delle botteghe più attive e prestigiose, in un ambiente fiorentino da cui Botticelli, in sostanza, uscì un’unica volta, fra il 1480 e il 1482, per andare a Roma a lavorare alla cappella Sistina .
E proprio alla luce di queste notizie, colpisce il primo trittico di opere con cui s’inaugura il percorso della mostra: in fila la Vergine con bambino del Musèe Fesch di Ajaccio, quella del Louvre e quella di Capodimonte.
Opere quasi coeve, fra le prime prove ufficiali, realizzate intorno alla metà degli anni ’60, in una rapida escalation di autonomia stilistica, passando dalla fragile composizione della tela di Ajaccio alla raffinata composizione di Madonna con bambino e due giovani angeli dal volto adulto e tormentato dentro un hortus conclusus che rimanda alla simbologia mariana, conservata a Napoli.
Del 1470 è invece la rara Madonna dell’Eucarestia proveniente da Boston, già libera dallo stile Lippi, con uno squarcio di paesaggio, sullo sfondo, insolito per Botticelli e in cui l’espressione del volto di Maria, si libera della malinconia tipica di quasi tutte le figure femminili botticilliane; il gesto si addolcisce nel cogliere uva e spighe dal cesto che l’angelo le porge. Ma il salto vero, sorprendente, è con il colorismo e la forza espressiva di due piccole tavole degli Uffizi, il dittico Storie di Giuditta e La scoperta del cadavere di Oloferne dipinte sempre intorno al ’70. Fuori da ogni staticità. In una scena concitata di personaggi, si staglia una raffigurazione plastica, netta , cruda del corpo decapitato di Oloferne, sotto una luce vibrante. Accanto, come se corrispondessero a una diversa visione maschile e femminile dell’episodio, il quadretto con la figura leggera, sfumata, malinconica, di una delicatissima Giuditta, che cammina quasi sfiorando il terreno nella luce diffusa dell’alba. Una ricerca, forse ancora legata al neoplatonismo di una bellezza terrena che è anche accesso al divino, che continuerà poi nell’Allegoria della Primavera e nella Nascita di Venere, le due opere centrali del pittore che gli Uffizi, non hanno concesso alla mostra parigina e che si potranno vedere, insieme a questa cinquantina di opere, niente affatto minori, nell’esposizione organizzata da Firenze Mostre a Palazzo Strozzi. Là come qua il rosseggiante e luminoso affresco staccato dell’Annunciazione degli Uffizi, tavole per l’edizione illustrata della Divina Commedia e una serie di intensi ritratti femminili: ultimo sussulto di quella tensione di ricerca che poi Botticelli placherà in scene religiose dai tratti marcati, quasi incisi, come la concitata scena di storie della Vergine proveniente dall’Accademia di Bergamo o L’Orazione nell’orto, entrambe dipinte passata la soglia del 1500, cercando un immediato impatto devozionale, tornando a stilemi di una pittura austera e arcaicizzante.