giovedì 23 dicembre 2004

la scrittrice indiana Arundhati Roy
nonviolenza con grinta

Corriere della Sera 23.12.04
La scrittrice indiana Arundhati Roy ripropone la non violenza come il metodo d’azione più efficace per i movimenti giovanili
Quella graziosa «teppista» sulle orme di Gandhi
di Serena Zoli

«Ci occorre la fredda precisione del proiettile di un killer». E poi: «Dobbiamo scegliere i bersagli e colpirli uno dopo l’altro». Il programma di un terrorista? Parrebbe, con i tempi che corrono. Questo «terrorista» intende invece colpire, e colpire duro, con le armi della non violenza. Un paradosso? Mica tanto. E per dimostrarlo Arundhati Roy - è di lei che si tratta e del suo ultimo libro - rievoca un altro indiano come lei, l’inventore (vincente) della non violenza, il Mahatma Gandhi: quando nel 1930 promosse la «marcia del sale» fino alla città costiera di Dandi, dice, fu per produrre concretamente il sale di cui il Paese aveva bisogno e apportare così «un attacco mirato alle tasse imposte dall’Inghilterra». Aggiunge: «Gandhi sapeva bene come colpire il cuore dell’impero», disarticolandone i meccanismi economici. Ora l’impero è tornato, più grande, anzi globale. È l’impero delle multinazionali, del neoliberismo selvaggio che scarica sempre più «espropri, siccità, agricoltori indebitati» in India e più poveri ovunque. La Roy in questo libro-intervista, L’impero e il vuoto (Guanda, pp. 142, 10), indica una svolta radicale da imporre al movimento no global e al pacifismo: basta manifestazioni, canzoni, cortei o, almeno, non solo questo. Queste sono attività «da weekend», poi il lunedì torniamo tutti a lavorare e i potenti hanno imparato che basta lasciar passare un po’ di tempo, poi hanno mano libera. Una prova: i 15 milioni di persone che il 15 febbraio 2003 sfilarono in tutto il mondo con le bandiere iridate della pace. Ma la guerra in Iraq scattò lo stesso. L’evento non fu inutile, certo: fu «la più grande dimostrazione di moralità pubblica», però «se la disobbedienza civile è solo simbolica», ben poco se ne ricava. «Dobbiamo danneggiarli» è la parola d’ordine che questa fragile, aggraziata ragazza di 43 anni lancia col nuovo libro, una raccolta di quattro conversazioni avute con David Barsamian tra il 2001 e il 2003.
L’intervistatore le fa notare che sorgono sempre più media alternativi, capaci di far passare le notizie vere: sì, ma non basta, obietta l’autrice del fortunato romanzo Il dio delle piccole cose. Occorre che queste voci arrivino a «rendere irrilevanti» i grandi media. «Non è sufficiente attaccarli - ripete - dobbiamo danneggiarli», come fece Gandhi con i colonizzatori inglesi. Bisogna prendere di mira un pezzo di impero alla volta e scardinarlo con efficaci metodi non violenti. Intanto va smontata la nuova immagine della politica e, in particolare, della guerra: un «prodotto» come un altro. Mentre si discuteva dell’attacco in Iraq, la Roy ricorda che il portavoce della Casa Bianca disse: «Secondo le regole del marketing, non si propone un nuovo prodotto in agosto». E l’invasione scattò quando i cittadini-consumatori non erano «distratti» dalle ferie. Un Bush non isolato. Giorni fa, il nostro premier ha rivelato la stessa visione parlando di spot elettorali: «Non ci sono sostanziali differenze per la scelta di un acquisto o del voto», ha detto Berlusconi. È proprio quest’idea della politica come marketing che, dice Arundhati, va smontata nella percezione dei cittadini, affinché «non comprino» come buona o ineluttabile qualunque decisione, presa in uffici ristretti, che ricadrà su di loro.
Nella prefazione, che è di Naomi Klein, l’altra leader dei no global parla con entusiasmo delle doti intellettuali e della passione della Roy, sempre «schierata contro chi tratta gli esseri umani come danni collaterali» vuoi di una mega-diga, vuoi di un attacco terroristico, vuoi di un’invasione militare. E ricorda che l’aggraziata scrittrice si definisce «una teppista». Dopo averla conosciuta, la Klein dice di aver capito cosa intendeva: teppista per «la radicale incapacità di deferenza». Ma se non teppista, di irregolare la bella ragazza, che è stata definita una Audrey Hepburn indiana, ha avuto molto. E qui si racconta senza imbarazzi. Una madre anticonvenzionale per cominciare, divorziata e decisa a non «farsi proteggere» da un nuovo marito che «di tanto in tanto la picchiasse o umiliasse», come accade a tantissime indiane. La sua precoce uscita di casa a 16 anni: andò a vivere in una baracca dal tetto di lamiera, col suo ragazzo e altri studenti che raccoglievano bottiglie vuote di birra per pagarsi l’università (nel caso di Arundhati, architettura).
«Sì, io e mia madre siamo troppo fuori dalle regole, conclude ridendo, perché la gente non pensi che ci deve andar male. Invece noi siamo felici come due streghe».