Corriere della Sera 5.1.05
IL CASO
Il papa buono
Il vero volto di Roncalli al tempo della Shoah
di DARIO FERTILIO
E adesso vacilla il mito di Giovanni XXIII. La polemica sui battesimi forzati dei bambini ebrei, dopo aver coinvolto la figura già discussa di Pio XII, lambisce persino il Papa buono. Prima ancora che un beato, tanti fedeli vedono in lui una figura rassicurante, l’incarnazione della chiesa dal volto umano, l’immagine popolare del nonno che benedice i nipotini. E naturalmente ricordano l’autore del magistrale discorso dal balcone, quello della «magnifica luna» e della «carezza del Papa» da portare a casa e dedicare ai bambini. Come si concilia questa figura con l’altra, antecedente di vent’anni, ai tempi della nunziatura a Istanbul durante la guerra, così ossequiosa e addirittura allineata alla propaganda fascista? Come spiegare che l’uomo del Concilio e dell’apertura a sinistra, dell’amicizia con Kennedy e del dialogo con i marxisti, potesse ammirare la Germania hitleriana ancora negli anni in cui si preparavano i campi di sterminio per gli ebrei? Possibile che lo stesso personaggio, incarnazione già nei tratti fisici campagnoli della tolleranza religiosa e dell’indulgenza cattolica, avesse sintetizzato di suo pugno, in francese, la direttiva vaticana che prevedeva di non restituire alle famiglie ebree i bambini ebrei sottratti ai nazisti, e battezzati?
Questo Giuseppe Roncalli uno e due, contraddittorio almeno in apparenza, dal comportamento addirittura inspiegabile, emerge da nuove testimonianze storiche che sembrano mutarne il profilo. E dunque suggeriscono una diversa lettura della sua figura: ortodossa, allineata alle direttive vaticane, diplomatica e astuta, prigioniera dei pregiudizi antigiudaici del tempo. E soprattutto vittima del mito «buonista» che, quando era ancora in vita, gli era stato costruito attorno.
Ripercorriamo la vicenda. Lo storico Alberto Melloni pubblica sul «Corriere», nei giorni scorsi, il documento vaticano dell’ottobre 1946, avallato da Pio XII, dedicato ai «piccoli giudei» che «se battezzati, devono ricevere un’educazione cristiana». Immediatamente la stampa internazionale, non solo europea, scatena una polemica sulle effettive responsabilità di Papa Pacelli, quasi a rinfocolare antiche accuse sul suo «antisemitismo» connivente con il regime nazista. Storici come Goldhagen si spingono fino a chiederne la condanna, escludendolo da qualsiasi futuro processo di beatificazione; ieri, invece, lo studioso Matteo Luigi Napolitano, sul Giornale, ridimensiona la portata del documento, negando che si riferisca a singoli casi di bambini ebrei sottratti ai genitori, se mai alle organizzazioni sioniste che intendevano fare emigrare i piccoli (compresi quelli battezzati) in Israele.
Nemmeno il tempo di rifiatare, ed ecco su Avvenire il padre gesuita Peter Gumpel, relatore della causa di beatificazione di Pio XII, esporre i suoi dubbi. Uno, in particolare: perché mai il documento al centro della polemica è scritto in francese, dal momento che si tratta di una comunicazione rivolta dal Sant’Uffizio romano al nunzio di Parigi, l’italiano Giuseppe Roncalli? Già, perché nel fervore della polemica è scivolato in secondo piano un particolare importante: colui che avrebbe dovuto seguire le indicazioni vaticane a proposito dei bambini ebrei altri non era se non il futuro Giovanni XXIII (all’epoca già intorno ai 65 anni), il famoso «Papa buono». Domanda pertinente, quella di Gumpel, che oggi trova risposta: probabilmente era stato proprio Roncalli a redigere quella sintesi in francese (esagerando forse nella semplificazione) per informare delle direttive vaticane la chiesa di Francia.
E dunque? Come è possibile continuare a contrapporre Pio XII a Giovanni XXIII, dal momento che quest’ultimo ne era il subordinato, e fedele collaboratore? Ecco il punto, già sottolineato da Matteo Luigi Napolitano sul Giornale: come mai Roncalli non annotò, nelle agende cui affidava i suoi pensieri, nemmeno una riga sulla questione delle persecuzioni naziste, né tanto meno sulla sorte dei «piccoli giudei»? È vero che, da Istanbul, si era adoperato per assistere praticamente molti ebrei perseguitati. Ma perché, quando osò manifestare le sue perplessità alla Santa Sede durante la Shoah, fu soltanto a proposito della emigrazione degli ebrei in Palestina e della pericolosa utopia sionista, cioè la ricostruzione del «regno d’Israele»?
Domande che sembrano già aprire un nuovo capitolo «revisionistico», questa volta su papa Giovanni. Del resto gli «elementi d’accusa» non sono di oggi: ne è testimone Pier Giorgio Zunino, che insegna storia contemporanea all’università di Torino, e che più di un anno fa ne La Repubblica e il suo passato (edito dal Mulino) portò alla luce alcuni documenti sorprendenti su Giuseppe Roncalli. Sono lettere spedite ai familiari in due periodi diversi quando era nunzio in Turchia: nel 1940, e tre anni più tardi. Nel '40 il futuro Papa dichiara la sua ammirazione non solo per Mussolini, ma anche per la Germania, che ai suoi occhi ha dato prova di ammirevole compattezza nazionale al momento della fulminea vittoria sulla Francia. La società tedesca, commenta, è fatta di uomini «pronti e forti», ben meritevoli di imporsi sulla «sfibrata democrazia francese». Di più: con un incauto parallelismo evangelico paragona i tedeschi di Hitler alle «vergini sagge» che conservano l’olio della fede, mentre i francesi aggrediti gli appaiono simili alle «vergini stolte» (ma i passi più delicati verranno significativamente soppressi nella prima edizione dell’epistolario giovanneo, curato da monsignor Loris Capovilla nel ’68). Tre anni più tardi, fra il luglio e l’agosto del ’43, quando dunque le notizie sugli orrori della guerra e dello sterminio ebraico si sono diffusi, Roncalli raccomanda ancora ai familiari di mantenere «fiducia immutata» nel regime fascista, con l’aggiunta della esortazione: «Voi lavorare, pregare, soffrire, obbedire, e tacere tacere tacere».
C’è qualcosa di cui meravigliarsi? Certamente no, secondo Pier Giorgio Zunino, convinto che «la visione religiosa di cui era imbevuto e portatore, l’età già avanzata e l’alto grado nella gerarchia ecclesiastica, la sua stessa cultura lo portavano a sposare l’idea di una Chiesa capace di acquisire il maggior numero possibile di fedeli e di anime». Ma l’appoggio al nazismo e al fascismo? «È l’esempio di una tradizione culturale che vedeva nell’obbedienza assoluta all’autorità, qualunque fosse, un valore assoluto. Dunque, una società gerarchica, in cui tenere nettamente separati gli obblighi di chi comanda e chi deve obbedire». Per cui, afferma Zunino, il messaggio di Roncalli ai familiari durante la guerra si può sintetizzare così: non preoccupatevi delle scelte politiche italiane, c’è chi ha scelto per voi.
Si profila, dunque, un Roncalli «perfettamente inserito nella cultura cattolica di maggioranza, allineato al fascismo, estimatore della Controriforma (di cui era stato uno studioso), pronto a riconoscere alla Germania il ruolo di nazione guida dell’Europa, nemico del comunismo sovietico ma anche sospettoso delle democrazie occidentali, considerate anticattoliche». E come si spiega il suo chiudere gli occhi di fronte alle persecuzioni naziste degli ebrei? «La domanda - secondo Zunino - non trova risposta sulla base dei documenti. Del resto, pochissime personalità cattoliche furono coscientemente antifasciste. Probabilmente - aggiunge - la dimensione apocalittica del nazismo per molto tempo non venne percepita». Nemmeno nel ’43, quando alla nunziatura di Istanbul molte cose dovevano essere note? «Direi che in quel caso si adeguò - risponde Zunino - con un atteggiamento da alto burocrate».
Resta da spiegare l’evoluzione del suo pensiero e il suo passaggio brusco da cardinale conservatore a uomo del Concilio, dell’apertura a sinistra, del dialogo. Ci fu, da parte sua, soltanto un adeguarsi, un cogliere «i segni del tempo»? Oppure, come ricorda Cesare Cavalleri, direttore di Studi cattolici, «tutti i documenti dottrinali e gli interventi di Giovanni XXIII attestano la sua stretta e rigorosa ortodossia»? Tanto è vero - ribadisce Cavalleri - che «il Concilio era stato affidato, nella fase preparatoria, al più che ortodosso cardinale Ottaviani» e nelle intenzioni del Papa tutto avrebbe dovuto concludersi «entro Natale».
Poi si sa come andarono le cose: lo Spirito soffiò dove voleva, e soprattutto nacque il mito del «Papa buono», con il contorno pittoresco di piatti, scialli e statuette che riproducevano un Roncalli pacioso e gioviale mentre stringeva la mano a John Kennedy, l’uomo della nuova frontiera, o riceveva nel suo studio il direttore della sovietica Isvestija. «Mito fasullo e posteriore - secondo Cavalleri - di cui finì col restare prigioniero quando era ancora in vita. E dire che la sua abilità diplomatica, molto poco campagnola, si era già vista a Parigi, quando aveva messo in campo mondanità, diplomazia e persino alta gastronomia (aveva assunto il miglior cuoco di Parigi) per servire la causa vaticana». E il suo vero spirito, fuori dalla mitologia? «Battagliero, addirittura ascetico».
E allora, a chi giovò la creazione di quel mito? «Fu contrabbandato come tale da teologi del nord, belgi olandesi e tedeschi, personaggi come Schillebeekx, Küng, Alfrink, e finì con l’intaccare l’impianto della morale tradizionale. Ebbe come conseguenza la chiusura dei seminari e la perdita delle vocazioni. E gli effetti di quella strumentalizzazione, l’immagine di un Papa dialogante e aperturista anche con i marxisti, portò a quella teologia della liberazione che ha devastato l’America Latina».
Prigioniero del mito o vittima del post Concilio? «Tutt’e due le cose», per Cavalleri. Ma proprio per questo, meritevole della beatificazione. E comunque, di fronte al giudizio della storia, «non colpevole».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 5 gennaio 2005
una segnalazione di Roberto Martina
una notizia che non era ancora apparsa sul blog:
Il 12 dicembre 2004 è apparso questo flash su tutti i seguenti quotidiani:
Nuova Sardegna - il Centro - Mattino di Padova - Tribuna di Treviso - Nuova Venezia - Gazzetta di Mantova - Gazzetta di Modena - Gazzetta di Reggio - Nuova Ferrara - Provincia Pavese - Corriere delle Alpi - Trentino/Alto Adige
Testo:
«Noi non abbandoniamo il comunismo, anzi vogliamo rendere nuovamente attuale nell’esperienza concreta il termine comunista: ci poniamo una nuova ricerca di liberazione e perciò siamo interessati ad approfondire l’esperienza critica dell’Analisi Collettiva».
Fausto Bertinotti, segretario Prc
una notizia che non era ancora apparsa sul blog:
Il 12 dicembre 2004 è apparso questo flash su tutti i seguenti quotidiani:
Nuova Sardegna - il Centro - Mattino di Padova - Tribuna di Treviso - Nuova Venezia - Gazzetta di Mantova - Gazzetta di Modena - Gazzetta di Reggio - Nuova Ferrara - Provincia Pavese - Corriere delle Alpi - Trentino/Alto Adige
i quotidiani in elenco sono i cosidetti quotidiani FINEGIL, ovvero una serie di quotidiani locali di proprietà del gruppo Espresso-Repubblica
Testo:
«Noi non abbandoniamo il comunismo, anzi vogliamo rendere nuovamente attuale nell’esperienza concreta il termine comunista: ci poniamo una nuova ricerca di liberazione e perciò siamo interessati ad approfondire l’esperienza critica dell’Analisi Collettiva».
Fausto Bertinotti, segretario Prc
il professor Alberto Oliverio: «la biologia non è tutto»
Il Messaggero 5 gennaio 2004
LA BIOLOGIA NON È TUTTO
di ALBERTO OLIVERIO
UN GRUPPO di ricercatori delle Università del Michigan e del Maryland ha scoperto un gene che modifica la sensibilità al dolore: il gene esiste in due forme diverse, una in grado di attivare dei meccanismi di analgesia naturali, l’altra che è invece meno efficace. Le persone in cui predomina la prima forma sono meno sensibili al dolore, o meglio ad alcuni tipi di dolore, rispetto alle seconde: nel loro organismo viene infatti prodotta una maggiore quantità di oppioidi endogeni, degli analgesici naturali che hanno un’azione antidolorifica paragonabile a quella della morfina.
La scoperta è interessante, soprattutto per chi studia il cervello: il gene in questione, infatti, regola l’attività di alcuni neuroni che possono attivare o inibire la funzione di altri neuroni, quelli appunto che producono analgesici naturali. Il gene, però, non è il “gene del dolore”, come si potrebbe affermare frettolosamente, ma uno dei tanti che entrano a far parte di una catena di eventi che culminano in una maggiore o minore percezione della sofferenza fisica. Per di più, non tutti i dolori hanno dinamiche fisiologiche simili; tra quello che caratterizza una scottatura, un mal di pancia o una banale emicrania non ci sono solo differenze di quantità: sono tre tipi di dolore diversi.
Per una strana coincidenza, a distanza di 24 ore sono state date due notizie che hanno qualcosa in comune: oggi molti media parlano del “gene del dolore”, ieri del gene “della timidezza” che farebbe sì che alcuni bambini diventino rossi come peperoni se si rivolge loro la parola e altri siano invece sfrontati e indifferenti alle interazioni sociali. E poi ci sono stati il gene dell’ansia, della tossicodipendenza e via dicendo. Chi non è un biologo molecolare o un neuroscienziato può avere la falsa impressione che ci sia un gene per ogni aspetto della nostra fisiologia e della psiche: se si ha un tipo di gene ci si comporta in un dato modo, se non lo si ha si è qualcosa di diverso, un po’ come nel romanzo di Robert Stevenson Dr. Jekyll poteva trasformarsi in Mister Hyde e passare dalla bontà alla cattiveria. Ci si può quindi domandare perché mai, se è stato scoperto un particolare gene, non si possa, se lo si vuole, regolarne la funzione facendo ad esempio in modo che un ragazzino molto timido o ansioso smetta di arrossire, di essere retratto o preoccupato per un nulla.
La risposta è che, salvo alcune situazioni, nel nostro organismo non esiste un gene di un tipo o dell’altro ma una maggiore presenza di numerose forme geniche: per di più un gene può essere più o meno espresso, vale a dire modificare la biochimica del nostro corpo, a seconda degli organi, dell’età e della presenza di altri geni che, insieme, stabiliscono il modo in cui siamo fatti e ci comportiamo. In alcuni casi, inoltre, come in quello del “gene della timidezza” sono più o meno coinvolti dei recettori che hanno un ruolo anche in altri aspetti del comportamento, come l’ansia, la tendenza ad essere depressi, l’impulsività, la ricerca di stimoli e novità: difficile dire in che senso si orienterà la nostra psiche sulla base delle caratteristiche di un gene che agisce su tanti aspetti del funzionamento cerebrale. Si aggiunga poi il fatto che il nostro comportamento non è dettato soltanto dai geni: quanti di noi, ad esempio, erano timidi da ragazzini e sono oggi disinibiti ed estroversi? Gli anni e le esperienze possono modificare, per fortuna, il modo in cui ci comportiamo, trasformando alcuni aspetti della nostra personalità: conoscere il gioco dei geni è fondamentale ma non banalizziamone le caratteristiche.
LA BIOLOGIA NON È TUTTO
di ALBERTO OLIVERIO
UN GRUPPO di ricercatori delle Università del Michigan e del Maryland ha scoperto un gene che modifica la sensibilità al dolore: il gene esiste in due forme diverse, una in grado di attivare dei meccanismi di analgesia naturali, l’altra che è invece meno efficace. Le persone in cui predomina la prima forma sono meno sensibili al dolore, o meglio ad alcuni tipi di dolore, rispetto alle seconde: nel loro organismo viene infatti prodotta una maggiore quantità di oppioidi endogeni, degli analgesici naturali che hanno un’azione antidolorifica paragonabile a quella della morfina.
La scoperta è interessante, soprattutto per chi studia il cervello: il gene in questione, infatti, regola l’attività di alcuni neuroni che possono attivare o inibire la funzione di altri neuroni, quelli appunto che producono analgesici naturali. Il gene, però, non è il “gene del dolore”, come si potrebbe affermare frettolosamente, ma uno dei tanti che entrano a far parte di una catena di eventi che culminano in una maggiore o minore percezione della sofferenza fisica. Per di più, non tutti i dolori hanno dinamiche fisiologiche simili; tra quello che caratterizza una scottatura, un mal di pancia o una banale emicrania non ci sono solo differenze di quantità: sono tre tipi di dolore diversi.
Per una strana coincidenza, a distanza di 24 ore sono state date due notizie che hanno qualcosa in comune: oggi molti media parlano del “gene del dolore”, ieri del gene “della timidezza” che farebbe sì che alcuni bambini diventino rossi come peperoni se si rivolge loro la parola e altri siano invece sfrontati e indifferenti alle interazioni sociali. E poi ci sono stati il gene dell’ansia, della tossicodipendenza e via dicendo. Chi non è un biologo molecolare o un neuroscienziato può avere la falsa impressione che ci sia un gene per ogni aspetto della nostra fisiologia e della psiche: se si ha un tipo di gene ci si comporta in un dato modo, se non lo si ha si è qualcosa di diverso, un po’ come nel romanzo di Robert Stevenson Dr. Jekyll poteva trasformarsi in Mister Hyde e passare dalla bontà alla cattiveria. Ci si può quindi domandare perché mai, se è stato scoperto un particolare gene, non si possa, se lo si vuole, regolarne la funzione facendo ad esempio in modo che un ragazzino molto timido o ansioso smetta di arrossire, di essere retratto o preoccupato per un nulla.
La risposta è che, salvo alcune situazioni, nel nostro organismo non esiste un gene di un tipo o dell’altro ma una maggiore presenza di numerose forme geniche: per di più un gene può essere più o meno espresso, vale a dire modificare la biochimica del nostro corpo, a seconda degli organi, dell’età e della presenza di altri geni che, insieme, stabiliscono il modo in cui siamo fatti e ci comportiamo. In alcuni casi, inoltre, come in quello del “gene della timidezza” sono più o meno coinvolti dei recettori che hanno un ruolo anche in altri aspetti del comportamento, come l’ansia, la tendenza ad essere depressi, l’impulsività, la ricerca di stimoli e novità: difficile dire in che senso si orienterà la nostra psiche sulla base delle caratteristiche di un gene che agisce su tanti aspetti del funzionamento cerebrale. Si aggiunga poi il fatto che il nostro comportamento non è dettato soltanto dai geni: quanti di noi, ad esempio, erano timidi da ragazzini e sono oggi disinibiti ed estroversi? Gli anni e le esperienze possono modificare, per fortuna, il modo in cui ci comportiamo, trasformando alcuni aspetti della nostra personalità: conoscere il gioco dei geni è fondamentale ma non banalizziamone le caratteristiche.
il professor Sergio Givone, sulla malinconia
Il Messaggero Mercoledì 5 Gennaio 2005
QUANTI POETI MALINCONICI
di SERGIO GIVONE
IDENTIFICARE le cause biologiche dei nostri stati emotivi è un sogno antico quanto la medicina. Per secoli, a partire da Ippocrate e da Galeno, poi fino alle soglie dell'età moderna, si è pensato che l'atteggiamento nei confronti di se stessi, degli altri e del mondo fosse determinato dalla prevalenza di uno dei quattro umori fondamentali del corpo umano. Così per esempio la bile nera era ritenuta responsabile della malinconia, il flegma della calma e della prudenza, e avanti su questa falsariga. La medicina scientifica e in particolare la genetica sembrano voler confermare quell'intuizione.
Salvo che le cause delle emozioni e delle affezioni psichiche non sono più cercate negli umori, ma per l'appunto nei geni.
Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. L'annuncio recente per cui sarebbe stato scoperto il gene della timidezza, a conferma della teoria in base alla quale i comportamenti degli esseri umani dipenderebbero dal corredo genetico di ciascuno, s'inserisce all'interno di un quadro noto. Sarà la scienza a darne conferma.
Senonché fin da ora possiamo dire che, quand'anche la scienza fosse in grado di tracciare una completa mappatura dei geni e delle emozioni corrispondenti, resterebbe da risolvere più di un problema.
Intanto bisogna considerare che le grandi emozioni umane (e non soltanto le grandi, naturalmente) nel corso del tempo mutano, cambiano figura, diventano tutt'altro da quel che erano. Prendiamo uno stato emotivo che è anche una patologia sempre più diffusa e minacciosa, per certi aspetti una vera e propria epidemia psichica del nostro tempo: la depressione. Solo venti o trent'anni fa si sarebbe parlato non già di depressione bensì di angoscia. A sua volta l'angoscia era stata preceduta da una lunga storia e anzi da un'intera costellazione di concetti, nei quali troviamo espresso il senso di vuoto, di sgomento e di morte che afferrano il cuore e la mente e non lasciano spazio alcuno alla speranza. Vedi l'inglese spleen. O il tedesco weltschmerz. O il francese ennui. Tutti termini il cui significato echeggia nella noia leopardiana. La quale noia ha ben poco in comune con la noia di cui parliamo noi oggi, in quanto a differenza di quest'ultima essa era espressione di un pessimismo cosmico che nell'insensatezza del vivere vedeva la cifra del nostro destino e dunque rinviava semmai alla melancholia rinascimentale e al taedium vitae dei romani, pur essendo cosa un po' diversa... Come la mettiamo allora? Sembra difficile poter ipotizzare che tutte queste esperienze siano governate dallo stesso gene.
