martedì 21 dicembre 2004

archeologia
Bagdad: i disastri della guerra

Europa 19.12.04
La cronaca dell’archeologo Fales
Saccheggio in Mesopotamia

di SIMONA MAGGIORELLI

Cercando di fare capolino oltre la cronaca più spiccia. Oltre lo stillicidio di notizie che, a singhiozzo, dopo i giorni feroci del saccheggio sono comparse sui giornali. Puntando a ricostruire passo dopo passo la storia di uno dei più importanti musei dell’area dell’antica Mesopotamia: il museo di Baghdad. Dalla nascita nel 1923 sotto l’egida degli inglesi, alla nazionalizzazione del 1974, ai saccheggi avvenuti durante la Guerra del Golfo, fino al clamoroso sfascio dei primi giorni del dopo Saddam. Con più di 15mila pezzi trafugati in una manciata da giorni, dall’8 al 12 aprile 2003, al termine della rapida invasione dell’Iraq da parte delle forze angloamericane, con migliaia di reperti poi rivenduti al mercato nero e via internet. Oggetti d’arte, che in parte poi sono comparsi in Siria, in Giordania, in Arabia Saudita, ma anche nelle botteghe antiquarie di mezza Europa e degli Stati Uniti. A ripercorrere da vicino queste vicende in un prezioso volume di 470 pagine, "Saccheggio in Mesopotamia", edito dalla casa editrice universitaria Forum di Udine è l’archeologo Frederick Mario Fales, uno dei primi italiani ad andare, più di vent’anni fa a scavare, insieme a colleghi tedeschi e inglesi, i siti archeologici dell’antica Mesopotamia, luoghi dai nomi mitici come Selucia, Babilonia, Ninive. «Lavoravamo negli scavi mentre sopra di noi volavano gli aerei della guerra Iran-Iraq, che andavano a bombardare i curdi» racconta. «Sotto il regime di Saddam – dice Fales – ho conosciuto il museo nel suo fulgore». Una teoria di oltre ventotto gallerie dedicate alla cultura sumera, babilonese, assira, arrivando fino all’età achemenide, ellenistico romana, islamica. Con reperti che risalgono fino a 10mila anni fa. Tra questi anche la famosa Dama di Uruk, misterioso e unico volto femminile scolpito prima dell’età del bronzo, molto prima che la civiltà di Uruk - così raccontano gli studiosi - consegnasse all’umanità l’invenzione della scrittura. Un reperto che, per fortuna, compare oggi nella lista dei beni in salvo (alcuni dei pezzi più preziosi, racconta Fales nel suo libro, erano stati depositati prima della guerra in località segrete). Diversa la sorte toccata, invece, ad altri pezzi come il vaso di alabastro del tempio di Uruk che risale a tremila anni prima Cristo: è stato ritrovato sì, ma gravemente danneggiato. E, se nel caos del 2003, il dramma era stato soprattutto la spoliazione del museo di Baghdad, nel 2004 i danni maggiori sono venuti dagli scavi clandestini dei siti archeologici : l’epicentro del racket dei furti, nel Dhi Qar, nei centri a nord di Nassiriya, come Ash Shatrah e Ar Rifa’i. I ladri hanno depredato con violenza, specie attorno a Nassiriya, dove non c’era sorveglianza. Una strage su commissione, denunciano gli archeologi. Ma anche un danno gravissimo su altri fronti. Perché gli scavi fatti da incompetenti distruggono il contesto, separano il reperto dal suo tempo, dal suo significato. E in questo modo si finisce per perdere una quantità immensa di dati e informazioni. Ma chi c’è dietro quest’evento che si è ripetuto ogni giorno quasi inalterato dal 1991? Si domanda Fales. «Di fatto – scrive nel suo libro – soprattutto iracheni impoveriti che si recano ogni giorno al loro “lavoro” di sterrare le aree archeologiche a caccia di reperti di pregio per poi cederli a ricettatori locali, dietro i quali ci sono organizzazioni internazionali dedite al commercio di reperti antichi. Un traffico – aggiunge – che spesso serve a riciclare denaro sporco». «L’embrago americano – dice Fales – ha fatto le fortune della classe dirigente irachena, ma il resto della popolazione irachena ha subito una severa proletarizzazione per un decennio, e le depredazioni di pezzi d’arte non hanno certo cambiato la loro situazione». Ad arricchirsi, semmai, sono stati altri: antiquari, collezionisti, multinazionali. Sul campo, insomma, non sono rientrati soldi, è rimasta solo la ferita aperta di un mnemocidio, un assassinio della memoria storica. E l’angoscia, per questa vertiginosa perdita non si placa, neanche oggi che arrivano notizie incoraggianti sui ritrovamenti e nonostante gli aiuti internazionali tesi alla ricostruzione del museo di Baghdad con l’ausilio di materiali emetodologie ammodernate. Anche perché, denuncia Fales, in questi lunghi anni di guerra non si sono perse solo ricchezze artistiche ma si è interrotta quella crescita di nuove generazioni di esperti, studiosi e archeologi iracheni che aveva cominciato a produrre risultati importanti fino agli inizi degli anni Novanta. «Per la pauperizzazione degli statali causata dall’embargo – racconta – con conseguente impennata dell’inflazione c’è stata nell’ultima decina di anni una massiccia serie di abbandoni con migrazioni verso il settore privato e, soprattutto, verso altri paesi del Medio Oriente. Oggi è urgente aiutare gli archeologi iracheni a difendere con dignità la propria reputazione professionale rispetto ai nuovi amministratori occidentali, che tendono ad epurare chi aveva un precedente “tesseramento” nel Baath, aiutarli perché possano riprendere le redini dell’attività archeologica del paese riportando l’Iraq nella retemoderna dell’archeologia scientifica»