domenica 7 settembre 2003

Caprara sul Mattino

Il Mattino 7.9.03
Un capolavoro
umiliato e offeso
VALERIO CAPRARA

Venezia. Lo scherzo del cartaio sadico Moritz de Hadeln produce infine l'inevitabile jolly. C'è anche una finezza da Guinness dei primati nelle pieghe di un verdetto adeguato alla carambola impazzita del programma: il Leone d'argento che corrisponde al premio speciale per la regia va alla signorina libanese Chahal Sabbag, autrice di un film il cui livello di maturità e complessità rispecchia in pieno il suo titolo, «L'aquilone».
Ne consegue che Marco Bellocchio non è stato ritenuto competitivo neppure sul piano dello stile e della tecnica, anche perché la mancia che gli viene erogata sotto forma di menzione dopolavoristica gli riconosce un «contributo individuale di particolare rilievo».
Formidabile: chi ha detto che i festival coltivano un pregiudizio contro la comicità e la commedia? Nell'ipotesi più buonista che ci venga in mente, Monicelli & company (compreso Stefano Accorsi che recita molto meglio di quando esterna) hanno pensato di aureolare «Buongiorno, notte» spingendolo nella lista dei capolavori umiliati e offesi.
È chiaro, invece, che la forza di una pellicola capace di esprimersi a un livello multiplo (psicanalitico, artistico, politico) senza concedere appigli fissi trascende il piccolo cabotaggio degli addetti ai lavori, abituati a scappellarsi soltanto di fronte ai girotondini della cinefilia. Prendiamo il Leone d'oro che va a «Il ritorno»: sarà perché l'opera prima di Zvjagintsev segnala una talentuosa predisposizione oppure perché include una nebulosa metafora sullo sfascio morale della nuova Russia?
Per la Mostra impettita di Bernabé e de Hadeln, che effettivamente ha arruolato qualche film migliore del solito e ha distanziato (non ci voleva molto) quell'odioso cineclub francomane che è diventata Cannes, si sono mossi molti fiancheggiatori frementi, ma alla resa dei conti la campana ha suonato in maniera stonata.
Il doppio concorso non ha funzionato, le carenze strutturali non sono state arginate, il glamour ha come al solito boccheggiato nel claustrofobico recinto Palazzo-Casinò-Excelsior e l'infelice assemblaggio della giuria non ha fatto altro che portare al pettine i nodi di sempre. Certo, un Leone d'argento è andato all'irresistibile pastiche di Takeshi Kitano, uno che nello sparigliare i generi divertendosi e divertendo non è secondo a nessuno. Ma che dire di fronte all'ennesimo premio affibbiato a Sean Penn, americano «contro» e quindi remunerato d'ufficio persino quando s'arrangia in un film insulso come «21 grammi»?
Se Bellocchio è stato bastonato, il grandioso Roberto Herlitzka/Aldo Moro non poteva che seguirlo nel cantuccio dei cattivi. Per non parlare dell'attrice del probo centone televisivo «Rosenstrasse», una di quelle oneste professioniste che proprio non ce la fanno a incarnare un modello di recitazione trascinante e moderno. Quasi quasi il sessantesimo festival riesce a tramandarsi con più sprint grazie alle maglie nere, macchie di celluloide che in qualche modo valorizzano il menù ritualistico: «Segreti di stato», una sorta di compitino per ritardati dell'impegno, o magari «Twentynine Palms», che porta ai limiti estremi l'occulto disegno dell'autorismo eurocéntrico. Vuoi vedere che il genio incompreso Bruno Dumont è il vero capo delle Br e il responsabile della strage di Portella della Ginestra?