CARCERE
Il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente. Ma è ampia la compresenza di dipendenza da sostanze e problemi psichiatrici. Lo evidenzia la ricerca ''La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti''
di Vittorino Andreoli per il Dap
ROMA - Circa il 27% della popolazione carceraria è tossicodipendente (pari a 15.173 persone), ma la percentuale in alcuni penitenziari sale al 40-45%, secondo i dati rilevati nel 2001. Ma è ampia anche la compresenza di dipendenza da sostanze e problemi psichiatrici: si tratta di cifre significative, con punte sfiorano il 50%. Lo evidenzia la ricerca “La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti”, a cura di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico della ricerca promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria.
Lo studio, pubblicato alla fine dello scorso anno, riporta i risultati di un progetto triennale (svolto dal 2000 al 2003) condotto dall’Ufficio studi, ricerche, legislazione e rapporti internazionali del Dap, finanziato dal Fondo Nazionale per la lotta alla droga (Art. 127 L. 309/90) e gestito dall’allora Dipartimento per gli Affari Sociali – Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’obiettivo del progetto pilota era quello di focalizzare strumenti di valutazione e di intervento per rispondere alle necessità cliniche di questa fascia di detenuti. L’indagine ha analizzato, in particolare, due istituti: il “Due Palazzi” di Padova e la Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma, dove sono stati distribuiti test psicodiagnostici ai detenuti risultati suscettibili di doppia diagnosi psichiatrica dopo l’esame delle interviste autocompilate. Lo studio, che ha comportato una convenzione con le Asl di riferimento (Ussl 16 di Padova e Asl RM A), è stata divisa in due fasi. Nella prima, la ricerca si è proposta di considerare tutta la popolazione tossicodipendente, a rischio di “doppia diagnosi”, usando uno strumento che potesse essere distribuito dal personale di Polizia Penitenziaria opportunamente formato a questo scopo. Sono stati quindi distribuiti dei questionari, messi a punto dal professor Andreoli assieme al dottor Carmelo Cantone, allora direttore del carcere di Padova. Nella seconda fase sono stati invece distribuiti dei test psicodiagnostici ai detenuti risultati a dubbio di “doppia diagnosi”.
Quella della doppia diagnosi risulta essere “una terra di nessuno dove le persone, che sono al tempo stesso affette da disturbi mentali e tossicomani, non possono essere trattate dalla sola psichiatria classica, ma ancora meno dalle sole strutture destinate ai tossicomani”, commenta nell’introduzione il direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dap, Giovanni Tamburino, responsabile del progetto. Un’indagine non facile, quindi, “soprattutto perché non esistono ancora statistiche affidabili sull’argomento a livello europeo, né strutture specifiche di presa in carica delle persone che mostrino una doppia patologia, situazione questa particolarmente inquietante nel caso delle popolazioni carcerarie”.
Doppia diagnosi. Al primo posto, al Due Palazzi e a Regina Coeli, i disturbi borderline di personalità, seguono i disturbi antisociali di personalità, quelli d'ansia, un quadro psicotico sintomatico, un disturbo depressivo con tratti psicotici
ROMA – Su 101 detenuti tossicodipendenti nel carcere “Due Palazzi” di Padova, quelli con profilo psicopatologico sono oltre la metà (62), con sintomi psicotici nel 53,2% dei casi; una percentuale analoga si è riscontrata nella Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma: il 60% dei 100 detenuti interpellati ha un profilo psicopatologico, con sintomatologia psicotica nel 53,3% dei casi, nevrotica nel 33,3%. I dati emergono dalla ricerca “La doppia diagnosi nei detenuti tossicodipendenti”, promossa dall’Ufficio studi del Dipartimento amministrazione penitenziaria e curata di Vittorino Andreoli, coordinatore del comitato scientifico dello studio.
I risultati dimostrano un trend simile, per quanto riguarda la diagnosi rilevate nel carcere di Padova e di Roma; al primo posto, in entrambi i penitenziari, i disturbi borderline di personalità, a cui seguono i disturbi antisociali di personalità, quelli d’ansia, un quadro psicotico sintomatico, un disturbo depressivo con tratti psicotici. Per quanto riguarda una costante nei casi analizzati, “una caratteristica psichica e comportamentale che si può rilevare estensivamente - e che costituisce un elemento unitario tra disturbi da uso di sostanze e disturbi psichiatrici – è l’impulsività”, nota la ricerca, precisando che l’impulsività elevata “è presente nei disturbi di personalità, nei bipolari e nei tossicodipendenti. L’associazione tra disturbi di personalità e abuso di sostanze si è mostrata capace di predire la facilità a commettere reati, in particolare per ciò che concerne il disturbo di personalità borderline e quello antisociale”, nota la ricerca.
Per quanto concerne il trattamento terapeutico, anche l’uso di metadone di mantenimento “andrebbe incontro a un peggiore esito nei casi in cui al disturbo additivo si associano disordini affettivi, ansia e disturbi della personalità”, riferisce lo studio, sottolineando la “marcata necessità di interventi terapeutici inerenti la salute mentale in carcere: gli obiettivi principali sono quelli di implementare la capacità di relazione sociale e le abilità a vivere in modo indipendente”. Infine, “i pazienti con più grave comorbilità ritornano con maggiore difficoltà all’integrazione sociale e presentano un esito negativo in risposta ai più comuni trattamenti, facendo maggior ricordo ai servizi sanitari e sociali”. È stata anche rilevata la necessità di attivare, per i detenuti con disturbi psichiatrici, “strumenti terapeutici integrati, mirati sia al trattamento dello specifico disturbo psichiatrico, sia alla socializzazione e al controllo dell’aggressività”. (lab)
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