domenica 7 settembre 2003

La Repubblica

Repubblica 7.9.03
L´ESCLUSO
Incontro con il regista che ha voluto vedere il suo film con il pubblico al cinema Eden di Roma
Bellocchio: mi sento un isolato forse non sono un tipo da premi
"Ho avuto una reazione di amarezza, non volevo vedere intorno a me facce dolenti"
"Ognuno ha la sua testa. E noi italiani siamo imbattibili a non difendere le nostre cose"
di CONCITA DE GREGORIO

ROMA - La folla ferma il traffico, alle dieci di sera davanti a un grande cinema di Roma. Bellocchio, Maya Sansa, Herlitzka-Moro e tutti gli altri attori di "Buongiorno, notte" davanti all´ingresso. Tutti tranne Lo Cascio, rimasto a Venezia a ritirare il premio per "il miglior contributo alla sceneggiatura", piccolo premio marginale. «Bravi, il Leone d´oro l´avete vinto voi», gridano. Dieci minuti di applausi, «bravo Marco», dieci minuti sono lunghi, finisce che commuovono. Bellocchio si asciuga gli occhi dietro le lenti. «Ha capito perché ho preferito venire qui?» bisbiglia all´orecchio Maya con quel suo sorriso «perché volevo una festa, lui se la meritava». Lui, il regista. Herlitzka viene avvicinato da una signora che gli dice: «Ma allora lei è vivo, che impressione». Sorride gentile: «Non è la prima che sussulta a vedermi, anche a Venezia...».
Venezia. Il Leone l´ha vinto il film russo e Marco Bellocchio se n´è andato via. «Ma guardi, non per polemica. Riconosco le regole e le rispetto. Nemmeno perché volessi il premio, figuriamoci. Non ho mai vinto un festival in tutta la vita. È solo che ho preferito così: mi sono preso una libertà. Ho avuto voglia di stare coi miei attori e con il pubblico, stasera. Sa, sono un passionale. Ho agito d´istinto». In sala prende il microfono: «Voglio esprimere il piacere di essere qui con voi e non là con loro. Ecco, basta». Altri applausi, altre lacrime.
Eppure, Bellocchio, è nella logica di un festival che uno vinca e gli altri no. Magari il film russo è bellissimo.
«Non saprei, non l´ho visto. Non ho avuto tempo di vederne nessuno. Magari sarà bello, sì. Cosa vuole che le dica? Ho avuto una reazione di amarezza, non ho avuto voglia di vedere attorno a me facce dolenti. Volevo un po´ di contentezza stasera. Forse sul piano razionale ho avuto torto, ma di fronte a un pubblico che riempie le sale e che ti accoglie così, come qui stasera».
Andarsene la sera della premiazione ha anche un colore polemico. Dicono che con Monicelli vi siate incontrati senza salutarvi, e che lui vedendola circondato dai sui attori abbia detto: «Ecco il plotone».
«Ma no, Monicelli è simpatico. E poi ognuno ha la sua testa. Si può amare un film oppure no. Aveva detto che a parità di condizioni si dovevano premiare i film italiani. Evidentemente non è stato così. Noi italiani siamo imbattibili a non difendere le nostre cose».
Premiamo i russi, i giapponesi, i cinesi.
«Ecco, sì, anche bravissimi. Peccato che poi non ci sia reciprocità».
Dicono anche che Accorsi, l´altro giurato italiano, volesse fare la parte di Moretti nel suo film e che lei gli abbia preferito Lo Cascio.
«Sì ma cosa c´entra?, sono cose che succedono».
Infine dicono che i giurati stranieri, il cinese, il tedesco forse il francese non abbiamo capito il senso che questo film ha per un pubblico italiano.
«Questo è possibile. D´altra parte io questi giurati non li conosco. Forse sono dei geni nei loro campi, ma non li conosco».
Però le hanno dato il premio per il contributo alla sceneggiatura.
«Diciamo la verità: un premio marginale. Ho gradito di più quelli delle giurie dei giovani. Ma poi non è per il premio, sa...».
Per cosa, dunque?
«È che questo film ha avuto per me un´importanza, un senso speciali. Io che sono stato solo uno spettatore di quegli eventi, che ho avuto una militanza politica utopistica e ridicola dieci anni prima, ma poi al tempo della tragedia mi sono tenuto lontano, ho chiuso gli occhi... ecco, venticinque anni dopo si sono stabilite le condizioni per ripensare qualcosa che riguardava tutti, e anche me. I conti con un passato lasciato in sospeso. Un operaio mi ha avvicinato a Venezia e mi ha detto: io sono fra quelli che quando rapirono Moro stavo idealmente con loro, a rivedere il film mi sono messo a piangere».
Altri, a sinistra, hanno criticato una sua certa indulgenza nel tratteggiare la figura di Moro.
«Sì un amico mi ha detto che qualche vecchio comunista ha trovato il mio Moro un po´ idealizzato. Ma sa, io non ho fatto un documentario. Ho pensato a una figura di padre, in specie al mio che è morto quando avevo 16 anni: una figura che ho annullato per l´insostenibilità della tragedia della morte. Il film è tutta una storia di padri e figli, o figlie».
Ha voluto nel cast anche suo figlio Piergiorgio.
«Sì, non credo sia un caso. Pensi che siccome Herlitzka al principio non poteva per un momento ho pensato di fare io la parte di Moro. Per fortuna ho scartato l´idea. Sarebbe stato un pasticcio notevole: io nel ruolo di mio padre e mio figlio in quello del mio assassino».
Psicanaliticamente perfetto.
«Troppo, no? Ma quel che conta è andare avanti. Ho un altro progetto, si chiama "Il regista di matrimoni". Lo sto scrivendo. È la storia di un regista di cinema che lontano da Roma conosce un regista di matrimoni e si mette a lavorare con lui. Lo farà Castellitto. Un´altra storia autobiografica. Del resto, ripensando al Leone, deve essere scritto nella mia storia che io non sia un tipo da premi».
Da cosa dipende?
«È un destino. Io sono irrimediabilmente un non riconciliato. Un isolato. C´è qualcosa che mi rende estraneo, eppure stimo e sono stimato, ma estraneo: incapace di fare famiglia col cinema italiano. "I pugni in tasca" ha segnato la mia vita, come tutte le prime volte. "Il diavolo in corpo" è stato per me sconvolgente. Adesso sono in pace col mio lavoro, lo amo. Il pubblico lo sente, si vede che basta così».