giovedì 23 dicembre 2004

una mostra al Mart di Rovereto
«Il bello e le bestie»

Il Messagger 23.12.04
Di bello in bestia
dal nostro inviato RENATO MINORE

Rovereto. UN PERCORSO intrigante e unico che parte dalle immagini mitologiche forti, dai centauri, dalle sfingi, dalla medusa annichilente, dai satiri sfrenati e libidinosi, dalle sirene dalla voce ammaliante. E approda alle manipolazioni dell’età contemporanea, ai cicli evolutivi dal pesce al post-human alle prese con i “mostri” del passato e del futuro, con l’ibrido, incrocio tra umano e animale, spirituale e carnale, metafora della realtà e punto di vista sul mondo, «attrazione/repulsione, volontà paura di vedersi mostruosi, o di ricreare mostri». Indietro nel tempo, all’origine della storia quando le creature del fantastico vivevano in una condizione mitica privilegiata di convivenza con la natura, «un connubio quasi divino che resta come costante anelito agli occhi dell’uomo». E avanti, in un futuro dove regnano ibridi e manipolazioni su cui è difficile fare scommesse e che comunque ci obbliga ad una continua esplorazione del rimosso, di quella parte oscura che orienta i nostri sentimenti e le nostre emozioni.
Al Mart di Rovereto una grande mostra, Il bello e le bestie (a cura di Lea Vergine e Giorgio Verzotti, fino all’otto maggio, catalogo Skirà) attraverso itinerari tematici che accostano almeno due secoli - dal simbolismo all’estrema contemporaneità - segue l’incontro delle arti visive con il mondo “altro” e animale in cui è raffigurato il “perduto” dell’uomo, la sua dimensione magica, favolistica, sciamanica. Una scelta di quasi duecento opere per abbracciare e confrontare epoche, stili e contributi concettuali di diversa natura, tutti a suggerire la bonne distance dalla natura dell’animale così vicino e così lontano dalla nostra umanità, «parte di noi, una parte dimenticata, perduta, divenuta noi, come un ricordo indelebile e permanente della nostra origine e del nostro divenire. Metamorfosi, artifici e ibridi (dal mito all’immaginario scientifico) che vanno da Arnold Böcklin a Gustave Moreau, da Auguste Rodin a Franz Von Stuck, Matthew Barney, Max Klinger, Odilon Redon, Giorgio De Chirico, René Magritte, George Grosz, Pablo Picasso, Marc Chagall, Arturo Martini, Alberto Savinio, Paul Delvaux, Francis Bacon, Frida Kahlo, Francis Picabia, Ana Mendieta, Francesco Clemente, Sandro Chia, Mimmo Paladino, Maurizio Cattelan, Louise Bourgeois, Cindy Sherman, Kiki Smith fino ai recentissimi lavori di Aspassio Haronitaki, Giuseppe Maraniello, Luigi Ontani. E fino alle esperienze di artisti come Beuys, Gina Pane, Marina Abramovic, Ana Mendieta che, sotto forma di performance, si sono anche fisicamente cimentati in una vera e propria prossimità con l’animale (il coyote di Beuyus, i vermi della Pane, il pitone della Abramovic) in un zona autenticamente “bordeline” che mette radicalmente in questione l’identità del soggetto civilizzato.
Accanto a questa zona centrale e incandescente della mostra che ruota intorno a «quegli esseri privi di peccato chiamati animali», a quel «punto di indecifrabilità tra l’uomo e l’animale», al «fatto comune all’uomo e all’animale» (secondo una felice definizione che Gilles Deleuze applica alla pittura di Bacon), scorre e si distribuisce nei diversi spazi una assai significativa selezione di opere più antiche. Sono gli “archetipi” della produzione artistica occidentale, sul tema del “divenire animale”a partire da un assoluto naturale, da una zona mitica che sta al di qua di ogni disagio della civiltà.
Ecco i vasi e i bronzetti greci e romani raffiguranti i protagonisti di miti e leggende che hanno alimentato nei secoli l’immaginario occidentale fornendo ad esso favole e metafore, tenebra e illuminazione, menzogne e verità di pura affabulazione. Ecco le visioni oniriche delle incisioni di Albrecht Dürer, il bellissimo Giudizio di Re Mida di Cima da Conegliano, le grottesche e fiammeggianti incisioni di Goya, L’uccellatore dell’Arcimboldo, ma anche il Ritratto di Antonietta Gonzalvus di Lavinia Fontana, l’Arrigo Peloso, Pietro Matto e Amon Nano di Annibale Carracci: esempi quest’ultimi di mostri creati dal potente sconvolgimento della natura che testimoniano della prossimità - una terribile deformazione che mescola l’uomo e l’animale - di due regni che si preferirebbe vedere sempre separati. E che tornano ad essere mescolati nell’Autoritratto del 1967 di Matthew Barney, ironico e grottesco, dove «il mostro che è in noi, la prossimità dell’animale, si ritrova all’interno di una ricerca tesa a esplorare il processo di differenziazione sessuale nella genesi del corpo umano». O nel Cartesio: cogito ergo sum di Vettor Pisani, stralunata allegoria di una mutazione che attribuisce al filosofo i tratti asinini e che rimescola in modo beffardo e provocatorio le certezze degli statuti conoscitivi e percettivi appartenenti ai due regni - l’umano e l’animale - che ancora una volta si confrontano e si confondono pericolosamente.