giovedì 23 dicembre 2004

Grecia
«dove osano i poeti»

da Il Sole 24Ore Ventiquattro
Dove osano i poeti

Al tempo di Saturno e nei primi anni del regno di suo figlio Zeus gli uomini, se erano stati buoni, sapevano che dopo morti sarebbero andati nelle Isole dei Beati. Nessuno sa dire quali isole fossero, ma sia Omero che Esiodo ne parlano.

Le isole greche - C’è chi le identifica con le Cicladi, chi con le Sporadi, chi con le isole del Dodecanneso, all’estremo oriente dell’Egeo. Perché sono infinite, le isole greche. Per Friedrich Hölderlin, il grande poeta tedesco, formano per definizione l’Arcipelago:
«Delle tue isole fiorite nessuna è perduta.
Creta è lì e Salamina verdeggia, ombreggiata da allori,
e fiorita di raggi alza nell’ora dell’alba
Delo il suo capo ispirato, e Tino e Chio
traboccano di frutti purpurei».
L’Arcipelago guarisce l’angoscia di vivere, il suo vento e il suo mare insegnano il divenire, il suo ricordo consola la mente quando vacilla. James Hillman ha definito «Grecia dell’anima» il paesaggio interiore più profondo dell’uomo occidentale. La letteratura greca ha traghettato attraverso i secoli le immagini e la mappa incantata di quel mondo lontanissimo, popolato di dèi e di eroi, di giganti e di ninfe, gremito di statue e di templi, sacro in ogni pietra. Laggiù anche gli alberi e i fiumi parlavano e davano consigli al viaggiatore inquieto, e nessun evento della natura, tempesta o arcobaleno, grandine o rugiada, era privo di senso, ma sempre animato, percorso da voci, innervato di arcani messaggi. Laggiù le donne e gli uomini, e anche gli animali, sapevano ascoltare e ritrovare in una trama di rituali trasognati e sanguinari la primordiale e feroce libertà.
«Per essere greci - diceva Oscar Wilde - non dovremmo avere abiti, per essere medievali non dovremmo avere corpo, per essere moderni non dovremmo avere anima».
Di fronte a Corfù, su una collina di Zante, si vide comparire davanti all’improvviso un piccolo pastore con un agnellino al collo. Una visione panica e insieme un’immagine evangelica che gli ricordò il Buon Pastore degli antichi affreschi. Era il 1877, Wilde aveva ventidue anni e una giacca color oro brunito. Pochi anni dopo, la giovane Edith Wharton passò quattro mesi nell’Egeo. Sul “Vanadis”, lo yacht che aveva noleggiato con il marito, un banchiere bostoniano, costeggiò il Peloponneso, vide Citera. Una tempesta trascinò gli americani arrossati dal sole verso le coste del Mani. Temendo di venire assaliti dai locali, che avevano una millenaria fama di ribelli, briganti e pirati, non gettarono l’ancora, perdendo così uno dei paesaggi più belli della Grecia, lo stesso che Bruce Chatwin scelse per la sua tomba. Sbarcarono invece ad Astipalea. Il pope, il sindaco e tutti gli abitanti scesero in solenne processione a riceverli. Era un gran giorno per l’isola, spiegarono, perché nessuna nave era mai arrivata fin lì e molti degli isolani non ne avevano mai vista una, neanche in lontananza. Nel 1892 Norman Douglas si imbarcò a Brindisi sul “Venus” del Lloyd Austriaco, che lo portò a Corfù. Aveva ventitré anni e sperimentò allora, scrisse nel suo diario, il massimo della gioia di vivere. Imparò rapidamente a leggere e a chiacchierare in greco moderno.
«I ricordi del greco classico che avevo imparato a Karlsruhe - annotò - possono avermi facilitato, ma il fattore principale era lo slancio, o coraggio o temerarietà, della giovinezza».
Proseguì poi per Patrasso, Atene e si fermò a Santorini:
«Una visione che non può deludere nessuno... Pittoresco o romantico sono parole troppo deboli. Lo scenario delle scogliere e i colori del mare e della terra lasciano senza fiato».
L’unico problema era il breakfast. Alloggiava presso una famiglia di locali che poteva dargli soltanto latte di pecora per il caffè del mattino. Il giovane inglese non riuscì mai ad abituarsi a quel sapore grasso e forte.
«Mitilene infossata nel mezzo come una donna coricata»:
così Paul Morand, quando il Secolo Breve era ormai cominciato, vide l’isola di Saffo, l’antica Lesbo.
«Appeso a un massiccio roccioso, caldo e rosso come la crosta del pane, sfregiato da lunghe cicatrici e senza un’oncia di terra vegetale, si trovava l’unico villaggio dell’isola»,