Ma c'è anche un'altra questione. Diamo pure per dimostrato che lo stesso gene sia la causa della depressione, dell'angoscia, della malinconia, ecc. Il depresso non potrebbe che prenderne atto con un certo sollievo. Se non altro perché potrebbe chiedere di intervenire sull'origine della sua malattia in modo definitivo, in modo cioè da rimuoverne la causa. Come non ricordargli però che quando la sua patologia era chiamata altrimenti (angoscia, malinconia) ci fu chi vide in essa non tanto una forma di disagio psichico da eliminare quanto la via d'accesso a forme di esperienza e di conoscenza che diversamente sarebbero precluse all'uomo? Certo, questa non è una ragione sufficiente per dire al malato di tenersi la sua malattia e di soffrire in nome di sublimi realtà spirituali. E tuttavia l'intera storia della cultura attesta che molte (se non tutte, come credeva Aristotele) delle più grandi opere dell'ingegno umano sono figlie di qualche patologia.
Vogliamo curarle, queste patologie? Benissimo. Purché ci si renda conto con chi e con che cosa abbiamo a che fare. Prendiamo la malinconia, ma lo stesso vale per la timidezza, e per tutti gli altri stati emotivi che sono propri dell'uomo. Se ci si dice che, essendo stata identificata la causa della malinconia in un determinato gene non resta che intervenire sul gene, il sospetto d'aver imboccato una strada sbagliata è più che legittimo.
QUANTI POETI MALINCONICI
di SERGIO GIVONE
IDENTIFICARE le cause biologiche dei nostri stati emotivi è un sogno antico quanto la medicina. Per secoli, a partire da Ippocrate e da Galeno, poi fino alle soglie dell'età moderna, si è pensato che l'atteggiamento nei confronti di se stessi, degli altri e del mondo fosse determinato dalla prevalenza di uno dei quattro umori fondamentali del corpo umano. Così per esempio la bile nera era ritenuta responsabile della malinconia, il flegma della calma e della prudenza, e avanti su questa falsariga. La medicina scientifica e in particolare la genetica sembrano voler confermare quell'intuizione.
Salvo che le cause delle emozioni e delle affezioni psichiche non sono più cercate negli umori, ma per l'appunto nei geni.
Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. L'annuncio recente per cui sarebbe stato scoperto il gene della timidezza, a conferma della teoria in base alla quale i comportamenti degli esseri umani dipenderebbero dal corredo genetico di ciascuno, s'inserisce all'interno di un quadro noto. Sarà la scienza a darne conferma.
Senonché fin da ora possiamo dire che, quand'anche la scienza fosse in grado di tracciare una completa mappatura dei geni e delle emozioni corrispondenti, resterebbe da risolvere più di un problema.
Intanto bisogna considerare che le grandi emozioni umane (e non soltanto le grandi, naturalmente) nel corso del tempo mutano, cambiano figura, diventano tutt'altro da quel che erano. Prendiamo uno stato emotivo che è anche una patologia sempre più diffusa e minacciosa, per certi aspetti una vera e propria epidemia psichica del nostro tempo: la depressione. Solo venti o trent'anni fa si sarebbe parlato non già di depressione bensì di angoscia. A sua volta l'angoscia era stata preceduta da una lunga storia e anzi da un'intera costellazione di concetti, nei quali troviamo espresso il senso di vuoto, di sgomento e di morte che afferrano il cuore e la mente e non lasciano spazio alcuno alla speranza. Vedi l'inglese spleen. O il tedesco weltschmerz. O il francese ennui. Tutti termini il cui significato echeggia nella noia leopardiana. La quale noia ha ben poco in comune con la noia di cui parliamo noi oggi, in quanto a differenza di quest'ultima essa era espressione di un pessimismo cosmico che nell'insensatezza del vivere vedeva la cifra del nostro destino e dunque rinviava semmai alla melancholia rinascimentale e al taedium vitae dei romani, pur essendo cosa un po' diversa... Come la mettiamo allora? Sembra difficile poter ipotizzare che tutte queste esperienze siano governate dallo stesso gene.
Ma c'è anche un'altra questione. Diamo pure per dimostrato che lo stesso gene sia la causa della depressione, dell'angoscia, della malinconia, ecc. Il depresso non potrebbe che prenderne atto con un certo sollievo. Se non altro perché potrebbe chiedere di intervenire sull'origine della sua malattia in modo definitivo, in modo cioè da rimuoverne la causa. Come non ricordargli però che quando la sua patologia era chiamata altrimenti (angoscia, malinconia) ci fu chi vide in essa non tanto una forma di disagio psichico da eliminare quanto la via d'accesso a forme di esperienza e di conoscenza che diversamente sarebbero precluse all'uomo? Certo, questa non è una ragione sufficiente per dire al malato di tenersi la sua malattia e di soffrire in nome di sublimi realtà spirituali. E tuttavia l'intera storia della cultura attesta che molte (se non tutte, come credeva Aristotele) delle più grandi opere dell'ingegno umano sono figlie di qualche patologia.
Vogliamo curarle, queste patologie? Benissimo. Purché ci si renda conto con chi e con che cosa abbiamo a che fare. Prendiamo la malinconia, ma lo stesso vale per la timidezza, e per tutti gli altri stati emotivi che sono propri dell'uomo. Se ci si dice che, essendo stata identificata la causa della malinconia in un determinato gene non resta che intervenire sul gene, il sospetto d'aver imboccato una strada sbagliata è più che legittimo.
sinistra
Bertinotti, Cossutta, Rizzo
Gazzetta del Sud 5.1.05
Fausto Bertinotti invita la sinistra a non inseguire la personalizzazione politica
Condanno l'aggressione di Piazza Navona: è di destra
di Martino Martellini
ROMA – «Chi mi contesta per il fatto che ho condannato l'aggressione di Piazza Navona è legato alla cultura del gesto e non si rende conto che atti di questo genere sono di destra, hanno un sapore dannuziano che non ha niente della forza efficace e non violenta della critica di massa». Fausto Bertinotti taglia corto sulle polemiche sorte intorno all'interpretazione del gesto del muratore mantovano e preferisce un'analisi più profonda sui rischi della personalizzazione della politica.
Lei ha detto che le interessa più contrastare la politica economica del premier che la persona Berlusconi... «La politica della sinistra deve tendere alla partecipazione di massa, alla più ampia condivisione degli obiettivi e deve sottrarsi alla personalizzazione dello scontro. Non mi posso fermare alla critica della persona ma debbo fare una lucida lettura del sistema e allora dico subito: ragioniamo su quanto il maggioritario ci ha condizionati».
Questo è un discorso che lei ha fatto più volte... «Non mi stancherò mai di farlo, ci sono anche dei sondaggi recenti che ci spiegano quanto incide sul sistema il peso della personalizzazione della politica. È un sistema malato, vince la spettacolarizzazione. Come negli Stati Uniti dove le aggressioni al simbolo, all'uomo immagine, sono il rischio di certe esasperazioni».
Ma il leader non si può criticare? «Attenzione a non stabilire un corto circuito che sarebbe lesivo dell'esercizio della critica democratica. È quello che sta tentando di fare la destra quando lega con un principio di causa ed effetto la contestazione, magari anche non rispettosa, all'aggressione fisica. Questo non può essere accettato perché allora dovremmo parlare ai lesa maestà ed onestamente mi sembra assurdo ragionare in questi termini. Noi non siamo gli oppositori di Sua Maestà!».
Le forze dell'alleanza democratica stanno insieme perché legate dall'antiberlusconismo? «Ma è chiaro. Io su questo tema non me la sento di avere un atteggiamento aristocratico. Interpreto il dissenso che c'è nel paese e dico che bisogna battere la politica del premier. Punto. È chiaro che non c'è solo questo ma per favore non ci dimentichiamo che la politica è fatta di sì e di no. E qui c'è bisogno di un bel no».
Sono «fuori luogo» le polemiche, che vengono sia da destra che da sinistra, sull'aggressione ai danni di Silvio Berlusconi. A richiamare i poli è Armando Cossutta, che ribadisce la posizione già assunta nei giorni scorsi e definisce «sterili» gli scambi di accuse tra Cdl e Gad. «Considero del tutto fuori luogo le polemiche a sinistra in difesa (o quasi) del gesto di Dal Bosco. Il gesto del giovane mantovano va condannato: punto e basta – afferma il presidente dei Comunisti Italiani – Ma va condannata ogni polemica a destra contro il giudice che lo ha legittimamente scarcerato, così come va condannata ogni aggressione e demonizzazione delle autonome posizioni del senatore a vita Mario Luzi: punto e basta». Singolare la posizione di un altro comunista. «È incredibile, la vicenda di Dal Bosco pare una sceneggiata, mancavano giusto la lettera di pentimento e il perdono finale del “saggio e magnanimo padre” in una atmosfera da racconto miracolistico», afferma l'europarlamentare Marco Rizzo. «E ora l'invito ad andare a Roma ad incontrare il premier accettato dal giovane – prosegue Rizzo – ha un po' il sapore della parabola del figliuol prodigo. Niente male per uno che cinque o sei giorni prima era riuscito a filtrare la poderosissima scorta del presidente del Consiglio. Ma sarà tutto vero?» «Il governo – conclude – ha l'abilità massmediatica di utilizzare qualsiasi evento che succede, casuale o meno, non importa, sempre e comunque a fini propagandistici pro domo sua, offuscando sotto una pesante coltre di “boutades”, le vere problematiche del Paese che lasciate a loro stesse non fanno che peggiorare».
Fausto Bertinotti invita la sinistra a non inseguire la personalizzazione politica
Condanno l'aggressione di Piazza Navona: è di destra
di Martino Martellini
ROMA – «Chi mi contesta per il fatto che ho condannato l'aggressione di Piazza Navona è legato alla cultura del gesto e non si rende conto che atti di questo genere sono di destra, hanno un sapore dannuziano che non ha niente della forza efficace e non violenta della critica di massa». Fausto Bertinotti taglia corto sulle polemiche sorte intorno all'interpretazione del gesto del muratore mantovano e preferisce un'analisi più profonda sui rischi della personalizzazione della politica.
Lei ha detto che le interessa più contrastare la politica economica del premier che la persona Berlusconi... «La politica della sinistra deve tendere alla partecipazione di massa, alla più ampia condivisione degli obiettivi e deve sottrarsi alla personalizzazione dello scontro. Non mi posso fermare alla critica della persona ma debbo fare una lucida lettura del sistema e allora dico subito: ragioniamo su quanto il maggioritario ci ha condizionati».
Questo è un discorso che lei ha fatto più volte... «Non mi stancherò mai di farlo, ci sono anche dei sondaggi recenti che ci spiegano quanto incide sul sistema il peso della personalizzazione della politica. È un sistema malato, vince la spettacolarizzazione. Come negli Stati Uniti dove le aggressioni al simbolo, all'uomo immagine, sono il rischio di certe esasperazioni».
Ma il leader non si può criticare? «Attenzione a non stabilire un corto circuito che sarebbe lesivo dell'esercizio della critica democratica. È quello che sta tentando di fare la destra quando lega con un principio di causa ed effetto la contestazione, magari anche non rispettosa, all'aggressione fisica. Questo non può essere accettato perché allora dovremmo parlare ai lesa maestà ed onestamente mi sembra assurdo ragionare in questi termini. Noi non siamo gli oppositori di Sua Maestà!».
Le forze dell'alleanza democratica stanno insieme perché legate dall'antiberlusconismo? «Ma è chiaro. Io su questo tema non me la sento di avere un atteggiamento aristocratico. Interpreto il dissenso che c'è nel paese e dico che bisogna battere la politica del premier. Punto. È chiaro che non c'è solo questo ma per favore non ci dimentichiamo che la politica è fatta di sì e di no. E qui c'è bisogno di un bel no».
Sono «fuori luogo» le polemiche, che vengono sia da destra che da sinistra, sull'aggressione ai danni di Silvio Berlusconi. A richiamare i poli è Armando Cossutta, che ribadisce la posizione già assunta nei giorni scorsi e definisce «sterili» gli scambi di accuse tra Cdl e Gad. «Considero del tutto fuori luogo le polemiche a sinistra in difesa (o quasi) del gesto di Dal Bosco. Il gesto del giovane mantovano va condannato: punto e basta – afferma il presidente dei Comunisti Italiani – Ma va condannata ogni polemica a destra contro il giudice che lo ha legittimamente scarcerato, così come va condannata ogni aggressione e demonizzazione delle autonome posizioni del senatore a vita Mario Luzi: punto e basta». Singolare la posizione di un altro comunista. «È incredibile, la vicenda di Dal Bosco pare una sceneggiata, mancavano giusto la lettera di pentimento e il perdono finale del “saggio e magnanimo padre” in una atmosfera da racconto miracolistico», afferma l'europarlamentare Marco Rizzo. «E ora l'invito ad andare a Roma ad incontrare il premier accettato dal giovane – prosegue Rizzo – ha un po' il sapore della parabola del figliuol prodigo. Niente male per uno che cinque o sei giorni prima era riuscito a filtrare la poderosissima scorta del presidente del Consiglio. Ma sarà tutto vero?» «Il governo – conclude – ha l'abilità massmediatica di utilizzare qualsiasi evento che succede, casuale o meno, non importa, sempre e comunque a fini propagandistici pro domo sua, offuscando sotto una pesante coltre di “boutades”, le vere problematiche del Paese che lasciate a loro stesse non fanno che peggiorare».
altre informazioni sul Prozac e i crimini della Eli Lilly
Yahoo! Notizie Mercoledì 5 Gennaio 2005, 15:07
Il Prozac può essere associato a comportamento violento
da Depressione.net
(Xagena - Psichiatria) - L’FDA, l’Agenzia USA per il Controllo sui Farmaci, sta revisionando i documenti che Eli Lilly non avrebbe presentato nel corso di un processo, tenutosi 10 anni fa, per strage.
I documenti sembrano indicare un’associazione tra il farmaco antidepressivo Fluoxetina (Prozac) e l’ideazione suicidaria ed omicida.
Il British Medical Journal ha ricevuto questi documenti da una fonte anonima.
Questi documenti non sarebbero stati presentati durante il processo Wesbecker nel 1994.
Nel 1989 Joseph Wesbecker, armato di un fucile mitragliatore AK-47, uccise 8 persone, ne ferì altre 12 ed infine si suicidò.
Wesbecker soffriva da lungo tempo di depressione e da un mese stava assumendo il Prozac.
Uno dei documenti pervenuti al British Medical Journal, datato 8 novembre 1988, riportava che negli studi clinici la Fluoxetina presentava una maggiore incidenza di nuova attivazione rispetto al placebo (38% versus 19%).
Recentemente l’FDA ha emesso un warning riguardo alla possibilità da parte dei farmaci antidepressivi SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) di produrre sintomi stimolanti, quali agitazione, attacchi di panico, insonnia ed aggressività.
Dal processo Wesbecker, Eli Lilly, la società farmaceutica produttrice del Prozac, usci con un verdetto di non responsabilità.
Tuttavia il giudice Potter, sospettando un accordo segreto tra Eli Lilly ed i querelanti nel 1997 modificò il verdetto da “uno a favore di Eli Lilly” ad uno di “dismissed as settlet with prejudice”. (Xagena)
Il Prozac può essere associato a comportamento violento
da Depressione.net
(Xagena - Psichiatria) - L’FDA, l’Agenzia USA per il Controllo sui Farmaci, sta revisionando i documenti che Eli Lilly non avrebbe presentato nel corso di un processo, tenutosi 10 anni fa, per strage.
I documenti sembrano indicare un’associazione tra il farmaco antidepressivo Fluoxetina (Prozac) e l’ideazione suicidaria ed omicida.
Il British Medical Journal ha ricevuto questi documenti da una fonte anonima.
Questi documenti non sarebbero stati presentati durante il processo Wesbecker nel 1994.
Nel 1989 Joseph Wesbecker, armato di un fucile mitragliatore AK-47, uccise 8 persone, ne ferì altre 12 ed infine si suicidò.
Wesbecker soffriva da lungo tempo di depressione e da un mese stava assumendo il Prozac.
Uno dei documenti pervenuti al British Medical Journal, datato 8 novembre 1988, riportava che negli studi clinici la Fluoxetina presentava una maggiore incidenza di nuova attivazione rispetto al placebo (38% versus 19%).
Recentemente l’FDA ha emesso un warning riguardo alla possibilità da parte dei farmaci antidepressivi SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) di produrre sintomi stimolanti, quali agitazione, attacchi di panico, insonnia ed aggressività.
Dal processo Wesbecker, Eli Lilly, la società farmaceutica produttrice del Prozac, usci con un verdetto di non responsabilità.
Tuttavia il giudice Potter, sospettando un accordo segreto tra Eli Lilly ed i querelanti nel 1997 modificò il verdetto da “uno a favore di Eli Lilly” ad uno di “dismissed as settlet with prejudice”. (Xagena)
Fonte: British Medical Journal
forse D'Alema e la direzione dei ds non riusciranno a rimettere sotto il proprio controllo l'Unità
STAMPA
«Unità»: congelata la direzione, si riparte dal rilancio
Furio Colombo incontra Marialina Marcucci. Che apre al confronto sul piano bocciato dal cda
MI. B.
ROMA . La precipitazione non c'è stata. Anzi, le manovre in corso all'Unità per un ricambio al vertice del quotidiano, dopo il colloquio di ieri tra la direzione e la presidente del consiglio d'amministrazione della Nuova iniziativa editoriale hanno subito un rallentamento. Prima Furio Colombo, poi Antonio Padellaro, nel pomeriggio si sono visti a quattr'occhi con Marialina Marcucci. Un incontro separato che ha meravigliato la redazione e fatto ipotizzare soluzioni diverse per il direttore e il condirettore: messo in uscita il primo (tra le destinazioni possibili, l'Authority per le comunicazioni), il secondo potrebbe restare al quotidiano con un ruolo di primo piano. Anzi, c'è chi ipotizza che se Paolo Franchi (candidato numero uno alla successione) dovesse rinunciare all'offerta di dirigere l'Unità per rimanere al Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli (e dove Franchi ora firma una rubrica in prima pagina, il Diario ulivista), lo stesso Padellaro potrebbe prendere il testimone alla guida della testata fondata da Antonio Gramsci. Tra le altre candidature circolate in questi giorni, quella di Lucia Annunziata, che però ha posto condizioni di diverso tipo e vorrebbe anche evitare di apparire come la «normalizzatrice» spedita dai vertici della Quercia (in particolare dal presidente Massimo D'Alema).
Ma, appunto, la questione di una nuova direzione risulta per il momento congelata. «Saremo noi a decidere quando andare via», ha anzi assicurato ieri pomeriggio Padellaro. Dopo che il cda, subito prima di Natale, ha bocciato il piano di rilancio presentato da i direttori, ieri la presidente Marcucci ha fatto un passo indietro. Sostenendo che quel piano potrà essere una base di discussione. Quel che chiedevano anche i giornalisti che l'altro ieri si sono riuniti in assemblea e hanno dato mandato al cdr di indire lo stato di agitazione in attesa dell'apertura di un confronto. «I redattori dell'Unità giudicano negativamente ogni manovra dilatoria da parte dell'azienda perché pregiudica le possibilità del rilancio del giornale», era scritto nel comunicato uscito sull'edizione di ieri. E ancora: «Abbiamo bisogno di certezze, non di rinvii».
Ieri, il comitato di redazione ha visto Colombo e Padellaro reduci dal summit con Marialina Marcucci. I due hanno spiegato che di nuovi direttori nel loro colloquio non si è parlato ma che, appunto, si ripartirà dal piano per rilanciare il quotidiano che negli ultimi mesi ha subito un calo delle vendite: da lì sarà elaborato un documento da presentare alla redazione. Dal canto suo, la presidente del cda non ha però ritenuto di convocare a sua volta il comitato di redazione. E per il momento resta lo stato di agitazione.
In ogni caso la proprietà ha deciso di calibrare meglio le prossime mosse valutando con maggiore cautela tempi e modi del licenziamento di Furio Colombo, da sempre mal digerito ai piani alti del Botteghino e ultimamente messo in discussione anche dalla proprietà che lo aveva invece difeso in precedenti occasioni di attrito con la Quercia.
«Unità»: congelata la direzione, si riparte dal rilancio
Furio Colombo incontra Marialina Marcucci. Che apre al confronto sul piano bocciato dal cda
MI. B.
ROMA . La precipitazione non c'è stata. Anzi, le manovre in corso all'Unità per un ricambio al vertice del quotidiano, dopo il colloquio di ieri tra la direzione e la presidente del consiglio d'amministrazione della Nuova iniziativa editoriale hanno subito un rallentamento. Prima Furio Colombo, poi Antonio Padellaro, nel pomeriggio si sono visti a quattr'occhi con Marialina Marcucci. Un incontro separato che ha meravigliato la redazione e fatto ipotizzare soluzioni diverse per il direttore e il condirettore: messo in uscita il primo (tra le destinazioni possibili, l'Authority per le comunicazioni), il secondo potrebbe restare al quotidiano con un ruolo di primo piano. Anzi, c'è chi ipotizza che se Paolo Franchi (candidato numero uno alla successione) dovesse rinunciare all'offerta di dirigere l'Unità per rimanere al Corriere della Sera diretto da Paolo Mieli (e dove Franchi ora firma una rubrica in prima pagina, il Diario ulivista), lo stesso Padellaro potrebbe prendere il testimone alla guida della testata fondata da Antonio Gramsci. Tra le altre candidature circolate in questi giorni, quella di Lucia Annunziata, che però ha posto condizioni di diverso tipo e vorrebbe anche evitare di apparire come la «normalizzatrice» spedita dai vertici della Quercia (in particolare dal presidente Massimo D'Alema).
Ma, appunto, la questione di una nuova direzione risulta per il momento congelata. «Saremo noi a decidere quando andare via», ha anzi assicurato ieri pomeriggio Padellaro. Dopo che il cda, subito prima di Natale, ha bocciato il piano di rilancio presentato da i direttori, ieri la presidente Marcucci ha fatto un passo indietro. Sostenendo che quel piano potrà essere una base di discussione. Quel che chiedevano anche i giornalisti che l'altro ieri si sono riuniti in assemblea e hanno dato mandato al cdr di indire lo stato di agitazione in attesa dell'apertura di un confronto. «I redattori dell'Unità giudicano negativamente ogni manovra dilatoria da parte dell'azienda perché pregiudica le possibilità del rilancio del giornale», era scritto nel comunicato uscito sull'edizione di ieri. E ancora: «Abbiamo bisogno di certezze, non di rinvii».
