domenica 6 febbraio 2005

da "TuttoLibri"

La Stampa TuttoLibri 5.2.05
Dottore, ascolti le parole del corpo
Il primo incontro tra analista e paziente è una reciproca osservazione fisica: sesso, età, bellezza o bruttezza, timbro di voce, abbigliamento... Spesso solo i gesti e i bisogni fisici svelano il respiro della psiche
Augusto Romano


IN una vecchia storia indiana, a cinque monaci ciechi viene chiesto di descrivere un elefante. Il primo si avvicina al pachiderma e gli tocca le gambe: sicuramente l'elefante è un tempio delimitato da poderose colonne. Il secondo palpa la proboscide: l'elefante è simile a un grosso e sinuoso serpente. Al terzo monaco spetta di confrontarsi con la pancia dell'animale: l'elefante è un'imponente montagna. Il quarto si dirige verso un orecchio e dichiara di aver trovato un ampio ventaglio. Infine il quinto, annaspando, prende in mano la coda flessuosa e sottile e descrive l'elefante come una frusta. La lettura dei saggi raccolti nel libro Il corpo in analisi ci fa sperimentare il cieco brancolare dei cinque monaci della storiella: c'è il «corpo soggettivo» e il «corpo sottile», il corpo ritualizzato e il corpo danzante, il contatto corporeo, il Sé corporeo, il corpo malato e il corpo impegnato nel gioco. Naturalmente, in questo affollarsi di immagini e significati, si corre il rischio di perdere di vista l'elefante, ossia il corpo nella sua immediatezza, immanenza e interezza. Come l'elefante, il corpo è ingombrante e si impone. L'analista e il paziente, quando si vedono per la prima volta, cominciano a conoscersi attraverso il corpo. Sesso, età, qualità dello sguardo, bellezza o bruttezza, timbro di voce, abbigliamento, modalità espressive suggellano quel primo incontro, e proprio a quelle iniziali impressioni non di rado viene affidata la decisione di intraprendere il successivo percorso terapeutico.
Come l'elefante, il corpo sbarra il cammino, rappresenta un ostacolo non eludibile. Spesso il paziente porta in seduta malesseri e dolori fisici, e chiede all'analista di trasformarli in immagini, di ricongiungerli a motivi archetipici, di attribuire loro un senso. Come non si può spingere via a forza un elefante dal sentiero, ma occorre parlargli, convincerlo, montargli in groppa; così il corpo non può essere allontanato dalla scena analitica, ma richiede accoglienza e ascolto. Spesso solo attraverso il corpo si riesce ad avvicinare il soggiacente respiro della psiche. Come l'elefante, il corpo esibisce un'energia «bassa», terrestre, sovente cieca. A fianco della proverbiale pazienza e dolcezza degli elefanti, non mancano le leggende che ne rammentano la furia, il divorante appetito, gli scatti di rabbia, tanto che i Romani li impiegavano come macchine da guerra o li addestravano per i sanguinosi spettacoli circensi. L'energia del corpo è un'energia temibile, e per anni i terapeuti hanno tentato di tenerla a bada invocando la