domenica 6 febbraio 2005

mutilazioni genitali femminili
ancora da Gibuti

Liberazione 6.2.05
Stop alle mutilazioni genitali femminili
Una barbarie che riguarda 130 milioni di donne nel mondo. Oggi la giornata internazionale di denuncia
di Maria D'Amico


Da oltre 30 anni la voce delle donne africane si è levata contro la pratica dalle mutilazioni dei genitali femminili. Dalle prime isolate pioniere si è giunti oggi a un fronte variegato ma compatto di organizzazioni non governative, agenzie internazionali, istituzioni, network di donne, che hanno adottato politiche, avviato campagne, condotto ricerche, realizzato azioni di prevenzione a diverso livello per dire basta a queste pratiche di violenza sulle donne che non hanno nessun legame con la religione. Infatti l'attribuzione che spesso viene fatta all'Islam dell'origine delle Fgm (dall'acronimo inglese Female genital mutilation) è dovuta invece alla facilità con cui l'Islam in fase di penetrazione delle culture africane, si è saputo adattare al tessuto tradizionale conformandosi al modo di vita locale. Una specie di africanizzazione della religione musulmana che la ha resa più tollerante nei confronti delle mutilazioni dei genitali femminili, al contrario contrastate da parte della religione cristiana.
Una nuova e importante tappa della lotta alle mutilazioni dei genitali femminili - una barbarie cui si calcola convivano attualmente circa 130 milioni di donne nel mondo e che ancora si abbatte annualmente su due o tre milioni di fanciulle - è rappresentata dalla conferenza regionale "Per un consenso politico e religioso contro la mutilazione genitale femminile". Si è svolta a Gibuti il 2 e 3 febbraio scorso organizzata in cooperazione con il governo gibutino da "Non c'è pace senza giustizia" e l'Aidos - l'Associazione italiana donne per lo sviluppo, a pochi giorni dall'appuntamento mondiale contro queste vere e proprie torture. Oggi infatti si celebra la giornata "Zero tollerance", per denunciare, sensibilizzare l'opinione pubblica, fare il punto sulla situazione.
La conferenza di Gibuti è stata un'occasione unica perché per la prima volta - ed è questa la svolta principale - hanno partecipato ai lavori le massime autorità religiose islamiche della regione oltre ad un gran numero di iman di Gibuti, rappresentanti governativi - tra i quali la ministra per le Donne del nuovo governo somalo, Fowzia Mohamed Cheik - parlamentari ed esponenti della società civile di 11 paesi africani. Paesi dove la percentuale di donne sessualmente mutilate è ancora altissima. Si tratta di Gibuti, dove il 98 per cento delle donne è sottoposte a Fgm, Somalia 98%, Etiopia 80%, Kenya dove le donne mutilate sono tra il 43 e l'89% a seconda se si tratti di aree urbane o rurali, Eritrea 44%, Egitto, dove l'ultimo dato ufficiale parlava di un 83% di donne mutilate, dato però che sembra essersi ridotto drasticamente grazie a grandi campagne informative appoggiate dal clero. Poi ancora Senegal 20%, Somaliland 98%, Sudan 89%, Mali 94% e Yemen 22,6%.
L'obiettivo dichiarato della conferenza era quello di arrivare ad una posizione di rifiuto comune in una regione dove salvo marginali eccezioni, la loro incidenza è pressoché totale e di accelerare allo stesso tempo il processo di entrata in vigore e di effettiva applicazione del Protocollo di Maputo sui diritti della donna africana approvato nel 2003 nel corso di un vertice dell'Unione Africana, che all'articolo 5 proibisce esplicitamente tale pratica. Il Protocollo è stato finora ratificato da otto paesi: Libia, Isole Comore, Ruanda, Namibia, Lesotho, Sudafrica, Senegal, Nigeria. Ma l'esito positivo dei lavori della conferenza di Gibuti non è stato raggiunto facilmente.
Al grido di «rejete» (respinto) scandito ripetutamente tutte insieme - alcune centinaia di donne presenti durante la seduta conclusiva hanno rigettato il documento con il quale gli ulema musulmani avevano ammesso la possibilità di continuare la pratica della mutilazione genitale. «E' stato un momento molto suggestivo - ha raccontato una di loro, Marian Ismail, somala che a Milano dirige i progetti dell'associazione Donne in Rete - perché quando ho cominciato a gridare era la forza della disperazione a spingermi a rifiutare che quell'orrore continuasse a ripetersi. Mi è venuto da piangere quando ho visto che tutte in sala gridavano con me e che il ministro dei beni religiosi strappava quel documento».
Subito dopo la cancellazione di una parte del documento da parte del ministro Mogueh Dirir Samatar, il primo ministro gibutino, Dileita Mohamed Dileita ha annunciato la ratifica da parte del governo del Protocollo di Maputo che sancisce il divieto in tutta l'Africa della pratica della mutilazione genitale. Prima di quell'accordo le mutilazioni dei genitali femminili definite "pratiche tradizionali nefaste" erano state vietate dalla Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del 1989, mentre configurandosi come un atto di violenza contro donne e bambine sono vietate dalla Convenzione internazionale contro la tortura. Il Comitato diritti umani dell'Onu ha più volte affrontato il tema nelle sue risoluzioni: l'obiettivo di abolirle è stato incluso nel Programma d'azione della Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo (1994) e nel Piano d'azione della Conferenza di Pechino sulle donne (1995). «Gibuti sarà ricordata come la prima volta della sconfessione aperta e pubblica di questa pratica - ha affermato la radicale Emma Bonino, una delle organizzatrici della conferenza e promotrice della campagna di sensibilizzazione "Stop Fgm" - se il Cairo nel 2003 con la dichiarazione per le eliminazioni delle mutilazioni è stata la sede degli strumenti legali, d'ora in poi Gibuti sarà il simbolo della forza di questa battaglia, l'occasione in cui ha cominciato a sgretolarsi l'alibi religioso con cui si pretendeva di giustificare questa spaventosa violenza contro le donne. A quelli che tenteranno di rilanciare il concetto di rispetto della tradizione risponderemo con l'arma dell'illegalità di tali posizioni, poiché ci sono trattati internazionali».