Ieri, il comitato di redazione ha visto Colombo e Padellaro reduci dal summit con Marialina Marcucci. I due hanno spiegato che di nuovi direttori nel loro colloquio non si è parlato ma che, appunto, si ripartirà dal piano per rilanciare il quotidiano che negli ultimi mesi ha subito un calo delle vendite: da lì sarà elaborato un documento da presentare alla redazione. Dal canto suo, la presidente del cda non ha però ritenuto di convocare a sua volta il comitato di redazione. E per il momento resta lo stato di agitazione.
In ogni caso la proprietà ha deciso di calibrare meglio le prossime mosse valutando con maggiore cautela tempi e modi del licenziamento di Furio Colombo, da sempre mal digerito ai piani alti del Botteghino e ultimamente messo in discussione anche dalla proprietà che lo aveva invece difeso in precedenti occasioni di attrito con la Quercia.
psicologi americani
«attenti al malocchio...»
Il Messaggero 5.1.05
UNO STUDIO SCIENTIFICO
Gli psicologi: il malocchio esiste
PAOLA MARIANO
Amici e parenti dovrebbero stare attenti a fare pronostici, soprattutto se spiacevoli, che riguardano i propri cari perché l'effetto su di loro potrebbe essere quello di una vera e propria iattura. Tre psicologi americani della Iowa State University (Stephanie Madon, Max Guyll, Richard Spoth e Jennifer Willard) sostengono infatti di aver dimostrato che quando numerose persone sentenziano che qualcosa accadrà a qualcuno di loro conoscenza, vi è una buona probabilità che tale "profezia" di gruppo si avveri. È possibile, hanno spiegato gli esperti sulla rivista «Psychological Science» che le false convinzioni altrui promuovano l'avverarsi di certi fatti condizionando il comportamento della persona oggetto della "profezia". Inoltre, ha sottolineato la Madon, vi è un effetto sinergico in questo potere profetico, ovvero sembra proprio che più è larga la cerchia delle persone con indole da "Cassandra", più è probabile che l'esito da loro vaticinato si realizzerà. Gli esperti hanno ricordato come già precedenti ricerche avevano evidenziato la possibilità che ciascuno, prevedendo o paventando l'esito di una situazione futura che lo riguarda, in qualche modo incanala gli eventi verso quella direzione. Quindi per esempio se un attore pensa o teme che nel bel mezzo di una performance inciamperà e cadrà sul palcoscenico, la probabilità che questi ha di cadere inesorabilmente aumenta come se la sua convinzione avesse in sé la forza di avverarsi. Nel nuovo studio, i ricercatori hanno coinvolto 115 coppie di genitori che dovevano dare il loro pronostico circa il consumo di alcolici che i loro figli adolescenti avrebbero tenuto nei 12 mesi successivi. All'inizio dell'osservazione gli psicologi hanno somministrato ai ragazzini un questionario per avere una stima dei loro consumi medi di alcol.Dopo 12 mesi i teenager hanno risposto a un nuovo questionario, questa volta per monitorare il loro recente consumo di bevande alcoliche. Gli psicologi hanno confrontato ciò che i genitori avevano predetto con la realtà raccontata dai rispettivi figli. Così hanno visto che quando gli adulti avevano una convinzione negativa forse anche esagerata, ovvero pensavano che i figli avrebbero bevuto molto, effettivamente i ragazzi dichiaravano di non essersi limitati affatto nel consumo di alcol. Inoltre i ricercatori si sono accorti che tanto più mamma e papà erano d'accordo nelle loro stime pessimistiche, quanto più queste si dimostravano poi veritiere, segno di un forte effetto sinergico sulla previsione. Le predizioni, ha osservato la Madon, sembrano avverarsi molto più fedelmente quando hanno una valenza negativa. Ma questo non significa che i nostri cari portino sfortuna, ha tenuto a precisare la psicologa, bensì rispecchia l'atteggiamento tipico delle persone di dare più valore a informazioni con significato negativo e di soppesare più i costi che i benefici quando ci si pone di fronte a una scelta.
UNO STUDIO SCIENTIFICO
Gli psicologi: il malocchio esiste
PAOLA MARIANO
Amici e parenti dovrebbero stare attenti a fare pronostici, soprattutto se spiacevoli, che riguardano i propri cari perché l'effetto su di loro potrebbe essere quello di una vera e propria iattura. Tre psicologi americani della Iowa State University (Stephanie Madon, Max Guyll, Richard Spoth e Jennifer Willard) sostengono infatti di aver dimostrato che quando numerose persone sentenziano che qualcosa accadrà a qualcuno di loro conoscenza, vi è una buona probabilità che tale "profezia" di gruppo si avveri. È possibile, hanno spiegato gli esperti sulla rivista «Psychological Science» che le false convinzioni altrui promuovano l'avverarsi di certi fatti condizionando il comportamento della persona oggetto della "profezia". Inoltre, ha sottolineato la Madon, vi è un effetto sinergico in questo potere profetico, ovvero sembra proprio che più è larga la cerchia delle persone con indole da "Cassandra", più è probabile che l'esito da loro vaticinato si realizzerà. Gli esperti hanno ricordato come già precedenti ricerche avevano evidenziato la possibilità che ciascuno, prevedendo o paventando l'esito di una situazione futura che lo riguarda, in qualche modo incanala gli eventi verso quella direzione. Quindi per esempio se un attore pensa o teme che nel bel mezzo di una performance inciamperà e cadrà sul palcoscenico, la probabilità che questi ha di cadere inesorabilmente aumenta come se la sua convinzione avesse in sé la forza di avverarsi. Nel nuovo studio, i ricercatori hanno coinvolto 115 coppie di genitori che dovevano dare il loro pronostico circa il consumo di alcolici che i loro figli adolescenti avrebbero tenuto nei 12 mesi successivi. All'inizio dell'osservazione gli psicologi hanno somministrato ai ragazzini un questionario per avere una stima dei loro consumi medi di alcol.Dopo 12 mesi i teenager hanno risposto a un nuovo questionario, questa volta per monitorare il loro recente consumo di bevande alcoliche. Gli psicologi hanno confrontato ciò che i genitori avevano predetto con la realtà raccontata dai rispettivi figli. Così hanno visto che quando gli adulti avevano una convinzione negativa forse anche esagerata, ovvero pensavano che i figli avrebbero bevuto molto, effettivamente i ragazzi dichiaravano di non essersi limitati affatto nel consumo di alcol. Inoltre i ricercatori si sono accorti che tanto più mamma e papà erano d'accordo nelle loro stime pessimistiche, quanto più queste si dimostravano poi veritiere, segno di un forte effetto sinergico sulla previsione. Le predizioni, ha osservato la Madon, sembrano avverarsi molto più fedelmente quando hanno una valenza negativa. Ma questo non significa che i nostri cari portino sfortuna, ha tenuto a precisare la psicologa, bensì rispecchia l'atteggiamento tipico delle persone di dare più valore a informazioni con significato negativo e di soppesare più i costi che i benefici quando ci si pone di fronte a una scelta.
il professor Giulio Giorello, sul mito
Repubblica 5.1.05
NON SPARATE SUL MITO
Intervista a Giulio Giorello che in un libro indaga su Gilgamesch, Prometeo e Ulisse
A che cosa si deve il loro potere di seduzione? Un filosofo della scienza ci spiega perché il sapere mitico è importante quanto quello scientifico
Tre figure mitiche, lontane nel tempo, che hanno affascinato artisti e scrittori Esse rivivono attraverso Mary Shelley, James Joyce e Ezra Pound
di ANTONIO GNOLI
Giulio Giorello che veste come Joyce, l'immagine campeggia nella copertina del suo ultimo libro, non è una stravaganza. O almeno non è solo questo. Giorello ci ha infatti abituato a una libertà di modi e di pensiero che ne fanno un caso probabilmente unico in Italia. La scuola è quella di Geymonat (è stato il suo maestro), ma il cuore batte per Feyerabend (è stato il suo autore di riferimento). Epistemologia più letteratura, ma anche filosofia più fumetti. E ora il mito. Come mostra il libro uscito per Raffaello Cortina: Prometeo, Ulisse, Gilgamesch (pagg. 250, euro 19,80).
Perché ha scelto queste tre figure?
«Un po'per ragioni biografiche, ricordo che mia madre mi raccontava di Gilgamesch. E il fatto che avesse conoscenze di mitologia sumerico accadica credo derivasse da un bellissimo album di figurine dedicato alla Mesopotamia antica».
Quanto a Prometeo e Ulisse?
«Prometeo mi affascina perché, come dice Marx, è il primo santo laico del calendario. Quanto a Ulisse ho sempre preferito di gran lunga l'Odissea all'Iliade. Queste sono ragioni personali, ma in realtà se tocchiamo l'aspetto concettuale vediamo che questi miti hanno in comune il fatto di essere tre escursioni tra la vita e la morte».
Intesa come esistenza finita?
«Ma anche come promessa di immortalità. Prometeo è un Dio che soffre ma non può morire, almeno nella versione di Eschilo. Ulisse, nel libro V dell'Odissea, abbandona la promessa di immortalità di Calypso per andare a Itaca e finire da mortale i suoi giorni. Mentre Gilgamesch cerca disperatamente l'immortalità senza venire a capo del segreto della vita».
Si tratta insomma di un'analisi del mito come confine fra mondo e oltremondo.
«Sì, il punto in cui il regno della luce e dell'ombra si toccano».
L'aspetto che incuriosisce è che lei non fa riferimento solo al mito preso alla sua origine ma anche alle sue trasformazioni e rinascite in contesti diversi.
«Ho abbinato ai tre miti originari tre intellettuali che li hanno rivisitati: Prometeo e la rilettura che ne fa Mary Shelley in Frankenstein, Ulisse e Joyce, infine Gilgamesch e Pound. Potevo naturalmente essere tentato di vedere Prometeo nel modo ironico in cui lo tratta Gide, con l'aquila che si stanca di mangiargli il fegato; o magari giocare con Ulisse mediante il registro di Dante, ma alla fine ho scelto tre scrittori di lingua inglese, perché è la mia cultura di riferimento».
Mentre sono abbastanza chiari i legami fra Prometeo-Shelley e Ulisse-Joyce, lo è meno fra Gilgamesch e Pound.
«Nei Cantos c'è un richiamo al Noè sumerico, a una figura in qualche modo unica perché capace di aver conquistato l'immortalità, di aver umanizzato il divino. Ma è una umanizzazione che riesce una sola volta. Di qui il bisogno di cercare l'immortalità altrove».
Dove?
«Nella tecnica o nella parola. La creazione cui Pound consegna la sua speranza di immortalità è la parola. E lo sconfitto Gilgamesch consegna alle mura la sua speranza di immortalità. O vivi nella costruzione tecnica o vivi nella parola. C'è il verso finale dei Cantos che recita: "Uomini siate, non distruttori". È il modo con cui Pound cerca di costruire il paradiso in terra».
Ma quel paradiso prese forme politicamente imbarazzanti.
«Se allude all'innamoramento di Pound per Mussolini e all'idea che egli fosse il presupposto dell'uomo nuovo, non c'è dubbio. Fu un tragico fallimento».
Le tre rivisitazioni possono essere interpretate come una meditazione su come sconfiggere il tempo.
«In effetti l'utilizzo del mito può essere la risposta alla constatazione pessimistica di Lucrezio quando scopre che il tempo distrugge tutte le cose. In questo senso il mito non è solo una fonte della memoria ma, per citare la Shelley, le ombre che il futuro proietta sul nostro presente».
Non ritiene che sia proprio la filosofia a scalzare il mito attraverso una riflessione sul tempo?
«Il tempo è una delle grandi sfide della filosofia».
Si pone il problema, a differenza del mito. E se lo pone per scioglierne i paradossi.
«Potrei anche citare le trattazioni che del tempo fa la fisica. In particolare della fisica dopo Einstein. Hermann Weyl, fisico matematico, lettore di Husserl, sosteneva che il tempo non c'è, è semplicemente una dimensione in più dello spazio. E quindi quello che noi percepiamo come scorrimento del tempo è solo una impressione, un elaborato della nostra coscienza».
Un fisico, in fondo, porta alle estreme conseguenze il discorso filosofico. Ridurre il tempo allo spazio significa dire che abitiamo nel tempo, ci siamo dentro.
«Anche un fisico, al pari di un essere umano, riconosce che siamo intessuti di tempo, siamo fatti di tempo. Darei ragione a Borges: facciamo numerosi tentativi filosofici per esorcizzare la tigre, ma il tempo è una tigre e quella tigre forse sono io stesso».
Lei mi fa pensare a un funambolo che passa con grande abilità da un equilibrio all'altro.
«Sono convinto che la razionalità scientifica non elimini il sentire mitico, e che l'una e l'altro si alimentino anche se in modo stridente».
Davvero ritiene che il mito possa aiutare la filosofia?
«Da Platone a Heidegger, i filosofi a volte hanno civettato con il mito».
Che è una cosa diversa dal farne una provincia della filosofia.
«Però hanno provato ad annettersela».
Pensi al tema dell'immagine. Mentre si può propriamente parlare di immagine mitica, poetica o letteraria, è più complicato parlare di immagine filosofica. La filosofia si occupa di immagini, ma non le crea.
«È vero, però la scienza è in grado di fornirci delle grandi immagini: il big bang è una di queste. La scienza ha sviluppato capacità evocative molti vicine alla narrativa».
È una tendenza guardata con sospetto dai positivisti.
«Io credo che possano convivere. Un fisico standard quando parla con un cosmologo può obiettargli questo: voi vi occupate dei primi tre minuti dell´universo, noi facciamo il resto con una solida scienza controllabile. Detto ciò, con tutto il rispetto per il fisico, non si può trascurare il momento altamente evocativo di figure come Einstein, Bohr, Eisenberg, o per venire più vicini a noi, Thom e Prigogine».
Che il mito possa sopravvivere al di là di se stesso è possibile verificarlo anche nell'orizzonte contemporaneo. Non trova che i grandi produttori di miti oggi sono il cinema e i media?
«Rispetto a certe gabbie filosofiche dentro cui il pensiero speculativo ha sequestrato il mondo e contro la pesantezza ontologica si sarebbe tentati di dire: ben venga non solo la leggerezza del cinema, ma quella dei cartoons. Quanto ai media fanno quello che facevano i greci».
Cioè?
«Il mito nasce dentro una grande tradizione orale e sarà utilizzato per fissare la prima grande cultura scritta. Omero, o chi per lui, raccoglie il sapere marinaro di greci e fenici».
Il mito di Ulisse che ruolo svolge in questa sistemazione?
«È il grande destabilizzatore dello status quo. Compare ogni qualvolta l'intelligenza svolge il suo ruolo chiarificatore e pericoloso».
È un eroe che crea disordine.
«È un eroe a cui non va tutto bene. Anzi se c'è un'altra caratteristica che accomuna le tre figure è che sono esposte al fallimento. Prometeo è lì che cova la sua vendetta, ma intanto perfino la roccia, come dice Kafka, si è dimenticata di lui. Ulisse è un personaggio di multiforme ingegno, ma gli vanno male molte cose e anche il ritorno a Itaca non è così pacifico, visto che deve affrontare una specie di guerra civile. E il povero Bloom quando si accorge che il letto di Molly è caldo, rinuncia alla guerra civile e accetta con filosofica sopportazione il suo nuovo stato di cornuto».
NON SPARATE SUL MITO
Intervista a Giulio Giorello che in un libro indaga su Gilgamesch, Prometeo e Ulisse
A che cosa si deve il loro potere di seduzione? Un filosofo della scienza ci spiega perché il sapere mitico è importante quanto quello scientifico
Tre figure mitiche, lontane nel tempo, che hanno affascinato artisti e scrittori Esse rivivono attraverso Mary Shelley, James Joyce e Ezra Pound
di ANTONIO GNOLI
Giulio Giorello che veste come Joyce, l'immagine campeggia nella copertina del suo ultimo libro, non è una stravaganza. O almeno non è solo questo. Giorello ci ha infatti abituato a una libertà di modi e di pensiero che ne fanno un caso probabilmente unico in Italia. La scuola è quella di Geymonat (è stato il suo maestro), ma il cuore batte per Feyerabend (è stato il suo autore di riferimento). Epistemologia più letteratura, ma anche filosofia più fumetti. E ora il mito. Come mostra il libro uscito per Raffaello Cortina: Prometeo, Ulisse, Gilgamesch (pagg. 250, euro 19,80).
Perché ha scelto queste tre figure?
«Un po'per ragioni biografiche, ricordo che mia madre mi raccontava di Gilgamesch. E il fatto che avesse conoscenze di mitologia sumerico accadica credo derivasse da un bellissimo album di figurine dedicato alla Mesopotamia antica».
Quanto a Prometeo e Ulisse?
«Prometeo mi affascina perché, come dice Marx, è il primo santo laico del calendario. Quanto a Ulisse ho sempre preferito di gran lunga l'Odissea all'Iliade. Queste sono ragioni personali, ma in realtà se tocchiamo l'aspetto concettuale vediamo che questi miti hanno in comune il fatto di essere tre escursioni tra la vita e la morte».
Intesa come esistenza finita?
«Ma anche come promessa di immortalità. Prometeo è un Dio che soffre ma non può morire, almeno nella versione di Eschilo. Ulisse, nel libro V dell'Odissea, abbandona la promessa di immortalità di Calypso per andare a Itaca e finire da mortale i suoi giorni. Mentre Gilgamesch cerca disperatamente l'immortalità senza venire a capo del segreto della vita».
Si tratta insomma di un'analisi del mito come confine fra mondo e oltremondo.
«Sì, il punto in cui il regno della luce e dell'ombra si toccano».
L'aspetto che incuriosisce è che lei non fa riferimento solo al mito preso alla sua origine ma anche alle sue trasformazioni e rinascite in contesti diversi.
«Ho abbinato ai tre miti originari tre intellettuali che li hanno rivisitati: Prometeo e la rilettura che ne fa Mary Shelley in Frankenstein, Ulisse e Joyce, infine Gilgamesch e Pound. Potevo naturalmente essere tentato di vedere Prometeo nel modo ironico in cui lo tratta Gide, con l'aquila che si stanca di mangiargli il fegato; o magari giocare con Ulisse mediante il registro di Dante, ma alla fine ho scelto tre scrittori di lingua inglese, perché è la mia cultura di riferimento».
Mentre sono abbastanza chiari i legami fra Prometeo-Shelley e Ulisse-Joyce, lo è meno fra Gilgamesch e Pound.
«Nei Cantos c'è un richiamo al Noè sumerico, a una figura in qualche modo unica perché capace di aver conquistato l'immortalità, di aver umanizzato il divino. Ma è una umanizzazione che riesce una sola volta. Di qui il bisogno di cercare l'immortalità altrove».
Dove?
«Nella tecnica o nella parola. La creazione cui Pound consegna la sua speranza di immortalità è la parola. E lo sconfitto Gilgamesch consegna alle mura la sua speranza di immortalità. O vivi nella costruzione tecnica o vivi nella parola. C'è il verso finale dei Cantos che recita: "Uomini siate, non distruttori". È il modo con cui Pound cerca di costruire il paradiso in terra».
Ma quel paradiso prese forme politicamente imbarazzanti.
«Se allude all'innamoramento di Pound per Mussolini e all'idea che egli fosse il presupposto dell'uomo nuovo, non c'è dubbio. Fu un tragico fallimento».
Le tre rivisitazioni possono essere interpretate come una meditazione su come sconfiggere il tempo.
«In effetti l'utilizzo del mito può essere la risposta alla constatazione pessimistica di Lucrezio quando scopre che il tempo distrugge tutte le cose. In questo senso il mito non è solo una fonte della memoria ma, per citare la Shelley, le ombre che il futuro proietta sul nostro presente».
Non ritiene che sia proprio la filosofia a scalzare il mito attraverso una riflessione sul tempo?
«Il tempo è una delle grandi sfide della filosofia».
Si pone il problema, a differenza del mito. E se lo pone per scioglierne i paradossi.
«Potrei anche citare le trattazioni che del tempo fa la fisica. In particolare della fisica dopo Einstein. Hermann Weyl, fisico matematico, lettore di Husserl, sosteneva che il tempo non c'è, è semplicemente una dimensione in più dello spazio. E quindi quello che noi percepiamo come scorrimento del tempo è solo una impressione, un elaborato della nostra coscienza».
Un fisico, in fondo, porta alle estreme conseguenze il discorso filosofico. Ridurre il tempo allo spazio significa dire che abitiamo nel tempo, ci siamo dentro.
«Anche un fisico, al pari di un essere umano, riconosce che siamo intessuti di tempo, siamo fatti di tempo. Darei ragione a Borges: facciamo numerosi tentativi filosofici per esorcizzare la tigre, ma il tempo è una tigre e quella tigre forse sono io stesso».
Lei mi fa pensare a un funambolo che passa con grande abilità da un equilibrio all'altro.
«Sono convinto che la razionalità scientifica non elimini il sentire mitico, e che l'una e l'altro si alimentino anche se in modo stridente».
Davvero ritiene che il mito possa aiutare la filosofia?
«Da Platone a Heidegger, i filosofi a volte hanno civettato con il mito».
Che è una cosa diversa dal farne una provincia della filosofia.
«Però hanno provato ad annettersela».
Pensi al tema dell'immagine. Mentre si può propriamente parlare di immagine mitica, poetica o letteraria, è più complicato parlare di immagine filosofica. La filosofia si occupa di immagini, ma non le crea.
«È vero, però la scienza è in grado di fornirci delle grandi immagini: il big bang è una di queste. La scienza ha sviluppato capacità evocative molti vicine alla narrativa».
È una tendenza guardata con sospetto dai positivisti.