regola dell'astinenza e limitando il più possibile il contatto con il paziente, senza tuttavia riuscire ad allontanarla dalla scena analitica. Infine, come l'elefante, il corpo è sacro. Nel simbolismo animale dello yoga-kundalini l'elefante grigio si situa al chakra più basso, alla base della spina dorsale e nell'area genitale, indicando la sede della forza che sorregge, la radice generativa della terra, la comunità, la famiglia. «La via che porta agli Dei passa attraverso l'elefante»: parafrasando questa frase di J. Hillman, potremmo dire che la via che porta al Sé passa attraverso il corpo, attraverso quella sacralità del corpo che nella nostra cultura è andata smarrita. Perciò il corpo non può essere ignorato dall'analista. Già Jung aveva suggerito che nel setting analitico possano essere accolte, per dar voce all'inconscio, esperienze corporee; il paziente può decidere di lavorare con la creta o con la sabbia, può danzare, dipingere, «secondo il gusto e il talento individuale,
... in modo teatrale, dialettico, visivo, acustico, o in forma di danza, di quadro, di disegno o di forma modellata». Il libro è ricco di esempi che mostrano come, soprattutto nelle patologie più gravi, tra il silenzio e un'impossibile elaborazione verbale si apra uno spazio in cui l'interazione tra il paziente e il terapeuta è fatta di gesti, di espressioni mimiche, di piccoli riti colmi di un significato non altrimenti comunicabile. Il terapeuta viene scelto come testimone o partner, specialmente nei casi di più intensa e precoce deprivazione di cure materne. La fenomenologia è ampia e bizzarra e - negli esempi riportati - può andare dall'improvvisa richiesta di un bicchiere d'acqua a quella di essere pettinata, dal chiedere cibo o coperte al prendere in prestito una scatola di proprietà dell'analista per poi riportarla ogni volta riempita di cracker da consumare insieme. O, viceversa, viene data in consegna all'analista una cosa propria, perché egli se ne prenda cura. E ancora: movimenti ritmici del corpo, un impercettibile salmodiare, o la domanda di cantare insieme… Comportamenti emozionanti, che vengono da lontano, dal lato sinistro, oscuro, inconscio, il lato del cuore; e mettono in gioco le risorse del terapeuta al di là del ruolo che abitualmente lo protegge. Questo libro, in modo talora velato, talora più esplicito, ci rimanda a un concetto di importanza fondamentale: l'analisi ha un grande bisogno di corpo, giacché «non si verifica alcun vero cambiamento a meno che succeda non soltanto nella mente, ma anche nel corpo». Un corpo attraverso cui possono trovare voce i complessi di natura pre-verbale, così poco toccati dalle modalità dialogiche dell'analisi. Se il corpo entra nella scena analitica, allora anche all'analista verrà chiesto di cambiare. Non più solo padre saggio, fidato e benefico, al servizio di Logos, ma anche madre amorevole e accogliente, testimone di Eros.