scrisse più tardi in un romanzo, Lewis e Irene, del 1924. Sopra una caserma color ocra sventolava, «come un cielo tagliato a fette», la bandiera greca. Sotto l’unico eucalipto, sostava l’unica auto a nolo, una Ford dalla logora tela cerata. «Come hanno potuto gli antichi greci vivere su queste zattere di roccia?». Al caffè i funzionari comunali, vestiti di tela bianca, con gli occhiali neri sul naso, leggevano il «Journal d’Athènes» in francese. Il pope con il suo ombrello d’alpaca e la barba fino agli occhi faceva il segno della croce sulla tazzina di metallo del caffè amaro e sul bicchiere trasparente dell’acqua. A Creta, invece, andò Evelyn Waugh. Era una sorta di viaggio di nozze. Aveva venticinque anni e si pagava la cabina dello “Stella” scrivendo articoli sulla crociera. Fu affascinato dall’antico porto di Candia, con la sua diga fortificata e il suo Leone di San Marco e il dedalo di vicoli che rivelava a tratti, come uno scenario teatrale, la facciata di un palazzo veneziano in rovina o una fontana ornata di delfini. Ammirò, nel museo, i “barbari splendori” della cultura minoica. Affittò anche lui una Ford e partì per Cnosso, dove fu accolto da una banda di monelli. Aveva con sé una macchina fotografica, ma, quand’era entrato a visitare gli scavi di Lord Evans, l’aveva dimenticata in auto. Al ritorno scattò solo due o tre foto del porto, ma si accorse che sul contatore risultavano più scatti di quanti ne avesse fatti. Quando fece sviluppare la pellicola, scoprì con sorpresa una foto che non aveva scattato né avrebbe potuto scattare: un’immagine mossa della Ford con lo chauffeur al volante e lui a bordo. Cocteau, nel ’36, andò a Rodi. Erano i tempi del Dodecanneso italiano. I fascisti pilotavano aerei, asfaltavano strade, piantavano ai bordi del mare eucalipti e dannunziane tamerici. Nessun occupatore fu tanto amato dai greci quanto i passionali e bonari, caricaturali militari italiani. Ovunque calzolai e barbieri, grappoli di stivali e foto del duce. Eppure Rodi era già Oriente. Il visionario Cocteau vide i primi turbanti, «di quel rosso che il sole spegne fino al malva pallido». Gli scaricatori del porto si coprivano la testa con un pezzo di stoffa arrotolato sulla nuca. Sotto lo sguardo impassibile di una vecchia musulmana velata di nero che fumava sull’orlo di un pozzo bizantino, un soldato italiano intimò al poeta francese di rimettere a posto la Kodak. A Rodi andò anche Truman Capote, nel ’68, prima di approdare a Santorini. «La sola bellezza che mi turba - scrisse - è quella di cui non posso pensare di poter comprare una parte». Un amico americano che viveva sopra Lindos lo portò a visitare una piccola fattoria in rovina, un cubo di pietra su una rada a forma di ferro di cavallo. L’acqua, lì, «era sicura di sé come uno zaffiro che ammicca dalla vetrina di un gioielliere ». Per tremila dollari, pensò, potrei averla, cinque o seimila in più per ristrutturarla. Ci si arrovellò su tutta la notte. Al mattino aveva evocato la transitorietà della vita, la tirannia degli amori, l’assurdità del possesso. Lasciò perdere. Ma se ne sarebbe pentito per il resto della vita. Non lontano da Rodi scelse la sua Isola dei Beati l’ultimo viaggiatore del secolo, Bruce Chatwin. Gli erano sempre piaciuti i paesaggi aridi e spogli, i colori bruni delle rocce, le case bianche e basse. Nessuna isola era più adeguata al suo ideale estetico di quella in cui Giovanni ebbe, in esilio, la sua visione, e vi scrisse l’Apocalisse. Tra le case di Chora, l’antico villaggio addossato al monastero di San Giovanni Teologo, un altro dandy, Teddy Millington- Drake, aveva scelto dagli anni Sessanta la sua dimora. Sotto aveva piantato un giardino verdeggiante, ombreggiato da cipressi. Le mura bianche erano disseminate dei suoi estenuati acquerelli di palazzi e cortili indiani. I due convissero a lungo nella quiete senza tempo di quell’isola considerata sacra e perciò protetta dai rumori della modernità. Fu la vicinanza con il suono del simandron, una sorta di campana, del monastero che spinse entrambi ad avere, quando morirono a distanza di pochissimi anni, funerali ortodossi.