«Io credo che possano convivere. Un fisico standard quando parla con un cosmologo può obiettargli questo: voi vi occupate dei primi tre minuti dell´universo, noi facciamo il resto con una solida scienza controllabile. Detto ciò, con tutto il rispetto per il fisico, non si può trascurare il momento altamente evocativo di figure come Einstein, Bohr, Eisenberg, o per venire più vicini a noi, Thom e Prigogine».
Che il mito possa sopravvivere al di là di se stesso è possibile verificarlo anche nell'orizzonte contemporaneo. Non trova che i grandi produttori di miti oggi sono il cinema e i media?
«Rispetto a certe gabbie filosofiche dentro cui il pensiero speculativo ha sequestrato il mondo e contro la pesantezza ontologica si sarebbe tentati di dire: ben venga non solo la leggerezza del cinema, ma quella dei cartoons. Quanto ai media fanno quello che facevano i greci».
Cioè?
«Il mito nasce dentro una grande tradizione orale e sarà utilizzato per fissare la prima grande cultura scritta. Omero, o chi per lui, raccoglie il sapere marinaro di greci e fenici».
Il mito di Ulisse che ruolo svolge in questa sistemazione?
«È il grande destabilizzatore dello status quo. Compare ogni qualvolta l'intelligenza svolge il suo ruolo chiarificatore e pericoloso».
È un eroe che crea disordine.
«È un eroe a cui non va tutto bene. Anzi se c'è un'altra caratteristica che accomuna le tre figure è che sono esposte al fallimento. Prometeo è lì che cova la sua vendetta, ma intanto perfino la roccia, come dice Kafka, si è dimenticata di lui. Ulisse è un personaggio di multiforme ingegno, ma gli vanno male molte cose e anche il ritorno a Itaca non è così pacifico, visto che deve affrontare una specie di guerra civile. E il povero Bloom quando si accorge che il letto di Molly è caldo, rinuncia alla guerra civile e accetta con filosofica sopportazione il suo nuovo stato di cornuto».
Liberazione 31.12.04
Lettere
Non basta la solidarietà, allora...
da Lamberto Vaghetti, via e-mail
Caro direttore, ho letto la lettera di Alessandro Gigli (giovedì 30 dicembre), che, giustamente, denuncia l'ipocrisia di coloro che in questi giorni, di fronte alla catastrofe umana che lo tsunami ha provocato, mostrano il volto perbenista di chi fa l'elemosina ai poveri. Sono d'accordo con lui. Allora, cosa aspettiamo a proporre non più l'elemosina ma una reale possibilità di sviluppo dei paesi sottosviluppati? Come? È semplice: proporre che il futuro (speriamo) governo del centro-sinistra stanzi una cifra consistente, ad esempio l'1% del Pil, da investire in opere che pongano le basi di un futuro sviluppo di quei paesi. Da troppo tempo la politica è al servizio dell'economia. Perché non provare a rovesciare questo paradigma?
Lettere
Non basta la solidarietà, allora...
da Lamberto Vaghetti, via e-mail
Caro direttore, ho letto la lettera di Alessandro Gigli (giovedì 30 dicembre), che, giustamente, denuncia l'ipocrisia di coloro che in questi giorni, di fronte alla catastrofe umana che lo tsunami ha provocato, mostrano il volto perbenista di chi fa l'elemosina ai poveri. Sono d'accordo con lui. Allora, cosa aspettiamo a proporre non più l'elemosina ma una reale possibilità di sviluppo dei paesi sottosviluppati? Come? È semplice: proporre che il futuro (speriamo) governo del centro-sinistra stanzi una cifra consistente, ad esempio l'1% del Pil, da investire in opere che pongano le basi di un futuro sviluppo di quei paesi. Da troppo tempo la politica è al servizio dell'economia. Perché non provare a rovesciare questo paradigma?
martedì 4 gennaio 2005
citato al lunedì:
psicofarmaci
«Prozac, il dossier scomparso»
Corriere.it 3.1.05
CRONACHE
Sotto accusa l’azienda produttrice. Gli esperti: può essere utile
Prozac, il dossier scomparso: «Aggressività e rischio suicidi»
In uno studio gli effetti collaterali dell’antidepressivo. «Ma è stato nascosto»
di Margherita De Bac
ROMA - L’accusa è di vecchia data, le prove però sono nuove. Ancora forti sospetti sul Prozac, uno dei farmaci più venduti nella storia della medicina, la pillola che ha promesso la felicità a milioni di depressi. La fluoxetina, il principio attivo di cui è composta, era stata accusata di scatenare drammatici effetti collaterali, da profonde modificazioni del comportamento al suicidio a forme incontrollate di aggressività.
IL DOSSIER - La documentazione, di cui non si aveva traccia dal ’94, è stata pubblicata nell’ultimo numero del British Medical Journal: secondo un rapporto datato 1988, «il 38% dei malati a cui è stata somministrata fluoxetina presentano un eccesso di eccitazione motoria, contro il 19% dei pazienti che invece ricevono il placebo». Lo studio, dunque, mostrerebbe l’esistenza di un legame fra l’assunzione dell’antidepressivo e forme di aggressività, fino al suicidio. Gli editori della rivista medica hanno ricevuto il materiale per posta, da un mittente ignoto, e adesso alcuni esperti ci stann o lavorando per stabilire eventuali responsabilità della casa madre. Alla Eli Lilly, la multinazionale statunitense che sul Prozac ha costruito parte della sua fortuna dalla metà degli anni ’80, si rinfaccia di aver nascosto la verità negando il compromettente dossier al Fda, l’ente americano per la registrazione dei farmaci. L’azienda non commenta, ma ricorda che il medicinale «ha migliorato in modo significativo la vita di moltissimi pazienti. É una delle molecole più studiate ed è stato prescritto a 50 milioni di malati. La sua sicurezza ed efficacia sono state ben analizzate». Il caso fluoxetina è divampato nell’89. Un uomo si suicidò dopo aver ucciso 8 colleghi col fucile. Era sotto cura per depressione. La famiglia raccolse le prove e tirò fuori durante il processo le carte che evidenziavano come la pillola fosse causa di forte «agitazione, aggressività e aumento delle tendenze suicide». Il fascicolo sparì nel ’94.
CLASSE - Il Prozac appartiene alla classe degli inibitori della ricaptazione della serotonina, gli SSRI. Interviene sul meccanismo di uno dei neurotrasmettitori che regolano il nostro umore. Da oltre un anno è uscito di brevetto per esordire nella categoria dei generici. Qualsiasi azienda può decidere di produrlo. Nel frattempo sono entrate in commercio molecole sempre più sofisticate, di ultima generazione, che hanno ridotto la popolarità della «prima nata». Eppure della famosa pillola si continua a parlare, come è accaduto solo pochi mesi fa a proposito di un aumento di incidenza di suicidi che gli psicofarmaci procurerebbero tra i minorenni senza che sui foglietti illustrativi siano riportati i necessari avvertimenti mirati sui bambini.
CONSUMI - Celebrità legata soprattutto ai consumi e alla diffusione dei disturbi psichiatrici. Secondo Giuseppe Dell’Acqua, direttore dipartimento Salute mentale di Trieste, dall’1,5 al 3% di italiani soffrono di problemi gravi, il 25% denunciano nell’arco dell’anno stati di sofferenza psichica. In Italia nel quadriennio 2000-2003 la vendita degli psicofarmaci è cresciuto del 75%. Si contano 50 confezioni di antidepressivi ogni 100 abitanti, oltre a 126 di benzodianzepine (ansiolitici e tranquillanti) e 20 di antipsicotici. Rispetto ad altri Paesi siamo tra gli utilizzatori più morigerati. Nota Dell’Acqua: «Sono un sostenitore delle cure farmacologiche per lenire il dolore ma da qui a costruire un modello imperante che interpreta tutto in chiave farmacologica ce ne passa. Che gli antidepressivi abbiano effetti collaterali lo sappiamo bene. Il problema è che se ne abusa ed è normale poi che ci siano casi estremi».
EFFETTI - Non si sorprende dei recenti sviluppi sul Prozac Silvio Garattini, Istituto Mario Negri: «Gli effetti di questa classe di molecole, come fluoxetina e paroxetina, non sono un segreto. Non sempre danno felicità». Fabrizio Starace, primario di psichiatria al Cotugno di Napoli, teme «la criminalizzazione dell’antidepressivo, che invece è una risorsa utile per chi sta male». E spiega: «Bisogna invece criminalizzare le modalità di prescrizione. Il farmaco è l’unico agente terapeutico prodotto a scopo di lucro a differenza di psicoterapia e interventi territoriali. Va da sé quali interessi si trascini dietro». Il rischio dell’inappropriatezza è in agguato. Ma Alberto Siracusano, cattedra di psichiatria a Tor Vergata, invita a non fare confronti tra Usa e Italia: «La nostra cultura ci riporta ad un uso molto oculato. In molti hanno beneficiato dei vantaggi dei serotoninergici, mi sembra assurdo rifarsi a un episodio di 20 anni fa».
CRONACHE
Sotto accusa l’azienda produttrice. Gli esperti: può essere utile
Prozac, il dossier scomparso: «Aggressività e rischio suicidi»
In uno studio gli effetti collaterali dell’antidepressivo. «Ma è stato nascosto»
di Margherita De Bac
ROMA - L’accusa è di vecchia data, le prove però sono nuove. Ancora forti sospetti sul Prozac, uno dei farmaci più venduti nella storia della medicina, la pillola che ha promesso la felicità a milioni di depressi. La fluoxetina, il principio attivo di cui è composta, era stata accusata di scatenare drammatici effetti collaterali, da profonde modificazioni del comportamento al suicidio a forme incontrollate di aggressività.
IL DOSSIER - La documentazione, di cui non si aveva traccia dal ’94, è stata pubblicata nell’ultimo numero del British Medical Journal: secondo un rapporto datato 1988, «il 38% dei malati a cui è stata somministrata fluoxetina presentano un eccesso di eccitazione motoria, contro il 19% dei pazienti che invece ricevono il placebo». Lo studio, dunque, mostrerebbe l’esistenza di un legame fra l’assunzione dell’antidepressivo e forme di aggressività, fino al suicidio. Gli editori della rivista medica hanno ricevuto il materiale per posta, da un mittente ignoto, e adesso alcuni esperti ci stann o lavorando per stabilire eventuali responsabilità della casa madre. Alla Eli Lilly, la multinazionale statunitense che sul Prozac ha costruito parte della sua fortuna dalla metà degli anni ’80, si rinfaccia di aver nascosto la verità negando il compromettente dossier al Fda, l’ente americano per la registrazione dei farmaci. L’azienda non commenta, ma ricorda che il medicinale «ha migliorato in modo significativo la vita di moltissimi pazienti. É una delle molecole più studiate ed è stato prescritto a 50 milioni di malati. La sua sicurezza ed efficacia sono state ben analizzate». Il caso fluoxetina è divampato nell’89. Un uomo si suicidò dopo aver ucciso 8 colleghi col fucile. Era sotto cura per depressione. La famiglia raccolse le prove e tirò fuori durante il processo le carte che evidenziavano come la pillola fosse causa di forte «agitazione, aggressività e aumento delle tendenze suicide». Il fascicolo sparì nel ’94.
CLASSE - Il Prozac appartiene alla classe degli inibitori della ricaptazione della serotonina, gli SSRI. Interviene sul meccanismo di uno dei neurotrasmettitori che regolano il nostro umore. Da oltre un anno è uscito di brevetto per esordire nella categoria dei generici. Qualsiasi azienda può decidere di produrlo. Nel frattempo sono entrate in commercio molecole sempre più sofisticate, di ultima generazione, che hanno ridotto la popolarità della «prima nata». Eppure della famosa pillola si continua a parlare, come è accaduto solo pochi mesi fa a proposito di un aumento di incidenza di suicidi che gli psicofarmaci procurerebbero tra i minorenni senza che sui foglietti illustrativi siano riportati i necessari avvertimenti mirati sui bambini.
CONSUMI - Celebrità legata soprattutto ai consumi e alla diffusione dei disturbi psichiatrici. Secondo Giuseppe Dell’Acqua, direttore dipartimento Salute mentale di Trieste, dall’1,5 al 3% di italiani soffrono di problemi gravi, il 25% denunciano nell’arco dell’anno stati di sofferenza psichica. In Italia nel quadriennio 2000-2003 la vendita degli psicofarmaci è cresciuto del 75%. Si contano 50 confezioni di antidepressivi ogni 100 abitanti, oltre a 126 di benzodianzepine (ansiolitici e tranquillanti) e 20 di antipsicotici. Rispetto ad altri Paesi siamo tra gli utilizzatori più morigerati. Nota Dell’Acqua: «Sono un sostenitore delle cure farmacologiche per lenire il dolore ma da qui a costruire un modello imperante che interpreta tutto in chiave farmacologica ce ne passa. Che gli antidepressivi abbiano effetti collaterali lo sappiamo bene. Il problema è che se ne abusa ed è normale poi che ci siano casi estremi».
EFFETTI - Non si sorprende dei recenti sviluppi sul Prozac Silvio Garattini, Istituto Mario Negri: «Gli effetti di questa classe di molecole, come fluoxetina e paroxetina, non sono un segreto. Non sempre danno felicità». Fabrizio Starace, primario di psichiatria al Cotugno di Napoli, teme «la criminalizzazione dell’antidepressivo, che invece è una risorsa utile per chi sta male». E spiega: «Bisogna invece criminalizzare le modalità di prescrizione. Il farmaco è l’unico agente terapeutico prodotto a scopo di lucro a differenza di psicoterapia e interventi territoriali. Va da sé quali interessi si trascini dietro». Il rischio dell’inappropriatezza è in agguato. Ma Alberto Siracusano, cattedra di psichiatria a Tor Vergata, invita a non fare confronti tra Usa e Italia: «La nostra cultura ci riporta ad un uso molto oculato. In molti hanno beneficiato dei vantaggi dei serotoninergici, mi sembra assurdo rifarsi a un episodio di 20 anni fa».
PTSD
ancora sul disturbo post-traumatico da stress
humanitasalute.it 4 gennaio 2004
Ernesto Caffo:
vicini alle piccole vittime È allarme Disturbo Post Traumatico da Stress per le piccole vittime: una task force internazionale di psichiatri infantili coordinata da Telefono Azzurro pronta ad intervenire nei Paesi colpiti dal maremoto Telefono Azzurro insieme ad ESCAP, Società Europea di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, IACAPAP, International Association for Child and Adolescent Psychiatry and Allied Professions, si sono attivate per organizzare una task force di psichiatri internazionali - tra cui Myron Belfer, Responsabile all’interno dell’OMS per la Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza e Nathaniel Laor dell’Università di Tel Aviv, esperto degli aspetti psico-sociali dell’intervento in situazioni di guerra e terrorismo – pronta ad intervenire nei Paesi colpiti dal maremoto. Il team di esperti è già in stretto contatto con gli psichiatri e gli operatori indiani ed indonesiani per studiare un piano d’intervento specifico per il Disturbo Post Traumatico da Stress.
Il PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress) è il disturbo mentale che con maggior rischio incorre nei bambini e negli adolescenti vittima di eventi catastrofici. I sintomi di questa patologia sono: paura, sintomi dissociativi, disordini depressivi, disturbo dell’adattamento, disturbi d’ansia, disturbi della condotta, disturbi dell’attenzione, e abuso di sostanze. Il PTSD può tradursi in età adulta anche in disturbi di carattere medico: spossatezza, disturbi gastrointestinali, mal di testa, asma, problemi cardiovascolari, dolore cronico. Sebbene l’investigazione degli aspetti neurobiologici del trauma in età evolutiva sia ancora ai suoi esordi, diversi studi hanno evidenziato come lo stress sia in grado di plasmare la maturazione di determinate strutture del sistema nervoso, di modificarne il funzionamento, di influenzare le funzioni cognitive, emozionali e comportamentali. Un’esperienza traumatica può dunque condizionare lo sviluppo biologico, cognitivo, emotivo e relazionale del bambino: ne parliamo con il Prof. Ernesto Caffo, Ordinario di Neuropscichiatria Infantile dell’Università di Modena e Reggio Emilia e Presidente della Società Europea di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Prof. Caffo, quali possono essere le conseguenze di un'esperienza così traumatica?
“L’esperienza traumatica può produrre conseguenze psicopatologiche di diversa natura. Il trauma non costituisce solo un fattore di rischio per una serie di disturbi mentali ma può anche condizionare lo sviluppo del bambino, i suoi processi di apprendimento e socializzazione: le ferite, inoltre, possono trasformarsi in aggressività e rabbia, fino a vere e proprie manifestazioni di violenza. Occorre quindi intervenire precocemente: la prontezza nell’identificazione dello stato di disagio e nell’intervento con individui altamente traumatizzati e con le loro famiglie rappresenta un importante fattore protettivo".
È importante dunque intervenire al più presto nelle zone colpite?
“Assolutamente. Ci siamo infatti attivati subito. Tutti gli psichiatri infantili europei hanno dato la loro disponibilità a mettere insieme competenze ed esperienze per sostenere gli psichiatri delle zone colpite. Stiamo gia’ coordinanci con i colleghi indiani e indonesiani per supportarli nella gestione della prima emergenza e concordare un piano d’intervento adeguato. A breve partirà un team specializzato nell’intervento in situazioni di eventi catastrofici, il quale si concentrerà soprattutto sulla formazione degli operatori locali".
Il progetto di collaborazione con i colleghi dei Paesi colpiti segue i principi definiti dalla Carta di Roma: il documento programmatico, siglato l’anno scorso da 40 esperti provenienti da USA, Israele, Iraq, Egitto, Iran, Australia, Libano, Estonia, Germania, Francia e Nuova Zelanda, che definisce l’impegno di un gruppo di lavoro internazionale specializzato nelle situazioni di trauma. Obiettivo è promuovere la ricerca, condividere esperienze ed elaborare nuovi modelli d’intervento da portare nei Paesi colpiti da eventi catastrofici.
In Italia Telefono Azzurro collabora già con la Protezione Civile Regione Emilia Romagna presso l’Aeroporto di Malpensa, dove un gruppo di esperti accoglie bambini, adolescenti e le loro famiglie, fornendo un supporto psicologico.
Ernesto Caffo:
vicini alle piccole vittime È allarme Disturbo Post Traumatico da Stress per le piccole vittime: una task force internazionale di psichiatri infantili coordinata da Telefono Azzurro pronta ad intervenire nei Paesi colpiti dal maremoto Telefono Azzurro insieme ad ESCAP, Società Europea di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, IACAPAP, International Association for Child and Adolescent Psychiatry and Allied Professions, si sono attivate per organizzare una task force di psichiatri internazionali - tra cui Myron Belfer, Responsabile all’interno dell’OMS per la Salute Mentale dell’Infanzia e dell’Adolescenza e Nathaniel Laor dell’Università di Tel Aviv, esperto degli aspetti psico-sociali dell’intervento in situazioni di guerra e terrorismo – pronta ad intervenire nei Paesi colpiti dal maremoto. Il team di esperti è già in stretto contatto con gli psichiatri e gli operatori indiani ed indonesiani per studiare un piano d’intervento specifico per il Disturbo Post Traumatico da Stress.
Il PTSD (Disturbo Post Traumatico da Stress) è il disturbo mentale che con maggior rischio incorre nei bambini e negli adolescenti vittima di eventi catastrofici. I sintomi di questa patologia sono: paura, sintomi dissociativi, disordini depressivi, disturbo dell’adattamento, disturbi d’ansia, disturbi della condotta, disturbi dell’attenzione, e abuso di sostanze. Il PTSD può tradursi in età adulta anche in disturbi di carattere medico: spossatezza, disturbi gastrointestinali, mal di testa, asma, problemi cardiovascolari, dolore cronico. Sebbene l’investigazione degli aspetti neurobiologici del trauma in età evolutiva sia ancora ai suoi esordi, diversi studi hanno evidenziato come lo stress sia in grado di plasmare la maturazione di determinate strutture del sistema nervoso, di modificarne il funzionamento, di influenzare le funzioni cognitive, emozionali e comportamentali. Un’esperienza traumatica può dunque condizionare lo sviluppo biologico, cognitivo, emotivo e relazionale del bambino: ne parliamo con il Prof. Ernesto Caffo, Ordinario di Neuropscichiatria Infantile dell’Università di Modena e Reggio Emilia e Presidente della Società Europea di Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Prof. Caffo, quali possono essere le conseguenze di un'esperienza così traumatica?
“L’esperienza traumatica può produrre conseguenze psicopatologiche di diversa natura. Il trauma non costituisce solo un fattore di rischio per una serie di disturbi mentali ma può anche condizionare lo sviluppo del bambino, i suoi processi di apprendimento e socializzazione: le ferite, inoltre, possono trasformarsi in aggressività e rabbia, fino a vere e proprie manifestazioni di violenza. Occorre quindi intervenire precocemente: la prontezza nell’identificazione dello stato di disagio e nell’intervento con individui altamente traumatizzati e con le loro famiglie rappresenta un importante fattore protettivo".
È importante dunque intervenire al più presto nelle zone colpite?
“Assolutamente. Ci siamo infatti attivati subito. Tutti gli psichiatri infantili europei hanno dato la loro disponibilità a mettere insieme competenze ed esperienze per sostenere gli psichiatri delle zone colpite. Stiamo gia’ coordinanci con i colleghi indiani e indonesiani per supportarli nella gestione della prima emergenza e concordare un piano d’intervento adeguato. A breve partirà un team specializzato nell’intervento in situazioni di eventi catastrofici, il quale si concentrerà soprattutto sulla formazione degli operatori locali".
Il progetto di collaborazione con i colleghi dei Paesi colpiti segue i principi definiti dalla Carta di Roma: il documento programmatico, siglato l’anno scorso da 40 esperti provenienti da USA, Israele, Iraq, Egitto, Iran, Australia, Libano, Estonia, Germania, Francia e Nuova Zelanda, che definisce l’impegno di un gruppo di lavoro internazionale specializzato nelle situazioni di trauma. Obiettivo è promuovere la ricerca, condividere esperienze ed elaborare nuovi modelli d’intervento da portare nei Paesi colpiti da eventi catastrofici.