Nathan Schwartz-Salant, Murray Stein (a cura di)
Il corpo in analisi
trad. di Luciano Perez
Edizioni Magi, pp. 259, e16
SAGGIO


La Stampa TuttoLibri 5.2.05
Se ai Greci togli gli dei, spariscono pure gli uomini
Nel mondo, il divino sospende il potere del caos e afferma quello della bellezza: il classico di Walter Otto, storico delle religioni «ispirato» da Nietzsche, un libro per Baricco...
Federico Vercellone


GLI dei sono qui - affermò il grande antagonista di Friedrich Nietzsche, colui che ne condannò la visione mistica della grecità, il rigoroso e scientificamente laicissimo Ulrich von Wilamowitz Moellendorf rammentando così il requisito fondamentale della religione greca, quello per cui il dio consiste della propria apparizione, manifestandosi qui e ora. Il divino - ce lo ricorda il volume Gli dei della Grecia di un grande storico delle religioni eterodosso e d'ispirazione nietzschiana, quale Walter Otto - custodisce, per il greco, una determinata sfera dell'essere e le dà forma. Ogni figura dell'Olimpo restituisce intuitivamente, attraverso i suoi lineamenti, un ambito dell'attività umana o della natura nelle sue sfumature e modulazioni, e ne contempla caratteristiche e peculiarità.
Questa suprema vivente connessione si chiama dio. Proprio per ciò nessun greco si sarebbe mai chiesto se gli dei esistessero: semplicemente li aveva dinanzi come evidenze grazie alle quali una determinata sfera del mondo assume le proprie fattezze. In breve un greco non poteva essere ateo proprio perché non credeva ai suoi dei ma semplicemente ne presupponeva l'esistenza. Stando così le cose non ha alcun senso voler secolarizzare il mondo omerico, poiché se gli si sottrae il divino non gli resta neppure l'umano. E' così che operazioni recenti come quella di Alessandro Baricco, intese a laicizzare un poema come l'Iliade eliminando gli dei dalla narrazione, finiscono per lasciare notevolmente perplessi. L'esito ultimo di un adattamento di questo genere del testo antico è quello di produrre un falso vero e proprio: nessun eroe omerico si sarebbe mai sognato di vivere e agire in un mondo disertato dagli dei. Il disincanto è infatti un prodotto moderno di cui rende ragione un genere tipicamente moderno come il romanzo che con l'epos ha soltanto una vaghissima parentela. Prescindendo ora da divagazioni estemporanee, è il caso di addentrarsi ulteriormente negli Dei della Grecia di Walter Otto, di cui Adelphi presenta una nuova edizione italiana a cura di Giampiero Moretti e di Alessandro Stavru. Alla sua prima edizione, nel 1929, questo testo suscitò interesse e perplessità: esso si proponeva di riproporre lo sguardo nietzschiano sulla religione greca, di mostrare l'abisso originario sul quale il mondo olimpico era venuto a ergersi. Naturalmente la cosa non poteva non suscitare sospetti e contrastanti prese di partito. Nietzsche era infatti stato messo al bando dalla scienza dell'antico proprio da quel
Wilamowitz che avrebbe alla fine adottato il medesimo criterio fatto proprio dal suo antagonista nella Nascita della tragedia, quello secondo cui non si accede al divino che attraverso il divino stesso. Non si può cioè intenderlo se non riconoscendo che esso è ciò che tiene insieme, nella sfera dell'apparizione e non in quella del discorso, diverse sfere dell'essere.
Ciò presuppone una fase più originaria nella quale il divino non è ancora riuscito a prendere dimora nell'ambito che gli compete, quella dell'apparenza, una fase in cui esso lotta per giungere alla chiarezza rappresentativa che gli è propria nell'universo olimpico. Essa è connessa alla sfera della stirpe, del diritto fondato sul sangue; e tutto ciò ci conduce in prossimità dell'Ade, del mondo dei morti. Nello stadio superiore non si è persa del tutto la memoria di questo strato precedente. Lo dimostrano narrazioni come quella di Esiodo a proposito della nascita di Afrodite, secondo la quale questa dea nacque da una curiosa intromissione di Crono nell'amplesso dei genitori, Urano e Terra. Crono evirò il padre e dal seme del sesso divino caduto nel mare e trasformatosi in spuma si venne formando Afrodite. La chiarezza della forma deriva dunque in questo caso da un conflitto oscuro, da un'originaria indistinzione di cielo e terra che, separandosi violentemente, danno luogo alla genesi miracolosa della forma. Nella sua suprema evidenza, essa viene detta bellezza.
La narrazione mitologica non costituisce in nessun modo, da questo punto di vista, un'invenzione fantastica, l'antica testimonianza di un mondo radioso e ingenuo come avrebbe voluto un classicismo caricaturale, ma la testimonianza di una visione profondissima dell'essere e del mondo. Si tratta di un atteggiamento che non testimonia affatto, agli occhi di Otto, una religiosità superficiale alla quale andrebbe accostato per contrasto il cristianesimo. Quando parliamo dei Greci non abbiamo dunque da immaginarci, secondo Otto, un mondo levigato che vive smemorato in una sorta di presente eterno. Al contrario le divinità greche, la loro configurazione, testimoniano - come c'insegna l'esempio di Afrodite - dell'inconcepibile fatica e dolore che costituisce il travaglio della forma, e costituisce il preludio del suo luminoso articolarsi. Attraverso il divino si delinea il mondo nelle sue partizioni, si sospende il potere del caos e s'impone quello più lieve della forma e della bellezza. Walter Otto
Gli dei della Grecia, a cura di Giampiero Moretti e Alessandro Stavru
Adelphi, pp.343, €42
La Stampa TuttoLibri 5.2.05
Quando Hawthorne incontrò Melville
Oddone Camerana