In Italia Telefono Azzurro collabora già con la Protezione Civile Regione Emilia Romagna presso l’Aeroporto di Malpensa, dove un gruppo di esperti accoglie bambini, adolescenti e le loro famiglie, fornendo un supporto psicologico.
A cura dell'Ufficio Stampa di Telefono Azzurro
Info:
Novella Pellegrini – tel. 349/7876827
Cristina Setti – tel 348/7987844
ancora sui crimini dei cattolici ladri di bambini
ieri, il manifesto, oggi Avvenire e Corsera
ilmanifesto.it
2 gennaio 2004
DIVINO
Battesimo come destino
FILIPPO GENTILONI
Nei giorni intorno al natale è tornata di attualità la discussione sul comportamento di Pio XII nei confronti dello sterminio nazista degli ebrei. Una discussione che da decenni vede ripetersi gli stessi argomenti: forti da parte dell'accusa e piuttosto deboli da parte della difesa. L'occasione, questa volta, è un documento del 1946 pubblicato in Francia e ripreso da Alberto Melloni sul Corriere della Sera. Da Roma arrivarono al nunzio Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, indicazioni sui bambini ebrei che erano stati ricoverati in case e conventi cattolici e battezzati. La risposta fu che non si restituissero, passato il pericolo, alle famiglie ebree: ormai dovevano essere considerati e educati come cattolici. Roncalli, per fortuna, disobbedì alle ingiunzioni, a dir poco, inumane di Roma. Una triste vicenda, non nuova negli anni tragici della shoah, sulla quale si può leggere, fra l'altro, il ben documentato studio di Marina Caffiero Battesimi forzati. Storia di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi (edizioni Viella). I casi esaminati riguardano soprattutto il 700; nel secolo successivo il caso più famoso è stato quello del bambino Mortara che fu sottratto ai genitori e poi divenne sacerdote. Gli argomenti contro questa prassi sono stati autorevolmente ripresida Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane che ha definito «orrendo» quel documento («è arido, burocratico, non ha nessuna sensibilità, mi spiace dirlo, per la shoah») e ha aggiunto che il Vaticano si guardi bene dal «beatificare» Pio XII.
Quanto agli argomenti portati in difesa, sono sempre gli stessi: il Vaticano fece il possibile, i cattolici salvarono un numero notevole di ebrei e se la condanna vaticana del nazismo fosse stata più esplicita, la strage sarebbe stata ancora più tremenda. La migliore sintesi del dibattito rimane, a mio avviso, quella contenuta nei saggi dello storico Giovanni Miccoli , fra cui I dilemmi e i silenzi di Pio XII (Rizzoli): il primo termine non elimina il secondo né lo giustifica. Per Miccoli «né la Santa Sede né la gran parte del mondo cattolico avevano l'esatta percezione della specificità della shoah».
Con ogni probabilità il dibattito è destinato a proseguire. Intanto mi sembra importante riflettere sulla teologia che la posizione vaticana sottintendeva e che ancora è largamente dominante nel cattolicesimo più ufficiale. Una teologia per la quale i sacramenti - in particolare il battesimo - hanno un effetto di tipo meccanico, quasi automatico, indipendente dalla volontà e dalla libertà di ciascuno. Automatismi di tipo quasi magico, tali da determinare per sempre appartenenze, sorti, diritti e doveri. Questa teologia portava il documento vaticano a dichiarare: «I bambini che sono stati battezzati non potranno essere affidati a istituzioni che non ne sappiano assicurare l'educazione cristiana». Una educazione, però, fuori dal tempo e dalla storia.
«non ce vonno stà», è un'arroganza indefettibile: la difesa di Avvenire, che non dice un bel nulla:
Avvenire 4.1.05
INTERVISTA
Padre Gumpel, relatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, interviene sulle insistenti polemiche di questi giorni
Caso Pio XII, documenti senza prove
«Il testo al centro del dibattito non è stato presentato con metodo corretto Non si capisce, tra l’altro, perché il Sant’Uffizio avrebbe scritto in francese al nunzio Roncalli»
Di Marco Roncalli
Non si arresta il dibattito apertosi ormai una settimana fa con la pubblicazione sul «Corriere della Sera» del documento datato 20 ottobre 1946 contenente presunte disposizioni del Sant'Uffizio sulla non restituzione di piccoli ebrei accolti da istituzioni e famiglie cattoliche ed eventualmente battezzati. Un testo sul quale è legittimo porsi qualche serio interrogativo: non a caso tra gli studiosi si ventila ora più d'una supposizione, l'ultima delle quali, ad esempio, lascia intendere che si tratti della sintesi di un'istruzione più ampia, destinata alla Conferenza episcopale francese e non al nunzio Angelo Giuseppe Roncalli: cosa da verificare. Dopo l'intervista di domenica scorsa allo storico padre Pierre Blet, prende ora la parola il gesuita padre Peter Gumpel , relatore della causa di beatificazione di Pio XII
Allora, padre Gumpel, qual è il suo giudizio circa le analisi diffuse su questa vicenda che scandalizza gli uni e scuote altri ad alzare difese, che qualcuno giudica d'ufficio se non apologetiche?
«Prima di arrivare al problema che è ampio e complesso, e al quale bisognerebbe rispondere in modo assai articolato, occorre fermarsi sul documento pubblicato. È stato pubblicato un testo senza indicare esattamente la persona che l'ha redatto, e da quale archivio...».
Ma il testo termina con tre righe «Si noti che questa decisione della Congregazione del Sant'Uffizio è stata approvata dal Santo Padre» ed è stato scritto che «l'originale si trova negli Archivi della Chiesa di Francia»...
«È questione di metodologia storica: prima di usare una fonte documentaria dobbiamo saperne di più, specie sulla provenienza, la dizione "Archivi della Chiesa di Francia" è piuttosto vaga: dove si trovava, in quale faldone, se è protocollato, dattiloscritto, se ha una busta col destinatario. E, da quanto so, dal Centro generale degli archivi francesi non è uscito nulla di simile».
Non vorrà dirmi che dubita della sua autenticità formale?
«No. Potrebbe provenire dall'archivio di qualche diocesi francese. Infatti sto indagando, e alla fine delle mie ricerche farò il punto. Ma le ho appena avviate. Poi mi lasciano perplesse alcune cose: la lingua del testo, il Sant'Uffizio da Roma e il nunzio italiano futuro Papa che comunicano in francese, il carattere più di abbozzo informativo che di documento ufficiale. E poi un'informativa redatta da chi? Ma c'è anche il fatto dell'assenza di riferimenti concreti nelle agende sul contenuto».
Contenuto che comunque non cambia.
«Mi pare che il significato del battesimo per la Chiesa cattolica sia stato ben messo in evidenza in questi giorni. Se si è battezzati validamente si è incorporati nella Chiesa. A prescindere da tutto il resto, sangue, stirpe, religione. È stato fatto notare anche che le disposizioni dei vescovi francesi erano di non battezzare quelli che venivano accolti. Anche se è facile immaginare la difficoltà di comunicare a tutti queste disposizioni in quella temperie. È stato evidenziato che ci furono casi gestiti con delicatezza. Piuttosto non si è parlato di altre cose».
Ad esempio?
«Di tutto il lavoro delle varie agenzie ebraiche sioniste, volto a ottenere persone con l'idea di trasferirle in Palestina in vista del futuro Stato d'Israele, che ancora non esisteva. Della logica dietro questo progetto. E di altri casi taciuti: armeni, zingari... La questione è molto complessa. E tanti tasselli devono trovare posto nel mosaico. Inoltre andrebbero valutati anche ulteriori aspetti».
Quali?
«Se una famiglia aveva accolto dei piccoli formando ambienti calorosi, poteva anche essere disumano toglierli a questa e affidarli ad altri. Si parla di bambini: comunque altri sceglievano per loro. Chi conosce i casi singoli? I grandi, i maggiorenni (perché c'erano anche giovani con meno di ventuno anni), sceglievano con la massima libertà. Si doveva vedere caso per caso ogni singola richiesta».
Mi sembra concordi con alcune dichiarazioni già fatte da padre Blet.
«Certo, e sono d'accordo con lui anche sul fatto che queste polemiche sono alimentate con un fine preciso, quello di fermare la causa di beatificazione di Pio XII».
Padre Gumpel, ha letto le dichiarazioni di ieri dello storico Renato Moro al «Corriere» proprio sull'atteggiamento della Chiesa cattolica e di Pio XII alla luce di questa «querelle»? Le cito due brani : «È la conferma che nell'immediato dopoguerra la percezione del problema ebraico da parte della Chiesa, nelle sue grandi linee teologiche e culturali, non risulta modificata dall'esperienza della Shoah».
«È assurdo».
Continuo: «Certamente a Pio XII sfuggì la specificità dello sterminio razziale, che considerò in modo riduttivo come uno dei tanti orrori perpetrati in guerra».
«È totalmente assurdo, assolutamente assurdo».
Un atto d’accusa dello storico dopo la pubblicazione sul «Corriere» della direttiva vaticana che riguardava i bambini battezzati provenienti da famiglie israelite
Corriere della Sera 4.1.05
Goldhagen: papa Pacelli, perché non è santo
di DANIEL JONAH GOLDHAGEN*
Immaginiamo che una persona salvi un bambino da una macchina in fiamme in una zona rurale, esponendosi a un certo rischio. I genitori sono morti. Lo definiremmo un eroe. Ma poi decide di tenere il bambino e di educarlo secondo il suo credo. Non informa le autorità. Quando i parenti del bambino, che lo cercano disperati, vengono a bussare alla sua porta, nega di sapere dove si trovi. La buona azione iniziale si trasforma in un crimine e questa persona in un rapitore. Ora è stato pubblicato sul Corriere della Sera un documento proveniente dagli archivi della Chiesa cattolica francese che mostra che papa Pio XII si comportò in maniera simile quando parenti e genitori ebrei, cercando affannosamente i loro figli, vennero a bussare alla sua porta. Nel 1946 il Vaticano inviò un documento al nunzio apostolico in Francia, Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, noto per la sua compassione verso gli ebrei e per la dedizione mostrata nel cercare di riunire i bambini ebrei, nascosti in istituti cattolici durante l’Olocausto, ai loro genitori, parenti o alle istituzioni ebraiche. Il documento ordinava a Roncalli di trattenere quei bambini: «I bambini che sono stati battezzati non possono essere affidati a istituzioni che non assicurerebbero loro un’educazione cristiana».
La ferma intenzione del Papa di non riconsegnare i figli ai loro genitori è inequivocabile: «Se i bambini sono stati affidati (alla Chiesa) dai genitori ed essi li rivogliono, possono essere loro restituiti, purché non siano stati battezzati. Si fa presente che questa decisione della Congregazione del Sant’Uffizio è stata approvata dal Santo Padre». Poiché la decisione di non restituire i bambini ebrei battezzati venne annunciata come una linea di condotta pontificia di carattere generale, ci sono buone ragioni per credere che fosse divulgata e applicata in tutt’Europa. I documenti su questo argomento restano celati negli archivi del Vaticano (come la copia dell’ordine a Roncalli) e di altre chiese nazionali.
Durante l’Olocausto migliaia di bambini ebrei trovarono rifugio in monasteri, conventi e scuole cattoliche, anche se per opera di Roncalli, non per ordine di quel papa antisemita. Furono messi in salvo da preti e suore eroici, che a volte battezzarono i bambini di cui si dovevano occupare. È noto che gli ebrei sopravvissuti o i loro parenti ed eredi ebbero spesso (anche se non sempre) difficoltà a riprendersi i figli. Si sospettava che la Chiesa si proponesse di rapire quei bambini ebrei in nome di Gesù. Una sopravvissuta ad Auschwitz, perseguitata perché ebrea, secondo Pio XII non doveva riavere il proprio figlio proprio perché ebrea.
Ora abbiamo la prova evidente: questo documento. Esso dimostra che era intenzione del Papa e della Chiesa portar via sistematicamente i bambini ebrei. E mostra quanto Pio XII fosse insensibile alle sofferenze degli ebrei. Venne così reiterata la persecuzione che avevano subito, privando i sopravvissuti all’inferno nazista, offesi fisicamente e spiritualmente, dei loro figli.
Il documento non sorprenderà chi conosce l’antisemitismo della Chiesa in quel periodo o lo sciagurato precedente di papa Pio IX, il rapimento nel 1858 di Edgardo Mortara, un bambino ebreo di sei anni, che produsse un moto di ripulsa e di protesta nei confronti della Chiesa in tutt’Europa. Ma questo documento rimuove il beneficio di cui Pio XII ha finora goduto: la possibilità, che per sessant’anni lui e la sua Chiesa hanno cercato di conservare, di negare plausibilmente molti crimini compiuti contro gli ebrei durante l’Olocausto da Pio XII, vescovi e sacerdoti.
Papa Pio XII si è reso colpevole di un crimine non restituendo i bambini ai genitori, parenti o custodi legali o spirituali. E con lui tutti i vescovi, preti e suore che si sono prestati a portar via i bambini ebrei. Nessuno è al di sopra della legge. Un leader religioso o un capo di governo che facesse una cosa simile oggi sarebbe messo in prigione (l’inquisitore, un sacerdote che rapì Edgardo per ordine di Pio IX, fu arrestato e imprigionato dalle autorità italiane)
In nome della religione, oggi e nel passato, si sono commessi molti delitti. Gli abiti religiosi non dovrebbero impedire che una persona venga chiamata con il suo nome. I recenti scandali su abusi sessuali commessi da preti ce l’hanno insegnato. Ci hanno anche insegnato che vi è necessità di trasparenza per questa Chiesa, tra le più reticenti, che ha abitualmente celato crimini e misfatti dei suoi esponenti. Se la Chiesa è l’istituzione morale che proclama di essere deve provvedere a rimediare ai suoi crimini.
Il Vaticano dovrebbe istituire una commissione di alto profilo, indipendente, composta da esperti internazionali indipendenti di storia, di questioni ecclesiastiche e giuridiche, guidata da una persona di grande statura internazionale, per stabilire quanti bambini ebrei siano stati rapiti dalla Chiesa in Europa. La commissione dovrebbe poter accedere a tutte le istituzioni ecclesiastiche, poter esaminare liberamente documenti e parlare con il personale ecclesiastico. Papa Giovanni Paolo II, che ha lavorato molto sotto vari aspetti per migliorare l’atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei, dovrebbe ordinare pubblicamente a tutte le Chiese cattoliche europee di cooperare con i membri della commissione e compiere per proprio conto ricerche su ciò che è accaduto nelle loro parrocchie. Probabilmente la maggior parte dei documenti è facile da reperire. La Chiesa è un’istituzione che registra e conserva fedelmente soprattutto una cosa: il battesimo. Una volta identificate, le vittime ebree - o i loro parenti - dovrebbero essere ritrovate e ricevere una comunicazione ufficiale. La commissione dovrebbe anche pubblicare dei rapporti storici dettagliati sulla sua ricerca.
Se la Svizzera l’ha fatto, istituendo la Commissione Bergier per indagare sul furto dei beni degli ebrei durante la guerra (sono stati pubblicati ventisei volumi sull’argomento), e se l’Australia l’ha fatto per i bambini che il suo governo ha portato via agli aborigeni in quello stesso periodo, lo può fare anche la Chiesa cattolica per il furto dei bambini ebrei.
Il Vaticano dovrebbe por fine una volta per tutte a pretesti e reticenze che durano da decenni e aprire a studiosi e giornalisti gli archivi suoi e delle sue chiese nazionali relativi al periodo dell’Olocausto. Dovrebbe smettere di pretendere che l’unico suo errore sia stato non aver fatto di più per salvare gli ebrei e che il suo unico atto di pubblica contrizione possa consistere nel presentare deboli scuse. Sicuramente il documento che è venuto fuori non è la sola prova presente nei vasti archivi segreti della Chiesa. E non dovrebbe, a questo punto, la Chiesa impedire ai suoi seguaci di attaccare gli ebrei e altri che a buon diritto le chiedono di essere aperta e sincera sui suoi crimini passati e recenti?
Infine, la Chiesa dovrebbe cessare di perseguire la canonizzazione Pio XII. Pio XII fu alla testa di una Chiesa che diffuse un feroce antisemitismo proprio quando gli ebrei venivano sterminati. Che usò i suoi documenti per aiutare il regime nazista a stabilire chi era ebreo in modo da poterlo perseguitare. Che legittimò e partecipò alla deportazione ad Auschwitz degli ebrei slovacchi. E che continuò per più di un decennio dopo l’Olocausto a proclamare ufficialmente che tutti gli ebrei di tutti i tempi saranno sempre colpevoli per la morte di Cristo. Pio XII, ordinando ai suoi subordinati di portar via i bambini ai loro genitori, è divenuto uno dei più grandi rapitori, o presunti rapitori, dei tempi moderni, senza contare che è stato una persona priva di qualsiasi empatia umana nei confronti dei poveri genitori ebrei in cerca dei loro figli, dopo anni di sofferenza.
Il titolo del famoso libro di memorie di Primo Levi, che è anche una riflessione sulla natura umana, è Se questo è un uomo. Come possiamo non chiederci: «Se questo è un santo» e anche che genere di Chiesa è questa?
2 gennaio 2004
DIVINO
Battesimo come destino
FILIPPO GENTILONI
Nei giorni intorno al natale è tornata di attualità la discussione sul comportamento di Pio XII nei confronti dello sterminio nazista degli ebrei. Una discussione che da decenni vede ripetersi gli stessi argomenti: forti da parte dell'accusa e piuttosto deboli da parte della difesa. L'occasione, questa volta, è un documento del 1946 pubblicato in Francia e ripreso da Alberto Melloni sul Corriere della Sera. Da Roma arrivarono al nunzio Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, indicazioni sui bambini ebrei che erano stati ricoverati in case e conventi cattolici e battezzati. La risposta fu che non si restituissero, passato il pericolo, alle famiglie ebree: ormai dovevano essere considerati e educati come cattolici. Roncalli, per fortuna, disobbedì alle ingiunzioni, a dir poco, inumane di Roma. Una triste vicenda, non nuova negli anni tragici della shoah, sulla quale si può leggere, fra l'altro, il ben documentato studio di Marina Caffiero Battesimi forzati. Storia di ebrei, cristiani e convertiti nella Roma dei papi (edizioni Viella). I casi esaminati riguardano soprattutto il 700; nel secolo successivo il caso più famoso è stato quello del bambino Mortara che fu sottratto ai genitori e poi divenne sacerdote. Gli argomenti contro questa prassi sono stati autorevolmente ripresida Amos Luzzatto, presidente delle comunità ebraiche italiane che ha definito «orrendo» quel documento («è arido, burocratico, non ha nessuna sensibilità, mi spiace dirlo, per la shoah») e ha aggiunto che il Vaticano si guardi bene dal «beatificare» Pio XII.
Quanto agli argomenti portati in difesa, sono sempre gli stessi: il Vaticano fece il possibile, i cattolici salvarono un numero notevole di ebrei e se la condanna vaticana del nazismo fosse stata più esplicita, la strage sarebbe stata ancora più tremenda. La migliore sintesi del dibattito rimane, a mio avviso, quella contenuta nei saggi dello storico Giovanni Miccoli , fra cui I dilemmi e i silenzi di Pio XII (Rizzoli): il primo termine non elimina il secondo né lo giustifica. Per Miccoli «né la Santa Sede né la gran parte del mondo cattolico avevano l'esatta percezione della specificità della shoah».
Con ogni probabilità il dibattito è destinato a proseguire. Intanto mi sembra importante riflettere sulla teologia che la posizione vaticana sottintendeva e che ancora è largamente dominante nel cattolicesimo più ufficiale. Una teologia per la quale i sacramenti - in particolare il battesimo - hanno un effetto di tipo meccanico, quasi automatico, indipendente dalla volontà e dalla libertà di ciascuno. Automatismi di tipo quasi magico, tali da determinare per sempre appartenenze, sorti, diritti e doveri. Questa teologia portava il documento vaticano a dichiarare: «I bambini che sono stati battezzati non potranno essere affidati a istituzioni che non ne sappiano assicurare l'educazione cristiana». Una educazione, però, fuori dal tempo e dalla storia.
«non ce vonno stà», è un'arroganza indefettibile: la difesa di Avvenire, che non dice un bel nulla:
Avvenire 4.1.05
INTERVISTA
Padre Gumpel, relatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, interviene sulle insistenti polemiche di questi giorni
Caso Pio XII, documenti senza prove
«Il testo al centro del dibattito non è stato presentato con metodo corretto Non si capisce, tra l’altro, perché il Sant’Uffizio avrebbe scritto in francese al nunzio Roncalli»
Di Marco Roncalli
Non si arresta il dibattito apertosi ormai una settimana fa con la pubblicazione sul «Corriere della Sera» del documento datato 20 ottobre 1946 contenente presunte disposizioni del Sant'Uffizio sulla non restituzione di piccoli ebrei accolti da istituzioni e famiglie cattoliche ed eventualmente battezzati. Un testo sul quale è legittimo porsi qualche serio interrogativo: non a caso tra gli studiosi si ventila ora più d'una supposizione, l'ultima delle quali, ad esempio, lascia intendere che si tratti della sintesi di un'istruzione più ampia, destinata alla Conferenza episcopale francese e non al nunzio Angelo Giuseppe Roncalli: cosa da verificare. Dopo l'intervista di domenica scorsa allo storico padre Pierre Blet, prende ora la parola il gesuita padre Peter Gumpel , relatore della causa di beatificazione di Pio XII
Allora, padre Gumpel, qual è il suo giudizio circa le analisi diffuse su questa vicenda che scandalizza gli uni e scuote altri ad alzare difese, che qualcuno giudica d'ufficio se non apologetiche?
«Prima di arrivare al problema che è ampio e complesso, e al quale bisognerebbe rispondere in modo assai articolato, occorre fermarsi sul documento pubblicato. È stato pubblicato un testo senza indicare esattamente la persona che l'ha redatto, e da quale archivio...».
Ma il testo termina con tre righe «Si noti che questa decisione della Congregazione del Sant'Uffizio è stata approvata dal Santo Padre» ed è stato scritto che «l'originale si trova negli Archivi della Chiesa di Francia»...
«È questione di metodologia storica: prima di usare una fonte documentaria dobbiamo saperne di più, specie sulla provenienza, la dizione "Archivi della Chiesa di Francia" è piuttosto vaga: dove si trovava, in quale faldone, se è protocollato, dattiloscritto, se ha una busta col destinatario. E, da quanto so, dal Centro generale degli archivi francesi non è uscito nulla di simile».
Non vorrà dirmi che dubita della sua autenticità formale?
«No. Potrebbe provenire dall'archivio di qualche diocesi francese. Infatti sto indagando, e alla fine delle mie ricerche farò il punto. Ma le ho appena avviate. Poi mi lasciano perplesse alcune cose: la lingua del testo, il Sant'Uffizio da Roma e il nunzio italiano futuro Papa che comunicano in francese, il carattere più di abbozzo informativo che di documento ufficiale. E poi un'informativa redatta da chi? Ma c'è anche il fatto dell'assenza di riferimenti concreti nelle agende sul contenuto».
Contenuto che comunque non cambia.
«Mi pare che il significato del battesimo per la Chiesa cattolica sia stato ben messo in evidenza in questi giorni. Se si è battezzati validamente si è incorporati nella Chiesa. A prescindere da tutto il resto, sangue, stirpe, religione. È stato fatto notare anche che le disposizioni dei vescovi francesi erano di non battezzare quelli che venivano accolti. Anche se è facile immaginare la difficoltà di comunicare a tutti queste disposizioni in quella temperie. È stato evidenziato che ci furono casi gestiti con delicatezza. Piuttosto non si è parlato di altre cose».
Ad esempio?
«Di tutto il lavoro delle varie agenzie ebraiche sioniste, volto a ottenere persone con l'idea di trasferirle in Palestina in vista del futuro Stato d'Israele, che ancora non esisteva. Della logica dietro questo progetto. E di altri casi taciuti: armeni, zingari... La questione è molto complessa. E tanti tasselli devono trovare posto nel mosaico. Inoltre andrebbero valutati anche ulteriori aspetti».
Quali?
«Se una famiglia aveva accolto dei piccoli formando ambienti calorosi, poteva anche essere disumano toglierli a questa e affidarli ad altri. Si parla di bambini: comunque altri sceglievano per loro. Chi conosce i casi singoli? I grandi, i maggiorenni (perché c'erano anche giovani con meno di ventuno anni), sceglievano con la massima libertà. Si doveva vedere caso per caso ogni singola richiesta».
Mi sembra concordi con alcune dichiarazioni già fatte da padre Blet.
«Certo, e sono d'accordo con lui anche sul fatto che queste polemiche sono alimentate con un fine preciso, quello di fermare la causa di beatificazione di Pio XII».
Padre Gumpel, ha letto le dichiarazioni di ieri dello storico Renato Moro al «Corriere» proprio sull'atteggiamento della Chiesa cattolica e di Pio XII alla luce di questa «querelle»? Le cito due brani : «È la conferma che nell'immediato dopoguerra la percezione del problema ebraico da parte della Chiesa, nelle sue grandi linee teologiche e culturali, non risulta modificata dall'esperienza della Shoah».
«È assurdo».
Continuo: «Certamente a Pio XII sfuggì la specificità dello sterminio razziale, che considerò in modo riduttivo come uno dei tanti orrori perpetrati in guerra».
«È totalmente assurdo, assolutamente assurdo».
Un atto d’accusa dello storico dopo la pubblicazione sul «Corriere» della direttiva vaticana che riguardava i bambini battezzati provenienti da famiglie israelite
Corriere della Sera 4.1.05
Goldhagen: papa Pacelli, perché non è santo
di DANIEL JONAH GOLDHAGEN*
Immaginiamo che una persona salvi un bambino da una macchina in fiamme in una zona rurale, esponendosi a un certo rischio. I genitori sono morti. Lo definiremmo un eroe. Ma poi decide di tenere il bambino e di educarlo secondo il suo credo. Non informa le autorità. Quando i parenti del bambino, che lo cercano disperati, vengono a bussare alla sua porta, nega di sapere dove si trovi. La buona azione iniziale si trasforma in un crimine e questa persona in un rapitore. Ora è stato pubblicato sul Corriere della Sera un documento proveniente dagli archivi della Chiesa cattolica francese che mostra che papa Pio XII si comportò in maniera simile quando parenti e genitori ebrei, cercando affannosamente i loro figli, vennero a bussare alla sua porta. Nel 1946 il Vaticano inviò un documento al nunzio apostolico in Francia, Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, noto per la sua compassione verso gli ebrei e per la dedizione mostrata nel cercare di riunire i bambini ebrei, nascosti in istituti cattolici durante l’Olocausto, ai loro genitori, parenti o alle istituzioni ebraiche. Il documento ordinava a Roncalli di trattenere quei bambini: «I bambini che sono stati battezzati non possono essere affidati a istituzioni che non assicurerebbero loro un’educazione cristiana».
La ferma intenzione del Papa di non riconsegnare i figli ai loro genitori è inequivocabile: «Se i bambini sono stati affidati (alla Chiesa) dai genitori ed essi li rivogliono, possono essere loro restituiti, purché non siano stati battezzati. Si fa presente che questa decisione della Congregazione del Sant’Uffizio è stata approvata dal Santo Padre». Poiché la decisione di non restituire i bambini ebrei battezzati venne annunciata come una linea di condotta pontificia di carattere generale, ci sono buone ragioni per credere che fosse divulgata e applicata in tutt’Europa. I documenti su questo argomento restano celati negli archivi del Vaticano (come la copia dell’ordine a Roncalli) e di altre chiese nazionali.
Durante l’Olocausto migliaia di bambini ebrei trovarono rifugio in monasteri, conventi e scuole cattoliche, anche se per opera di Roncalli, non per ordine di quel papa antisemita. Furono messi in salvo da preti e suore eroici, che a volte battezzarono i bambini di cui si dovevano occupare. È noto che gli ebrei sopravvissuti o i loro parenti ed eredi ebbero spesso (anche se non sempre) difficoltà a riprendersi i figli. Si sospettava che la Chiesa si proponesse di rapire quei bambini ebrei in nome di Gesù. Una sopravvissuta ad Auschwitz, perseguitata perché ebrea, secondo Pio XII non doveva riavere il proprio figlio proprio perché ebrea.
Ora abbiamo la prova evidente: questo documento. Esso dimostra che era intenzione del Papa e della Chiesa portar via sistematicamente i bambini ebrei. E mostra quanto Pio XII fosse insensibile alle sofferenze degli ebrei. Venne così reiterata la persecuzione che avevano subito, privando i sopravvissuti all’inferno nazista, offesi fisicamente e spiritualmente, dei loro figli.
Il documento non sorprenderà chi conosce l’antisemitismo della Chiesa in quel periodo o lo sciagurato precedente di papa Pio IX, il rapimento nel 1858 di Edgardo Mortara, un bambino ebreo di sei anni, che produsse un moto di ripulsa e di protesta nei confronti della Chiesa in tutt’Europa. Ma questo documento rimuove il beneficio di cui Pio XII ha finora goduto: la possibilità, che per sessant’anni lui e la sua Chiesa hanno cercato di conservare, di negare plausibilmente molti crimini compiuti contro gli ebrei durante l’Olocausto da Pio XII, vescovi e sacerdoti.
Papa Pio XII si è reso colpevole di un crimine non restituendo i bambini ai genitori, parenti o custodi legali o spirituali. E con lui tutti i vescovi, preti e suore che si sono prestati a portar via i bambini ebrei. Nessuno è al di sopra della legge. Un leader religioso o un capo di governo che facesse una cosa simile oggi sarebbe messo in prigione (l’inquisitore, un sacerdote che rapì Edgardo per ordine di Pio IX, fu arrestato e imprigionato dalle autorità italiane)
In nome della religione, oggi e nel passato, si sono commessi molti delitti. Gli abiti religiosi non dovrebbero impedire che una persona venga chiamata con il suo nome. I recenti scandali su abusi sessuali commessi da preti ce l’hanno insegnato. Ci hanno anche insegnato che vi è necessità di trasparenza per questa Chiesa, tra le più reticenti, che ha abitualmente celato crimini e misfatti dei suoi esponenti. Se la Chiesa è l’istituzione morale che proclama di essere deve provvedere a rimediare ai suoi crimini.
Il Vaticano dovrebbe istituire una commissione di alto profilo, indipendente, composta da esperti internazionali indipendenti di storia, di questioni ecclesiastiche e giuridiche, guidata da una persona di grande statura internazionale, per stabilire quanti bambini ebrei siano stati rapiti dalla Chiesa in Europa. La commissione dovrebbe poter accedere a tutte le istituzioni ecclesiastiche, poter esaminare liberamente documenti e parlare con il personale ecclesiastico. Papa Giovanni Paolo II, che ha lavorato molto sotto vari aspetti per migliorare l’atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei, dovrebbe ordinare pubblicamente a tutte le Chiese cattoliche europee di cooperare con i membri della commissione e compiere per proprio conto ricerche su ciò che è accaduto nelle loro parrocchie. Probabilmente la maggior parte dei documenti è facile da reperire. La Chiesa è un’istituzione che registra e conserva fedelmente soprattutto una cosa: il battesimo. Una volta identificate, le vittime ebree - o i loro parenti - dovrebbero essere ritrovate e ricevere una comunicazione ufficiale. La commissione dovrebbe anche pubblicare dei rapporti storici dettagliati sulla sua ricerca.
Se la Svizzera l’ha fatto, istituendo la Commissione Bergier per indagare sul furto dei beni degli ebrei durante la guerra (sono stati pubblicati ventisei volumi sull’argomento), e se l’Australia l’ha fatto per i bambini che il suo governo ha portato via agli aborigeni in quello stesso periodo, lo può fare anche la Chiesa cattolica per il furto dei bambini ebrei.
Il Vaticano dovrebbe por fine una volta per tutte a pretesti e reticenze che durano da decenni e aprire a studiosi e giornalisti gli archivi suoi e delle sue chiese nazionali relativi al periodo dell’Olocausto. Dovrebbe smettere di pretendere che l’unico suo errore sia stato non aver fatto di più per salvare gli ebrei e che il suo unico atto di pubblica contrizione possa consistere nel presentare deboli scuse. Sicuramente il documento che è venuto fuori non è la sola prova presente nei vasti archivi segreti della Chiesa. E non dovrebbe, a questo punto, la Chiesa impedire ai suoi seguaci di attaccare gli ebrei e altri che a buon diritto le chiedono di essere aperta e sincera sui suoi crimini passati e recenti?
Infine, la Chiesa dovrebbe cessare di perseguire la canonizzazione Pio XII. Pio XII fu alla testa di una Chiesa che diffuse un feroce antisemitismo proprio quando gli ebrei venivano sterminati. Che usò i suoi documenti per aiutare il regime nazista a stabilire chi era ebreo in modo da poterlo perseguitare. Che legittimò e partecipò alla deportazione ad Auschwitz degli ebrei slovacchi. E che continuò per più di un decennio dopo l’Olocausto a proclamare ufficialmente che tutti gli ebrei di tutti i tempi saranno sempre colpevoli per la morte di Cristo. Pio XII, ordinando ai suoi subordinati di portar via i bambini ai loro genitori, è divenuto uno dei più grandi rapitori, o presunti rapitori, dei tempi moderni, senza contare che è stato una persona priva di qualsiasi empatia umana nei confronti dei poveri genitori ebrei in cerca dei loro figli, dopo anni di sofferenza.
Il titolo del famoso libro di memorie di Primo Levi, che è anche una riflessione sulla natura umana, è Se questo è un uomo. Come possiamo non chiederci: «Se questo è un santo» e anche che genere di Chiesa è questa?
(Traduzione di Maria Sepa)
* © Daniel Jonah Goldhagen 2005 of Harward University’s Center for European Studies
è l’autore di «Una questione morale. La Chiesa cattolica e l’Olocausto», pubblicato in Italia nel 2003 da Mondadori
Internet e disagio giovanile
Yahoo! Salute lunedì 3 gennaio 2005
Internet e psicopatologia tra gli studenti
Il Pensiero Scientifico Editore
Internet continua ad essere, oltre che uno strumento indispensabile, uno straordinario oggetto di studio per sociologi, psicologi e psichiatri. Una ricerca in corso di pubblicazione su Epidemiologia e psichiatria sociale apporta un ulteriore contributo alla complessa problematica del rapporto tra uso della rete e disagio psicologico, proponendosi d’indagare le caratteristiche e gli effetti dell’uso di Internet in un campione di studenti di scuole superiori.
La ricerca è stata condotta presso due istituti superiori di Conegliano Veneto, raccogliendo informazioni su età, sesso, classe frequentata ed utilizzo di Internet da parte dei genitori, sull’utilizzo oggettivo (da quanti anni e numero di ore giornaliero e settimanale) e sulla percezione soggettiva (ovvero sul vissuto personale della connessione) degli studenti, servendosi anche di un questionario (il General Health Questionnaire nella versione a 28 item di Goldberg, GHQ).
Hanno risposto 1071 studenti su 1671 questionari somministrati e 1062 sono state le risposte ritenute valide. Per quanto riguarda l’utilizzo della rete, la larga maggioranza degli studenti dichiara di navigare meno di 5 ore la settimana, mentre una piccola parte dichiara un utilizzo superiore alle 20 ore settimanali. I settori della rete più frequentati sono risultati i motori di ricerca, la posta elettronica, le chat ed i giochi di ruolo.
Rispetto alla percezione soggettiva di eventuali disagi connessi all’incapacità di gestire il proprio tempo in Internet, è rilevante la percentuale di chi risponde di passare più tempo di quanto dovrebbe in Rete o di avere difficoltà a limitarsi.
In conclusione, la ricerca segnala la presenza di un generico e diffuso disagio psicologico in tutto il campione. Tuttavia, l’analisi delle sofferenze al GHQ correlate al tempo di utilizzo di Internet dimostra che situazioni di significativa sofferenza sono riscontrabili solo in concomitanza con un ricorso abnorme alle rete, superiore alle 25 ore di utilizzo settimanale. Un interesse particolare merita l’analisi dell’effetto dell’età in correlazione con l’utilizzo di chat e i punteggi finali al GSQ: la ricerca di relazioni per persone con difficoltà psichiche sembrerebbe avvenire, secondo questi dati, più che altro “osservando” le relazioni da lontano o assumendo identità fasulle, proteggendosi così dagli aspetti emotivamente più impegnativi dell’incontro con l’altro. In definitiva, la ricerca del gruppo di Treviso conferma alcune affermazioni, già presenti in letteratura, circa l’associazione tra disagio personale e uso problematico di Internet.
Internet e psicopatologia tra gli studenti
Il Pensiero Scientifico Editore
Internet continua ad essere, oltre che uno strumento indispensabile, uno straordinario oggetto di studio per sociologi, psicologi e psichiatri. Una ricerca in corso di pubblicazione su Epidemiologia e psichiatria sociale apporta un ulteriore contributo alla complessa problematica del rapporto tra uso della rete e disagio psicologico, proponendosi d’indagare le caratteristiche e gli effetti dell’uso di Internet in un campione di studenti di scuole superiori.
La ricerca è stata condotta presso due istituti superiori di Conegliano Veneto, raccogliendo informazioni su età, sesso, classe frequentata ed utilizzo di Internet da parte dei genitori, sull’utilizzo oggettivo (da quanti anni e numero di ore giornaliero e settimanale) e sulla percezione soggettiva (ovvero sul vissuto personale della connessione) degli studenti, servendosi anche di un questionario (il General Health Questionnaire nella versione a 28 item di Goldberg, GHQ).
Hanno risposto 1071 studenti su 1671 questionari somministrati e 1062 sono state le risposte ritenute valide. Per quanto riguarda l’utilizzo della rete, la larga maggioranza degli studenti dichiara di navigare meno di 5 ore la settimana, mentre una piccola parte dichiara un utilizzo superiore alle 20 ore settimanali. I settori della rete più frequentati sono risultati i motori di ricerca, la posta elettronica, le chat ed i giochi di ruolo.
Rispetto alla percezione soggettiva di eventuali disagi connessi all’incapacità di gestire il proprio tempo in Internet, è rilevante la percentuale di chi risponde di passare più tempo di quanto dovrebbe in Rete o di avere difficoltà a limitarsi.
In conclusione, la ricerca segnala la presenza di un generico e diffuso disagio psicologico in tutto il campione. Tuttavia, l’analisi delle sofferenze al GHQ correlate al tempo di utilizzo di Internet dimostra che situazioni di significativa sofferenza sono riscontrabili solo in concomitanza con un ricorso abnorme alle rete, superiore alle 25 ore di utilizzo settimanale. Un interesse particolare merita l’analisi dell’effetto dell’età in correlazione con l’utilizzo di chat e i punteggi finali al GSQ: la ricerca di relazioni per persone con difficoltà psichiche sembrerebbe avvenire, secondo questi dati, più che altro “osservando” le relazioni da lontano o assumendo identità fasulle, proteggendosi così dagli aspetti emotivamente più impegnativi dell’incontro con l’altro. In definitiva, la ricerca del gruppo di Treviso conferma alcune affermazioni, già presenti in letteratura, circa l’associazione tra disagio personale e uso problematico di Internet.
Fonte: Favaretto G et al. Internet e psicopatologia: un contributo dall’analisi dell’uso della rete da parte di 1075 studenti delle scuole superiori. Epidemiologia e psichiatria sociale, 13, 4,2004:249-254.
sinistra
Fausto Bertinotti:
Adnkronos
GAD: BERTINOTTI, NON SI PUÒ NEGARE CHE L'ANTIBERLUSCONISMO È IL COLLANTE
Roma, 3 gen. (Adnkronos) - ''L'antiberlusconismo non è solo un sentimento, perché se si fa un'inchiesta nel paese si vede che una parte consistente è contraria alle politiche di questo governo. C'è un'opposizione sociale fortissima e questo elemento non è sradicabile in nome dei dissensi interni all'Alleanza, perché questi ultimi sono fisiologici nel maggioritario''. Così il segretario di Rifondazione, Fausto Bertinotti, intervistato da Radio Radicale risponde ad una domanda sul grado di coesione dell'Alleanza e su quanto in questa coesione abbia peso l'antiberlusconismo.
Il Foglio 4.1.05
Bertinotti a Rutelli: “Sì al confronto programmatico, ma no allo stravolgimento del welfare e alla riduzione delle tasse che servono a garantire i servizi”. Il leader di Rifondazione comunista è d’accordo a “confrontarsi sul merito”, ma non è convinto, come il leader della Margherita, che la Gad abbia come proprie categorie di riferimento “le forze produttive del paese”.
l'Unità 4.1.05
Rifondazione comunista
Bertinotti, alla vigilia del congresso: «Siamo nella Gad grazie a maggioritario e Berlusconi»
Roma. «Non si può dimenticare che l'opposizione a Berlusconi è parte considerevole di questa costruzione alternativa. Se non ci fosse Berlusconi, probabilmente queste forze dell'Alleanza Democratica non starebbero insieme».. Parola di Fausto Bertinotti, segretario del Prc. Nella Gad «Prc e Margherita sono agli estremi opposti» e l'antiberlusconismo «non è solo un sentimento. Una parte molto consistente del paese è radicalmente avversa alle politiche di questo governo. E questo elemento non è sradicabile in nome del fatto che ci sono dissensi nell'Alleanza». Dissensi che per il segretario di Rifondazione sono «fisiologici» in entrambi gli schieramenti «finché c'è questo sistema maggioritario. Io sono un proporzionalista e spero che vi sia una revisione che dia luogo ad un sistema elettorale come quello tedesco, ma finché c'è, è il maggioritario, bellezza...»
Nel secondo week end di gennaio inizieranno i primi congressi di circolo di Rifondazione comunista, decisivi per definire i rapporti di forza nel partito in vista del congresso che si terrà la prima settimana di marzo a Rimini. Bertinotti punta a una maggioranza autonoma, che gli consenta di fare a meno del rapporto con i leninisti dell'area di Ernesto e i trotzkisti di Area Erre, in maggioranza all'ultimo congresso del 2002, ma che ora si presentano con mozioni congressuali indipendenti. Su 120 federazioni la mozione Bertinotti «L'alternativa di società» ottiene adesioni per il 56,1% nel gruppo dirigente uscente. La mozione «Essere comunisti» dell'Ernesto è al 26,3%; Ferrando con «Progetto comunista» raccoglie il 7,9%; Area Erre con «Un'altra Rifondazione è possibile» il 7,6% e «Rompere con Prodi» di Falce e martello il 2,1%. Bertinotti fa l'en plein in realtà come Napoli, Perugia, Bari e Palermo e conquista maggioranze più o meno brillanti a Roma, Milano e Genova. L'Ernesto ha partita vinta in tre regioni (Sardegna, Valle d'Aosta, e Molise); conquista la maggioranza a Bologna, Ancona, Cosenza e Cagliari, la maggioranza relativa a Torino (dove Bertinotti è in difficoltà, anche per il positivo andamento di Area Erre) e il 36% a Milano. Ferrando si conferma forte in Liguria, specie a Savona e Genova, mentre Area Erre ha le sue punte a Torino e Roma mentre Falce e martello ottiene un lusinghiero 7,8% a Milano.
GAD: BERTINOTTI, NON SI PUÒ NEGARE CHE L'ANTIBERLUSCONISMO È IL COLLANTE
Roma, 3 gen. (Adnkronos) - ''L'antiberlusconismo non è solo un sentimento, perché se si fa un'inchiesta nel paese si vede che una parte consistente è contraria alle politiche di questo governo. C'è un'opposizione sociale fortissima e questo elemento non è sradicabile in nome dei dissensi interni all'Alleanza, perché questi ultimi sono fisiologici nel maggioritario''. Così il segretario di Rifondazione, Fausto Bertinotti, intervistato da Radio Radicale risponde ad una domanda sul grado di coesione dell'Alleanza e su quanto in questa coesione abbia peso l'antiberlusconismo.