NATHANIEL Hawthorne, celebre soprattutto per La lettera scarlatta, ha lasciato anche numerose e poco note pagine di diari. Una scelta di queste, dedicate agli anni 1835-1862, era stata pubblicata nel 1959 in un volume curato da Agostino Lombardo per l'editore Neri Pozza, tra cui alcune del 1851, che venendo ora alla luce integralmente a cura di Paul Auster, danno testimonianza completa di un episodio della vita dell'autore nordamericano. Vicenda tenera e familiare, ancorché fatata, ma questa volta a lieto fine, e lontana dai temi morbosamente impegnati, cari al grande amico di Melville, teso a scandagliare gli abissi della coscienza o profeticamente in allarme ai segnali di ferraglia alzati dalla rivoluzione industriale in cammino. Al contrario, qui ci troviamo nella quiete della campagna del Massachusetts, a Lennox, piccolo borgo agricolo dove la famiglia Hawthorne ha abitato per un breve periodo della sua vita raminga nella regione del New England. Una vicenda autobiografica, intima, distribuita lungo i venti giorni di prigionia a cui è stato costretto l'autore, lasciato dalla moglie Phoebe e dalle due figlie in visita presso parenti a Westen Newton, a occuparsi del figlio Julian, ragazzino di cinque anni. Venti giorni di relativa solitudine, in attesa del ritorno agognato e liberatorio della moglie. Opera minore o capolavoro in miniatura per chi voglia cedere all'eleganza del modo in cui si viene a contatto con il retroterra dell'autore: il suo mondo, le sue abitudini alimentari, gli orari di casa, i principi a cui tenersi nell'educazione dei figli, l'attenzione, meticolosa e descrittiva, al clima e a un tempo atmosferico straordinariamente reso interessante e poetico dall'estrema variabilità con cui si manifesta nei paesi nordici, il gusto per la vita di campagna senza essere dei campagnoli o dei contadini o in fuga dalla città, le passeggiate, gli spostamenti frequenti richiesti dalle minime necessità e dall'assenza di strutture distributive, l'abitudine alla vicinanza degli animali, gli interni d'epoca, come un incontro con Melville a cavallo o una gita in carrozza col medesimo presso un villaggio abitato da una confraternita di Shakers. Su questa trama di fondo si muovono i protagonisti del libro, anzitutto il personaggio Julian, con i suoi torrenti di parole, la sua chiacchiera continua, il suo bisogno di risposte a domande mosse da una curiosità senza freni, e poi la scrittura di Hawthorne. Pagine silenziose, dominate da una prosa pacata e ironica, attenta ai problemi che sorgono tra l’autore e gli appunti presi per la redazione di un testo privato, tra fatti personali e autobiografici e loro possibile pubblicazione. Quando non sono pagine che portano l'impronta del genio. E' il caso del capoverso dell'ultima pagina del libro in cui Hawthorne, interessato agli aspetti segreti della natura, scopre come il modo di osservare un paesaggio sia quello di guardarlo «prima che abbia il tempo di mutare aspetto». Fa pensare che una ottantina di anni dopo, il fisico tedesco Werner Heisenberg, a cui si deve la formulazione del «principio di indeterminazione», avvertiva il mondo della scienza del fatto che, nell'osservare la natura, bisogna tener conto delle modifiche che l'atto di sottoporla a osservazione provoca in essa. A modo suo, lo aveva anticipato Hawthorne seduto in riva al lago dov'era andato col piccolo Julian, costretto a tenere un occhio su quest'ultimo e uno alla pagina che Hawthorne leggeva, senza dimenticare il paesaggio che si apriva ai suoi occhi.

Nathaniel Hawthorne
Venti giorni con Julian
con un saggio di Paul Auster
Adelphi, pp. 119, e8
DIARIO


La Stampa TuttoLibri 5.2.05
Le Variazioni Gould:
«Mirabilmente singolare»: il genio che ammaliò von Karajan, ispirò «Il soccombente» di Bernhard, disprezzò Toscanini, amò Schoenberg
Alberto Sinigaglia