(Mon/Col/Adnkronos)
Il Foglio 4.1.05
Bertinotti a Rutelli: “Sì al confronto programmatico, ma no allo stravolgimento del welfare e alla riduzione delle tasse che servono a garantire i servizi”. Il leader di Rifondazione comunista è d’accordo a “confrontarsi sul merito”, ma non è convinto, come il leader della Margherita, che la Gad abbia come proprie categorie di riferimento “le forze produttive del paese”.
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Rifondazione comunista
Bertinotti, alla vigilia del congresso: «Siamo nella Gad grazie a maggioritario e Berlusconi»
Roma. «Non si può dimenticare che l'opposizione a Berlusconi è parte considerevole di questa costruzione alternativa. Se non ci fosse Berlusconi, probabilmente queste forze dell'Alleanza Democratica non starebbero insieme».. Parola di Fausto Bertinotti, segretario del Prc. Nella Gad «Prc e Margherita sono agli estremi opposti» e l'antiberlusconismo «non è solo un sentimento. Una parte molto consistente del paese è radicalmente avversa alle politiche di questo governo. E questo elemento non è sradicabile in nome del fatto che ci sono dissensi nell'Alleanza». Dissensi che per il segretario di Rifondazione sono «fisiologici» in entrambi gli schieramenti «finché c'è questo sistema maggioritario. Io sono un proporzionalista e spero che vi sia una revisione che dia luogo ad un sistema elettorale come quello tedesco, ma finché c'è, è il maggioritario, bellezza...»
Nel secondo week end di gennaio inizieranno i primi congressi di circolo di Rifondazione comunista, decisivi per definire i rapporti di forza nel partito in vista del congresso che si terrà la prima settimana di marzo a Rimini. Bertinotti punta a una maggioranza autonoma, che gli consenta di fare a meno del rapporto con i leninisti dell'area di Ernesto e i trotzkisti di Area Erre, in maggioranza all'ultimo congresso del 2002, ma che ora si presentano con mozioni congressuali indipendenti. Su 120 federazioni la mozione Bertinotti «L'alternativa di società» ottiene adesioni per il 56,1% nel gruppo dirigente uscente. La mozione «Essere comunisti» dell'Ernesto è al 26,3%; Ferrando con «Progetto comunista» raccoglie il 7,9%; Area Erre con «Un'altra Rifondazione è possibile» il 7,6% e «Rompere con Prodi» di Falce e martello il 2,1%. Bertinotti fa l'en plein in realtà come Napoli, Perugia, Bari e Palermo e conquista maggioranze più o meno brillanti a Roma, Milano e Genova. L'Ernesto ha partita vinta in tre regioni (Sardegna, Valle d'Aosta, e Molise); conquista la maggioranza a Bologna, Ancona, Cosenza e Cagliari, la maggioranza relativa a Torino (dove Bertinotti è in difficoltà, anche per il positivo andamento di Area Erre) e il 36% a Milano. Ferrando si conferma forte in Liguria, specie a Savona e Genova, mentre Area Erre ha le sue punte a Torino e Roma mentre Falce e martello ottiene un lusinghiero 7,8% a Milano.
storia
un articolo di Eric Hobsbawm
Le Monde diplomatique, dicembre 2004
La scommessa della ragione
Manifesto per la storia
di Eric Hobsbawm
Dal preteso «scontro di civiltà» alla concretissima crisi sociale, dalle angosce esistenziali alle chiusure identitarie, tutto spinge a rilanciare il lavoro degli storici per comprendere l'evoluzione degli esseri umani e delle società. Nel corso degli ultimi decenni, il relativismo, in campo storico, ha marciato spesso al ritmo del consenso politico. Al contrario, è tempo di «ricostruire un fronte della ragione» per promuovere una nuova concezione della storia. È l'invito di Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici contemporanei, di cui pubblichiamo il discorso pronunciato il 13 novembre 2004 a conclusione del seminario sulla storiografia marxista, tenutosi all'Accademia britannica.
Eric Hobsbawm
«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo». (1) Le due parti della celebre «tesi su Feuerbach» di Marx, riferite al filosofo tedesco, hanno ispirato due linee di sviluppo parallele della storiografia marxista. La maggior parte degli intellettuali che abbracciarono il marxismo a partire dagli anni 1880 (inclusi gli storici marxisti), volevano trasformare il mondo, in collaborazione con i movimenti operai e socialisti; movimenti che stavano diventando, grazie all'influenza del marxismo, forze politiche di massa. La cooperazione fra intellettuali e masse orientò gli storici che intendevano cambiare il mondo, verso determinati campi di studio, in particolare la storia del popolo o della popolazione operaia che, se attiravano naturalmente le persone di sinistra, non possedevano all'origine alcun rapporto particolare con una visione marxista. All'opposto, quando a partire dagli anni 1890 molti intellettuali smisero di essere dei rivoluzionari sociali, spesso cessarono anche di professarsi marxisti.
La rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917 rinfocolò tale impegno.
Ricordiamoci, infatti, che il marxismo fu abbandonato formalmente dai principali partiti socialdemocratici dell'Europa continentale, solo negli anni '50, se non più tardi. La rivoluzione d'ottobre determinerà inoltre una storiografia marxista per così dire obbligatoria in Urss e negli stati posti in seguito sotto l'influenza del regime comunista.
La motivazione militante venne ulteriormente rafforzata durante il periodo dell'antifascismo. A partire dagli anni '50, tale tendenza si affievolì nei paesi sviluppati - ma non nel terzo mondo - sebbene l'evoluzione considerevole dell'insegnamento universitario e l'agitazione studentesca, daranno vita, durante gli anni '60, in seno all'Università, a un nuovo e importante contingente di persone decise a cambiare il mondo. Tuttavia, pur essendo radicali, molti dei contestatari non erano propriamente marxisti, alcuni - anzi - non lo erano affatto.
Questa risorgenza ideologica raggiunse l'acme negli anni '70, un po' prima che iniziasse - ancora una volta per ragioni essenzialmente politiche - una reazione di massa contro il marxismo. L'effetto principale di tale reazione fu di eliminare - tranne fra i neoliberali che vi aderiscono ancora - l'idea che si possa predire, con il sostegno dell'analisi storica, il successo di una particolare organizzazione della società umana. La storia è stata disgiunta dalla teleologia.
(2).
Considerate le incerte prospettive che si offrono ai movimenti socialdemocratici e social-rivoluzionari, risulta improbabile che si possa assistere a una nuova corsa verso il marxismo politicamente motivato. Ma facciamo attenzione a non cadere in una visione eccessivamente occidentalocentrica.
A giudicare dalla richiesta di cui sono oggetto le mie opere storiche, constato che la domanda si è sviluppata dopo gli anni 1980 in Corea del Sud e Taiwan, dopo gli anni 1990 in Turchia e che - secondo alcuni segnali - adesso aumenta nei paesi di lingua araba.
Ma che ne è stato del filone inerente alla «capacità di interpretare il mondo» del marxismo? La storia è un po' diversa, ma viaggia anche in parallelo all'altra dimensione. Riguarda la crescita di quella che si può definire la reazione anti-Ranke (3), di cui il marxismo ha rappresentato un elemento importante, anche se ciò non gli è stato sempre riconosciuto integralmente. S'è trattato, essenzialmente, di un doppio movimento.
Da una parte questa tendenza contestava l'idea positivista, secondo cui la struttura oggettiva della realtà era per così dire evidente: bastava applicare la metodologia scientifica, spiegare perché i fatti erano accaduti e come, per scoprire «wie es eigentlich gewesen» (come era andata realmente)... Per tutti gli storici, la storiografia è stata e rimane ancorata a una realtà oggettiva, ovvero la realtà di ciò che è accaduto nel passato. Tuttavia essa non parte dai fatti, ma dai problemi ed esige che si indaghi per comprendere perché e come questi problemi - paradigmi e concetti - siano stati formulati così all'interno di tradizioni storiche e ambienti socio-culturali differenti.
D'altra parte, questo movimento tentava di avvicinare le scienze sociali alla storia e di inglobarle, di conseguenza, in una disciplina generale in grado di spiegare le trasformazioni della società umana.
Per usare la formula di Lawrence Stone (4), l'oggetto della storia doveva consistere nel «porre le grandi questioni del"perché"». Questo «tornante sociale» non è derivato dalla storiografia ma dalle scienze sociali, alcune germinanti in quanto tali, che si affermavano all'epoca come discipline evoluzioniste, ovvero storiche.
Se Marx si può considerare il padre della sociologia della conoscenza, il marxismo - benché sia stato accusato, a torto, di un presunto oggettivismo cieco - ha contribuito, senza dubbio, al primo aspetto di questo movimento. Inoltre, l'impatto più noto delle idee marxiste - l'importanza attribuita ai fattori economici e sociali - non era specificamente marxista, benché l'analisi marxista abbia avuto un peso considerevolmente in questo orientamento. Tale impostazione si inscriveva in un movimento storiografico generale, evidente dagli anni 1890 e al culmine tra il 1950 e il 1960, a tutto vantaggio della mia generazione di storici, che ha avuto la fortuna di trasformare questa disciplina.
La suddetta corrente socio-economica travalicava il marxismo. La creazione di riviste e di istituzioni della storia economico-sociale è stata a volte, come in Germania, opera di socialdemocratici marxisti, come nel caso della rivista Vierteljahrschrift, nel 1893. Casi analoghi non si verificarono però in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati uniti. Persino in Germania, la scuola di economia d'impronta fortemente storica, non aveva niente di marxista. Soltanto nel terzo mondo del XIX secolo (Russia e Balcani) e in quello del XX secolo, la storia economica ha assunto un orientamento prima di tutto socialrivoluzionario, al pari di ogni «scienza sociale».
Di conseguenza, tale disciplina è stata attratta fortemente da Marx.
In ogni caso l'interesse storico degli storici marxisti non è tanto rivolto alla «base» (l'infrastruttura economica), quanto al rapporto fra base e sovrastruttura. Gli storici dichiaratamente marxisti sono sempre stati relativamente poco numerosi. Marx ha influenzato principalmente la storia, mediante lo stratagemma degli storici e dei ricercatori in scienza sociale, che hanno ripreso le questioni che egli aveva posto - indipendentemente dal fatto che abbiano apportato loro altre risposte o meno. Da parte sua la storiografia marxista è notevolmente progredita, rispetto a ciò che era all'epoca di Kautsky e Georgy Plekanov (5), grazie al fertile innesto di altre discipline (in particolare l'antropologia sociale), e al contributo scientifico di pensatori influenzati da Marx, come Max Weber, che sono giunti a completarne il pensiero (6).
La svolta sociale Se qui sottolineo il carattere generale di questa corrente storiografica non è certo per minimizzare le divergenze latenti o dichiarate all'interno delle sue componenti. I modernizzatori della storia si sono posti le stesse domande e hanno voluto impegnarsi nelle stesse battaglie intellettuali: sia che traessero ispirazione dalla geografia umana, o dalla sociologia di Durkheim (7), o dalla statistica - utilizzate, in Francia, vuoi dagli Annali, vuoi da Labrousse - , sia che facessero riferimento alla sociologia weberiana, alla «Historische Sozialwissenschaft» della Germania federale, oppure al marxismo degli storici del Partito comunista, vettori della modernizzazione storica in Gran Bretagna o, quanto meno, fondatori della sua principale rivista. Gli uni e gli altri si considerano alleati contro il conservatorismo in campo storico, anche quando le loro posizioni politiche e ideologiche sono state antagoniste come nel caso di Michel Postan (8) e dei suoi allievi marxisti britannici. Tale coalizione progressista trovò la sua espressione esemplare nella rivista Past and Present, fondata nel 1952, che divenne riferimento autorevole nel mondo degli storici. La rivista ebbe successo perché i giovani marxisti che la fondarono rifiutarono deliberatamente l'esclusività ideologica, e così i giovani modernizzatori, provenienti da altri orizzonti ideologici, furono pronti a raggiungerli, consapevoli che le differenze ideologiche e politiche non avrebbero rappresentato un ostacolo alla reciproca collaborazione. Il fronte del progresso avanzò in modo spettacolare fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 1970, in quello che Lawrence Stone definisce «un vasto insieme di sconvolgimenti nella natura del discorso storico». Il processo continuò fino alla crisi del 1985, che vide il passaggio dagli studi quantitativi agli studi qualitativi: dalla macro alla microstoria, dalle analisi strutturali ai racconti; dal sociale alle tematiche culturali...
Da allora, la coalizione modernizzatrice è sulla difensiva, persino nelle sue componenti non marxiste come la storia economica e sociale.
Negli anni '70, la corrente dominante in campo storico aveva subito un tale mutamento - per l'influenza, in particolare, delle «grandi questioni» poste alla maniera di Marx - , che io scrissi: «È spesso impossibile dire se un'opera è stata scritta da un marxista o da un non-marxista, a meno che l'autore non dichiari la sua posizione ideologica... Attendo con impazienza il giorno in cui più nessuno domanderà se gli autori sono o non sono marxisti!» Ma, come al contempo evidenziavo, eravamo lontani da una tale utopia. Da allora, l'esigenza di sottolineare l'apporto concreto del marxismo alla storiografia è diventata anzi più forte. Non avveniva così da molto tempo: sia perché la storia ha bisogno di essere difesa dagli attacchi di quanti negano la sua capacità di aiutarci a comprendere il mondo, e poi per via dei nuovi sviluppi scientifici che hanno scompigliato il calendario storiografico. Sul piano metodologico, il fenomeno negativo più rilevante è stato costruire un insieme di barriere tra ciò che è successo - o che accade - , nella storia, e la nostra capacità di osservare questi fatti e comprenderli. Questi blocchi derivano dal rifiuto di ammettere che esista una realtà oggettiva, che essa non è costruita dall'osservatore in rapporto a fini differenti e mutevoli né dovuta alla convinzione che non si possano oltrepassare i limiti del linguaggio, ovvero dei concetti che rappresentano il solo modo con cui possiamo parlare del mondo e del passato.
Una visione simile elimina la domanda se esistano schemi e regolarità nel passato, utili allo storico per formulare proposte significative.
Tuttavia, alcune ragioni meno teoriche spingono comunque a un tale rifiuto: si concluderà così che il corso del passato è troppo contingente, e cioè che le generalizzazioni sono escluse, poiché in pratica potrebbe succedere, o sarebbe potuto accadere, qualsiasi avvenimento. Questi argomenti riguardano implicitamente tutte le scienze.Tralasciamo i tentativi più futili di recuperare vecchie concezioni: attribuire il corso della storia a decisionisti politici o a militari di alto grado, all'onnipotenza delle idee o ai «valori»; oppure ridurre la dottrina storica alla ricerca, importante ma in sé insufficiente, di un'empatia con il passato... Il maggior pericolo politico immediato, che minaccia la storiografia attuale è costituito dall'«anti-universalismo» per cui «la mia verità è valida quanto la tua, quali che siano i fatti». L'anti-universalismo seduce naturalmente la storia dei gruppi identitari, nelle loro differenti forme, per cui oggetto essenziale della storia non è ciò che è accaduto, ma in che cosa ciò che è successo riguarda i membri di un gruppo particolare. In generale, ciò che conta per questo genere di storia, non è la spiegazione razionale, ma «il significato»; non quindi l'avvenimento che si è prodotto, ma il modo in cui i membri di una collettività, che si definisce in contrapposizione alle altre - in termini di religione, etnia, nazione, sesso, modo di vita, o altro - percepiscono quello che è avvenuto...
Il fascino del relativismo fa presa sulla storia dei gruppi identitari.
Per motivi diversi l'invenzione di massa delle controverità storiche e dei miti -che sono altrettante deformazioni dettate dall'emozione - ha conosciuto una vera e propria età dell'oro nel corso degli ultimi trent'anni. Alcuni di questi miti costituiscono un pericolo pubblico.
Si vedano paesi come l'India all'epoca del governo induista (9), gli Stati uniti e l'Italia di Silvio Berlusconi, per non parlare dei nuovi nazionalismi - spinti o meno dall'integralismo religioso.
Darwin e Marx In ogni caso, benché questo fenomeno, nei margini più lontani dalla storia, abbia generato abbagli e stupidaggini in certi gruppi particolari - nazionalisti, femministi, gay, neri ed altri - ha parimenti dato origine a sviluppi storici inediti e molto interessanti nell'ambito degli studi culturali, quali «il boom della memoria negli studi storici contemporanei», come lo definisce Jay Winter (10). La ricerca Les Lieux de mémoire («I luoghi della memoria»), coordinata da Pierre Nora (11) ne è un buon esempio.
Di fronte a simili derive, è tempo di ripristinare l'alleanza tra coloro che vogliono vedere nella storia una modalità razionale di indagine sulle trasformazioni umane: sia per contrastare chi la manipola a fini politici che, più in generale, per opporsi a relativisti e postmodernisti, ciechi a questa possibilità offerta dalla storia.
Fra i sunnominati relativisti, alcuni si considerano di sinistra e altri posmoderni. Sfaldature politiche inattese rischiano dunque di dividere gli storici attuali. L'approccio marxista si rivela perciò un elemento necessario per ricostruire il fronte della ragione, come già lo fu durante gli anni 1950 e 1960. Il contributo marxista risulta, infatti, ancora più pertinente oggi che altre componenti della coalizione di allora hanno abdicato. Fra queste la scuola delle Annales, con Fernand Braudel, e l'«antropologia sociale struttural-funzionale», la cui influenza è stata molto grande fra gli storici. Questa disciplina è stata particolarmente scossa dalla corsa verso la soggettività postmoderna.
Nel frattempo, mentre i postmodernisti negavano la possibilità di una comprensione storica, i progressi ottenuti nell'ambito delle scienze naturali, restituivano a una storia evoluzionista dell'umanità la piena attualità. Senza che gli storici se ne accorgessero veramente.
Ciò è avvenuto in due modi.
In primo luogo, l'analisi del Dna ha stabilito una cronologia più solida e precisa dello sviluppo, dall'apparizione dell'homo sapiens in quanto specie, in particolare per quanto riguarda la cronologia dell'espansione, nel resto del mondo, di questa specie originaria dell'Africa, e degli sviluppi che ne sono seguiti, prima che comparissero fonti scritte. Nello stesso tempo, questa scoperta ha rivelato la stupefacente brevità della storia umana - in base ai criteri geologici e paleontologici - e ha eliminato la soluzione riduzionista della sociobiologia darwiniana (12). Le trasformazioni della vita umana, sia collettiva che individuale, nel corso degli ultimi diecimila anni, e particolarmente nel corso delle ultime dieci generazioni, sono troppo rilevanti per spiegarsi, tramite i geni, secondo un meccanismo integralmente darwiniano. Le trasformazioni registrate corrispondono a un'accelerazione della trasmissione di caratteristiche acquisite, mediante meccanismi non genetici ma culturali. Si potrebbe affermare che si si tratta della rivincita di Lamarck (13) su Darwin, per il tramite della storia humana! Non serve a granché travestire il fenomeno con metafore biologiche, parlando di «memi» (14), piuttosto che di «geni». I patrimoni culturali e biologici non funzionano nello stesso modo.
Per riassumere, la rivoluzione del Dna richiede un metodo particolare, storico, per studiare l'evoluzione della specie umana. E, per inciso, essa fornisce anche un quadro razionale per una storia del mondo.
Una storia che considera il pianeta in tutta la sua complessità, come unità di studi storici, non come un contesto particolare o una regione circoscritta. In altri termini la storia è il proseguimento dell'evoluzione biologica dell'homo sapiens con altri mezzi...
In secondo luogo, la nuova biologia evoluzionista elimina la distinzione rigorosa fra storia e scienze naturali, già in gran parte cancellata dalla «storicizzazione « sistematica di queste scienze, negli ultimi decenni. Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei pionieri multidisciplinari della rivoluzione del Dna, parla del «piacere intellettuale che si prova nel trovare tante analogie fra ambiti di studio disparati, alcuni dei quali appartengono tradizionalmente ai due poli opposti della cultura: la scienza e l'umanistica». In breve: la nuova biologia ci libera dal falso dibattito circa la questione della storia in quanto scienza o non scienza. In terzo luogo, questa disciplina ci riporta inevitabilmente all'approccio di base della evoluzione umana, adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nello studio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la nostra specie e l'ambiente. Riecco quindi le questioni poste da Karl Marx. I «modi di produzione» (comunque si vogliano definire), fondati su maggiori innovazioni della tecnologia produttiva, della comunicazione e dell'organizzazione sociale - ma anche sulla potenza militare - sono al centro dell'evoluzione umana.
Tali innovazioni, di cui Marx era consapevole, non sono sopraggiunte e non arriveranno certo da sole. Le forze materiali e culturali, e i rapporti di produzione, non sono scindibili. Rappresentano, infatti, le attività di uomini e donne artefici della propria storia, ma non nel vuoto, non al di fuori della vita materiale né del loro passato storico. Di conseguenza, le nuove prospettive per la storia, devono anche ricondurci a questo obiettivo essenziale - per quanto non sia mai completamente realizzabile - per chi studia il passato: «La storia totale» - non la «storia di tutto» ma la storia intesa come una tela indivisibile, nella quale tutte le attività umane sono interconnesse - è lo scopo della ricerca. I marxisti non sono i soli che hanno puntato a questo obiettivo. Anche Fernand Braudel si è posto questo scopo, ma sono i marxisti che l'hanno perseguito con maggiore tenacia, come ha precisato uno di loro, Pierre Vilar (15).
Fra le questioni importanti sollevate da queste nuove prospettive, quella che ci riconduce all'evoluzione storica dell'uomo è fondamentale.
Si tratta del conflitto che vede da una parte le forze responsabili della trasformazione dell'homo sapiens, a partire dall'umanità del neolitico fino all'umanità dell'epoca nucleare, dall'altra le forze che mantengono immutabili la riproduzione e la stabilità delle collettività umane, o dei contesti sociali, e che nella maggior parte del corso storico le hanno efficacemente neutralizzate. È un problema teorico è centrale. L'equilibrio delle forze pende in modo decisivo verso una direzione determinata.
Lo squilibrio, che forse va al di là dell'umana comprensione, supera certamente la capacità di controllo delle istituzioni sociali e politiche degli esseri umani. Gli storici marxisti, che non avevano compreso le conseguenze involontarie e indesiderabili dei progetti collettivi umani propri del XX secolo, questa volta, forti della loro esperienza pratica, potranno forse aiutarci a comprendere come siamo arrivati a questo punto.
La scommessa della ragione
Manifesto per la storia
di Eric Hobsbawm
Dal preteso «scontro di civiltà» alla concretissima crisi sociale, dalle angosce esistenziali alle chiusure identitarie, tutto spinge a rilanciare il lavoro degli storici per comprendere l'evoluzione degli esseri umani e delle società. Nel corso degli ultimi decenni, il relativismo, in campo storico, ha marciato spesso al ritmo del consenso politico. Al contrario, è tempo di «ricostruire un fronte della ragione» per promuovere una nuova concezione della storia. È l'invito di Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici contemporanei, di cui pubblichiamo il discorso pronunciato il 13 novembre 2004 a conclusione del seminario sulla storiografia marxista, tenutosi all'Accademia britannica.
Eric Hobsbawm
«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo». (1) Le due parti della celebre «tesi su Feuerbach» di Marx, riferite al filosofo tedesco, hanno ispirato due linee di sviluppo parallele della storiografia marxista. La maggior parte degli intellettuali che abbracciarono il marxismo a partire dagli anni 1880 (inclusi gli storici marxisti), volevano trasformare il mondo, in collaborazione con i movimenti operai e socialisti; movimenti che stavano diventando, grazie all'influenza del marxismo, forze politiche di massa. La cooperazione fra intellettuali e masse orientò gli storici che intendevano cambiare il mondo, verso determinati campi di studio, in particolare la storia del popolo o della popolazione operaia che, se attiravano naturalmente le persone di sinistra, non possedevano all'origine alcun rapporto particolare con una visione marxista. All'opposto, quando a partire dagli anni 1890 molti intellettuali smisero di essere dei rivoluzionari sociali, spesso cessarono anche di professarsi marxisti.
La rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917 rinfocolò tale impegno.
Ricordiamoci, infatti, che il marxismo fu abbandonato formalmente dai principali partiti socialdemocratici dell'Europa continentale, solo negli anni '50, se non più tardi. La rivoluzione d'ottobre determinerà inoltre una storiografia marxista per così dire obbligatoria in Urss e negli stati posti in seguito sotto l'influenza del regime comunista.
La motivazione militante venne ulteriormente rafforzata durante il periodo dell'antifascismo. A partire dagli anni '50, tale tendenza si affievolì nei paesi sviluppati - ma non nel terzo mondo - sebbene l'evoluzione considerevole dell'insegnamento universitario e l'agitazione studentesca, daranno vita, durante gli anni '60, in seno all'Università, a un nuovo e importante contingente di persone decise a cambiare il mondo. Tuttavia, pur essendo radicali, molti dei contestatari non erano propriamente marxisti, alcuni - anzi - non lo erano affatto.
Questa risorgenza ideologica raggiunse l'acme negli anni '70, un po' prima che iniziasse - ancora una volta per ragioni essenzialmente politiche - una reazione di massa contro il marxismo. L'effetto principale di tale reazione fu di eliminare - tranne fra i neoliberali che vi aderiscono ancora - l'idea che si possa predire, con il sostegno dell'analisi storica, il successo di una particolare organizzazione della società umana. La storia è stata disgiunta dalla teleologia.
(2).
Considerate le incerte prospettive che si offrono ai movimenti socialdemocratici e social-rivoluzionari, risulta improbabile che si possa assistere a una nuova corsa verso il marxismo politicamente motivato. Ma facciamo attenzione a non cadere in una visione eccessivamente occidentalocentrica.
A giudicare dalla richiesta di cui sono oggetto le mie opere storiche, constato che la domanda si è sviluppata dopo gli anni 1980 in Corea del Sud e Taiwan, dopo gli anni 1990 in Turchia e che - secondo alcuni segnali - adesso aumenta nei paesi di lingua araba.
Ma che ne è stato del filone inerente alla «capacità di interpretare il mondo» del marxismo? La storia è un po' diversa, ma viaggia anche in parallelo all'altra dimensione. Riguarda la crescita di quella che si può definire la reazione anti-Ranke (3), di cui il marxismo ha rappresentato un elemento importante, anche se ciò non gli è stato sempre riconosciuto integralmente. S'è trattato, essenzialmente, di un doppio movimento.
Da una parte questa tendenza contestava l'idea positivista, secondo cui la struttura oggettiva della realtà era per così dire evidente: bastava applicare la metodologia scientifica, spiegare perché i fatti erano accaduti e come, per scoprire «wie es eigentlich gewesen» (come era andata realmente)... Per tutti gli storici, la storiografia è stata e rimane ancorata a una realtà oggettiva, ovvero la realtà di ciò che è accaduto nel passato. Tuttavia essa non parte dai fatti, ma dai problemi ed esige che si indaghi per comprendere perché e come questi problemi - paradigmi e concetti - siano stati formulati così all'interno di tradizioni storiche e ambienti socio-culturali differenti.
D'altra parte, questo movimento tentava di avvicinare le scienze sociali alla storia e di inglobarle, di conseguenza, in una disciplina generale in grado di spiegare le trasformazioni della società umana.
Per usare la formula di Lawrence Stone (4), l'oggetto della storia doveva consistere nel «porre le grandi questioni del"perché"». Questo «tornante sociale» non è derivato dalla storiografia ma dalle scienze sociali, alcune germinanti in quanto tali, che si affermavano all'epoca come discipline evoluzioniste, ovvero storiche.
Se Marx si può considerare il padre della sociologia della conoscenza, il marxismo - benché sia stato accusato, a torto, di un presunto oggettivismo cieco - ha contribuito, senza dubbio, al primo aspetto di questo movimento. Inoltre, l'impatto più noto delle idee marxiste - l'importanza attribuita ai fattori economici e sociali - non era specificamente marxista, benché l'analisi marxista abbia avuto un peso considerevolmente in questo orientamento. Tale impostazione si inscriveva in un movimento storiografico generale, evidente dagli anni 1890 e al culmine tra il 1950 e il 1960, a tutto vantaggio della mia generazione di storici, che ha avuto la fortuna di trasformare questa disciplina.
La suddetta corrente socio-economica travalicava il marxismo. La creazione di riviste e di istituzioni della storia economico-sociale è stata a volte, come in Germania, opera di socialdemocratici marxisti, come nel caso della rivista Vierteljahrschrift, nel 1893. Casi analoghi non si verificarono però in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati uniti. Persino in Germania, la scuola di economia d'impronta fortemente storica, non aveva niente di marxista. Soltanto nel terzo mondo del XIX secolo (Russia e Balcani) e in quello del XX secolo, la storia economica ha assunto un orientamento prima di tutto socialrivoluzionario, al pari di ogni «scienza sociale».
Di conseguenza, tale disciplina è stata attratta fortemente da Marx.
In ogni caso l'interesse storico degli storici marxisti non è tanto rivolto alla «base» (l'infrastruttura economica), quanto al rapporto fra base e sovrastruttura. Gli storici dichiaratamente marxisti sono sempre stati relativamente poco numerosi. Marx ha influenzato principalmente la storia, mediante lo stratagemma degli storici e dei ricercatori in scienza sociale, che hanno ripreso le questioni che egli aveva posto - indipendentemente dal fatto che abbiano apportato loro altre risposte o meno. Da parte sua la storiografia marxista è notevolmente progredita, rispetto a ciò che era all'epoca di Kautsky e Georgy Plekanov (5), grazie al fertile innesto di altre discipline (in particolare l'antropologia sociale), e al contributo scientifico di pensatori influenzati da Marx, come Max Weber, che sono giunti a completarne il pensiero (6).
La svolta sociale Se qui sottolineo il carattere generale di questa corrente storiografica non è certo per minimizzare le divergenze latenti o dichiarate all'interno delle sue componenti. I modernizzatori della storia si sono posti le stesse domande e hanno voluto impegnarsi nelle stesse battaglie intellettuali: sia che traessero ispirazione dalla geografia umana, o dalla sociologia di Durkheim (7), o dalla statistica - utilizzate, in Francia, vuoi dagli Annali, vuoi da Labrousse - , sia che facessero riferimento alla sociologia weberiana, alla «Historische Sozialwissenschaft» della Germania federale, oppure al marxismo degli storici del Partito comunista, vettori della modernizzazione storica in Gran Bretagna o, quanto meno, fondatori della sua principale rivista. Gli uni e gli altri si considerano alleati contro il conservatorismo in campo storico, anche quando le loro posizioni politiche e ideologiche sono state antagoniste come nel caso di Michel Postan (8) e dei suoi allievi marxisti britannici. Tale coalizione progressista trovò la sua espressione esemplare nella rivista Past and Present, fondata nel 1952, che divenne riferimento autorevole nel mondo degli storici. La rivista ebbe successo perché i giovani marxisti che la fondarono rifiutarono deliberatamente l'esclusività ideologica, e così i giovani modernizzatori, provenienti da altri orizzonti ideologici, furono pronti a raggiungerli, consapevoli che le differenze ideologiche e politiche non avrebbero rappresentato un ostacolo alla reciproca collaborazione. Il fronte del progresso avanzò in modo spettacolare fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 1970, in quello che Lawrence Stone definisce «un vasto insieme di sconvolgimenti nella natura del discorso storico». Il processo continuò fino alla crisi del 1985, che vide il passaggio dagli studi quantitativi agli studi qualitativi: dalla macro alla microstoria, dalle analisi strutturali ai racconti; dal sociale alle tematiche culturali...
Da allora, la coalizione modernizzatrice è sulla difensiva, persino nelle sue componenti non marxiste come la storia economica e sociale.
Negli anni '70, la corrente dominante in campo storico aveva subito un tale mutamento - per l'influenza, in particolare, delle «grandi questioni» poste alla maniera di Marx - , che io scrissi: «È spesso impossibile dire se un'opera è stata scritta da un marxista o da un non-marxista, a meno che l'autore non dichiari la sua posizione ideologica... Attendo con impazienza il giorno in cui più nessuno domanderà se gli autori sono o non sono marxisti!» Ma, come al contempo evidenziavo, eravamo lontani da una tale utopia. Da allora, l'esigenza di sottolineare l'apporto concreto del marxismo alla storiografia è diventata anzi più forte. Non avveniva così da molto tempo: sia perché la storia ha bisogno di essere difesa dagli attacchi di quanti negano la sua capacità di aiutarci a comprendere il mondo, e poi per via dei nuovi sviluppi scientifici che hanno scompigliato il calendario storiografico. Sul piano metodologico, il fenomeno negativo più rilevante è stato costruire un insieme di barriere tra ciò che è successo - o che accade - , nella storia, e la nostra capacità di osservare questi fatti e comprenderli. Questi blocchi derivano dal rifiuto di ammettere che esista una realtà oggettiva, che essa non è costruita dall'osservatore in rapporto a fini differenti e mutevoli né dovuta alla convinzione che non si possano oltrepassare i limiti del linguaggio, ovvero dei concetti che rappresentano il solo modo con cui possiamo parlare del mondo e del passato.
Una visione simile elimina la domanda se esistano schemi e regolarità nel passato, utili allo storico per formulare proposte significative.
Tuttavia, alcune ragioni meno teoriche spingono comunque a un tale rifiuto: si concluderà così che il corso del passato è troppo contingente, e cioè che le generalizzazioni sono escluse, poiché in pratica potrebbe succedere, o sarebbe potuto accadere, qualsiasi avvenimento. Questi argomenti riguardano implicitamente tutte le scienze.Tralasciamo i tentativi più futili di recuperare vecchie concezioni: attribuire il corso della storia a decisionisti politici o a militari di alto grado, all'onnipotenza delle idee o ai «valori»; oppure ridurre la dottrina storica alla ricerca, importante ma in sé insufficiente, di un'empatia con il passato... Il maggior pericolo politico immediato, che minaccia la storiografia attuale è costituito dall'«anti-universalismo» per cui «la mia verità è valida quanto la tua, quali che siano i fatti». L'anti-universalismo seduce naturalmente la storia dei gruppi identitari, nelle loro differenti forme, per cui oggetto essenziale della storia non è ciò che è accaduto, ma in che cosa ciò che è successo riguarda i membri di un gruppo particolare. In generale, ciò che conta per questo genere di storia, non è la spiegazione razionale, ma «il significato»; non quindi l'avvenimento che si è prodotto, ma il modo in cui i membri di una collettività, che si definisce in contrapposizione alle altre - in termini di religione, etnia, nazione, sesso, modo di vita, o altro - percepiscono quello che è avvenuto...
Il fascino del relativismo fa presa sulla storia dei gruppi identitari.
Per motivi diversi l'invenzione di massa delle controverità storiche e dei miti -che sono altrettante deformazioni dettate dall'emozione - ha conosciuto una vera e propria età dell'oro nel corso degli ultimi trent'anni. Alcuni di questi miti costituiscono un pericolo pubblico.
Si vedano paesi come l'India all'epoca del governo induista (9), gli Stati uniti e l'Italia di Silvio Berlusconi, per non parlare dei nuovi nazionalismi - spinti o meno dall'integralismo religioso.
Darwin e Marx In ogni caso, benché questo fenomeno, nei margini più lontani dalla storia, abbia generato abbagli e stupidaggini in certi gruppi particolari - nazionalisti, femministi, gay, neri ed altri - ha parimenti dato origine a sviluppi storici inediti e molto interessanti nell'ambito degli studi culturali, quali «il boom della memoria negli studi storici contemporanei», come lo definisce Jay Winter (10). La ricerca Les Lieux de mémoire («I luoghi della memoria»), coordinata da Pierre Nora (11) ne è un buon esempio.
Di fronte a simili derive, è tempo di ripristinare l'alleanza tra coloro che vogliono vedere nella storia una modalità razionale di indagine sulle trasformazioni umane: sia per contrastare chi la manipola a fini politici che, più in generale, per opporsi a relativisti e postmodernisti, ciechi a questa possibilità offerta dalla storia.
Fra i sunnominati relativisti, alcuni si considerano di sinistra e altri posmoderni. Sfaldature politiche inattese rischiano dunque di dividere gli storici attuali. L'approccio marxista si rivela perciò un elemento necessario per ricostruire il fronte della ragione, come già lo fu durante gli anni 1950 e 1960. Il contributo marxista risulta, infatti, ancora più pertinente oggi che altre componenti della coalizione di allora hanno abdicato. Fra queste la scuola delle Annales, con Fernand Braudel, e l'«antropologia sociale struttural-funzionale», la cui influenza è stata molto grande fra gli storici. Questa disciplina è stata particolarmente scossa dalla corsa verso la soggettività postmoderna.
Nel frattempo, mentre i postmodernisti negavano la possibilità di una comprensione storica, i progressi ottenuti nell'ambito delle scienze naturali, restituivano a una storia evoluzionista dell'umanità la piena attualità. Senza che gli storici se ne accorgessero veramente.
Ciò è avvenuto in due modi.
In primo luogo, l'analisi del Dna ha stabilito una cronologia più solida e precisa dello sviluppo, dall'apparizione dell'homo sapiens in quanto specie, in particolare per quanto riguarda la cronologia dell'espansione, nel resto del mondo, di questa specie originaria dell'Africa, e degli sviluppi che ne sono seguiti, prima che comparissero fonti scritte. Nello stesso tempo, questa scoperta ha rivelato la stupefacente brevità della storia umana - in base ai criteri geologici e paleontologici - e ha eliminato la soluzione riduzionista della sociobiologia darwiniana (12). Le trasformazioni della vita umana, sia collettiva che individuale, nel corso degli ultimi diecimila anni, e particolarmente nel corso delle ultime dieci generazioni, sono troppo rilevanti per spiegarsi, tramite i geni, secondo un meccanismo integralmente darwiniano. Le trasformazioni registrate corrispondono a un'accelerazione della trasmissione di caratteristiche acquisite, mediante meccanismi non genetici ma culturali. Si potrebbe affermare che si si tratta della rivincita di Lamarck (13) su Darwin, per il tramite della storia humana! Non serve a granché travestire il fenomeno con metafore biologiche, parlando di «memi» (14), piuttosto che di «geni». I patrimoni culturali e biologici non funzionano nello stesso modo.
Per riassumere, la rivoluzione del Dna richiede un metodo particolare, storico, per studiare l'evoluzione della specie umana. E, per inciso, essa fornisce anche un quadro razionale per una storia del mondo.
Una storia che considera il pianeta in tutta la sua complessità, come unità di studi storici, non come un contesto particolare o una regione circoscritta. In altri termini la storia è il proseguimento dell'evoluzione biologica dell'homo sapiens con altri mezzi...
In secondo luogo, la nuova biologia evoluzionista elimina la distinzione rigorosa fra storia e scienze naturali, già in gran parte cancellata dalla «storicizzazione « sistematica di queste scienze, negli ultimi decenni. Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei pionieri multidisciplinari della rivoluzione del Dna, parla del «piacere intellettuale che si prova nel trovare tante analogie fra ambiti di studio disparati, alcuni dei quali appartengono tradizionalmente ai due poli opposti della cultura: la scienza e l'umanistica». In breve: la nuova biologia ci libera dal falso dibattito circa la questione della storia in quanto scienza o non scienza. In terzo luogo, questa disciplina ci riporta inevitabilmente all'approccio di base della evoluzione umana, adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nello studio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la nostra specie e l'ambiente. Riecco quindi le questioni poste da Karl Marx. I «modi di produzione» (comunque si vogliano definire), fondati su maggiori innovazioni della tecnologia produttiva, della comunicazione e dell'organizzazione sociale - ma anche sulla potenza militare - sono al centro dell'evoluzione umana.
Tali innovazioni, di cui Marx era consapevole, non sono sopraggiunte e non arriveranno certo da sole. Le forze materiali e culturali, e i rapporti di produzione, non sono scindibili. Rappresentano, infatti, le attività di uomini e donne artefici della propria storia, ma non nel vuoto, non al di fuori della vita materiale né del loro passato storico. Di conseguenza, le nuove prospettive per la storia, devono anche ricondurci a questo obiettivo essenziale - per quanto non sia mai completamente realizzabile - per chi studia il passato: «La storia totale» - non la «storia di tutto» ma la storia intesa come una tela indivisibile, nella quale tutte le attività umane sono interconnesse - è lo scopo della ricerca. I marxisti non sono i soli che hanno puntato a questo obiettivo. Anche Fernand Braudel si è posto questo scopo, ma sono i marxisti che l'hanno perseguito con maggiore tenacia, come ha precisato uno di loro, Pierre Vilar (15).
Fra le questioni importanti sollevate da queste nuove prospettive, quella che ci riconduce all'evoluzione storica dell'uomo è fondamentale.
Si tratta del conflitto che vede da una parte le forze responsabili della trasformazione dell'homo sapiens, a partire dall'umanità del neolitico fino all'umanità dell'epoca nucleare, dall'altra le forze che mantengono immutabili la riproduzione e la stabilità delle collettività umane, o dei contesti sociali, e che nella maggior parte del corso storico le hanno efficacemente neutralizzate. È un problema teorico è centrale. L'equilibrio delle forze pende in modo decisivo verso una direzione determinata.
Lo squilibrio, che forse va al di là dell'umana comprensione, supera certamente la capacità di controllo delle istituzioni sociali e politiche degli esseri umani. Gli storici marxisti, che non avevano compreso le conseguenze involontarie e indesiderabili dei progetti collettivi umani propri del XX secolo, questa volta, forti della loro esperienza pratica, potranno forse aiutarci a comprendere come siamo arrivati a questo punto.
note:
* Storico inglese. Autore di Il secolo breve, Rizzoli, 2000.
(1) Marx-Engels, Opere, V vol., Editori Riuniti
(2) Teleologia: dottrina che si fonda sull'idea di finalità.
(3) Reazione contro Leopold von Ranke (1795-1886), considerato il padre della principale scuola di storiografia universitaria, prima del 1914. Autore in particolare dei volumi Storia del popolo romano e germanico dal 1494 al 1535 (1824) e Histoire du monde (Weltgeschichte) (1881-1888- testo incompiuto).
(4) Lawrence Stone (1920-1990) una tra le più eminenti e influenti personalità della storia sociale. Fu autore, segnatamente dei volumi The cause of the English Revolution 1529-1642 (1972) (trad. it. Le cause della rivoluzione inglese, Einaudi, 2001) e The family, Sex and Marriage in England, 1500-1800 (1977).
(5) Furono dirigenti, l'uno della socialdemocrazia tedesca, l'altro della socialdemocrazia russa, all'inizio del XX secolo.
(6) Max Weber (1864-1920), sociologo tedesco.
(7) Dal nome di Emile Durkheim (1858-1917) che ha fondato Le regole del metodo sociologico (1895) Einaudi, 2001 e che è considerato, dunque, uno dei padri della sociologia moderna. Fu autore in particolare del saggio La divisione del lavoro sociale (1893) Einaudi, 1999 e della ricerca: Il suicidio (1897).
(8) Dal 1937 Michael Postan tiene la cattedra di storia economica all'Università di Cambridge. È stato ispiratore, insieme a Fernand Braudel, dell'Associazione internazionale di storia economica.
(9) Il partito Bharatiya Janata (Bjp) ha diretto il governo indiano dal 1999 fino a maggio del 2004.
(10) È professore all'Università di Columbia (New York), considerato uno dei grandi specialisti della storia delle guerre del XX secolo e soprattutto dei «luoghi della memoria».
(11) Cfr: Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris, 3 voll., 1984, 1986, 1993
(12) Dal nome di Charles Darwin (1809-1882), naturalista inglese che ha teorizzato l'evoluzione della specie fondata sulla selezione naturale.
(13) Jean-Baptiste Lamark (1744-1829), naturalista francese che, per primo, ha contestato l'idea della permanenza della specie.
(14) I «memi» secondo Richard Dawkins, uno dei capofila del neo-darwinismo, sono unità di base della memoria, considerati vettori della trasmissione e sopravvivenza culturale, così come i geni sono i vettori della sopravvivenza delle caratteristiche genetiche degli individui.
(15) Si legga, in proposito, Une histoire en construction: approche marxiste et problématique conjoncturelle, Gallimard-Seuil, Paris,1982.
(Traduzione di E.G.)
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