DITEGLI di smetterla!», il governatore generale del Canada esortava la madre del canadese Glenn Gould. Il ragazzo non poteva continuare a comportarsi così sul palcoscenico: l’aspetto scompigliato, si accucciava scimmiesco sulla tastiera, agitava le braccia, ondeggiava la testa, sempre un bicchiere d’acqua vicino, un piccolo tappeto orientale sotto i piedi. E soprattutto quella sedia bassa, con le gambe segate, sulla quale si accomodava a trentacinque centimetri dal pavimento, le ginocchia più alte del fondoschiena. Ma il pianista, a vent’anni già considerato tra i più straordinari e originali del mondo, non avrebbe mai smesso di dondolarsi e di cantare suonando. Né avrebbe saputo privarsi della sedia, il talismano, la coperta di Linus da cui dipendeva la sua sicurezza. La portava con sè ovunque, la oliava prima d’ogni prova, concerto, incisione. Era tanto consumata che il pubblico temeva di vederla crollare. L’eccentricità non ha nuociuto a Glenn Gould, anzi ne ha subito esaltato il perentorio fascino musicale. Lo ha reso Mirabilmente singolare, precisa il musicologo canadese Kevin Bazzana, che del geniale conterraneo pubblica finalmente la vasta, appassionata, minuziosa biografia, costata vent’anni di ricerche: «L’isolamento lo ha reso misterioso, la riservatezza lo ha reso adorabile, l’apparente asessualità lo ha reso paradossalmente molto attraente agli occhi di alcune sue fan (e di alcuni suoi ammiratori), pur dando luogo a illazioni sulla sua vita privata». Com’è naturale accada a una star della cultura di massa paragonabile alla Callas, a James Dean e a Elvis Presley. Citato nei cartoni animati dei Simpson, Gould ha ispirato film, un racconto di Joyce Carol Oates, romanzi: Il soccombente di Thomas Bernhard, Il silenzio degli innocenti di Thomas Harris. Un preludio e una fuga di Bach incisi da lui erano tra i ventisette esempi di musica della Terra lanciati nello spazio con la navicella Voyager nel 1977. Cominciata la prova del Concerto in re minore di Bach con i Berliner, testimonia un flautista, «Gould non aveva suonato che le prime note della parte pianistica, quando von Karajan per lo stupore smise di dirigere, andò a sedersi in platea e rimase lì ad ascoltare il resto del primo movimento». Più avanti il maestro avrebbe detto: «Ha creato uno stile che apre le porte al futuro». Gould entusiasmò altri direttori: Walter, Stokowski, Leinsdorf, Mitropoulos, Bernstein. Disse Copland: «E’ dal 1849, a Parigi, che non sento più un legato simile». A Parigi nel 1849 era morto Chopin. Arrivarono presto le tournée negli Stati Uniti e in Europa, critiche osannanti, trionfi, ricchezza. Arrivò presto anche un disagio inusuale. Suonare davanti al pubblico gettava Glenn, fragile e ansioso, in uno stato d’inquietudine. Paura e adrenalina da palcoscenico spesso guastavano esecuzioni preparate con cura. Confidava, durante i viaggi, un crescente «malessere letargico». Inoltre, se l’eccentricità gli era servita ad affrettare fama e popolarità, ora non ne sopportava più lo sfruttamento giornalistico, il «ruolo da pagliaccio» che gli veniva chiesto d’interpretare: «Dovunque vada, mi vogliono fotografare mentre butto giù pillole». Ebbe un lampo di collera negli occhi quando, registrando un documentario tv, gli chiesero di indossare sciarpa e guanti mentre si sedeva al pianoforte», essendo proverbiali le sue passeggiate in cappotto nella calura estiva. Domandava a famigliari e amici di non assistere ai propri concerti. Cominciò col vietare gli applausi, finì con il cancellare intere stagioni, irritare le platee, cercando l’incidente, che puntualmente scoccò e suscitò clamore. Decise di smettere per sempre dopo un provocatorio e disgraziato Brahms con Bernstein nell’ottobre 1962. Da allora, «scienziato pazzo» attratto dalle tecnologie, si dedicò a radio, tv, cinema, soprattutto alle incisioni, che vendono oggi più di quando morì, a cinquant’anni, il 27 settembre 1982. Alla fine del millennio la sua ultima incisione del prediletto Bach, le Variazioni Goldberg, ha venduto due milioni di copie. Mentre attraverso le registrazioni continua felice la vita postuma di Gould, il biografo scava nel suo passato: Toronto, l’ambiente provinciale, Glenn bambino che non vorrà mai essere definito prodigio, la precoce intelligenza, le difficoltà a scuola, quelle maggiori con i maestri di pianoforte, il raffreddore continuo, l’amore per gli animali, le notti insonni, la passione per le automobili, la guida spaventosa. E naturalmente la musica: la contorta ammirazione per Horowitz, il disprezzo per Toscanini, l’esplorazione degli autori contemporanei: Berg, Krenek, la «validità atemporale» dell’amato Schoenberg. Il destino ha voluto che a tradurre con cura questo lungo racconto fosse Silvia Nono, figlia di Luigi Nono e nipote di Schoenberg.

Kevin Bazzana
Mirabilmente singolare
Il racconto della vita di Glenn Gould
trad. di Silvia Nono
edizioni e/o, pp. 571, e17,50
BIOGRAFIA