domenica 7 settembre 2003

dopo, Liberazione...

Un Leone che non ruggisce
Roberta Ronconi

Non è Bellocchio. Il Leone non è di Bellocchio. L'intero Lido ieri è rimasto senza fiato nel venire a sapere - durante la premiazione, ma in realtà le voci circolavano già dal pomeriggio - che il film più unanimemente amato e applaudito di questa 60ma Mostra di Venezia non avrebbe ricevuto il massimo riconoscimento della Giuria. Guidata dal suo presidente Mario Monicelli (e composta, inoltre, da Stefano Accorsi, Michael Ballahaus, Ann Hui, Pierre Jolivet, Monty Montgomery Assumpta Serna), questa ha preferito mettere il Leone d'oro nelle mani di Andrej Zvyagintsev, regista russo che ha dedicato la vittoria a uno dei suoi giovani protagonisti, morto subito dopo le riprese del film. "Il ritorno" è stato un titolo molto amato e applaudito dal pubblico del Lido, un po' meno dai critici cinematografici (noi comprese) che lo hanno trovato un perfetto prodotto da festival, formalmente e narrativamente impeccabile e proprio per questo meno interessante di altri titoli artisticamente più "sporchi". Una scelta che farà discutere a lungo, anche nei prossimi giorni, e che probabilmente ha un profilo politico, oltre che artistico. Per rabbia, crediamo, sia Marco Bellocchio che la sua attrice Maya Sansa (che avrebbe dovuto consegnare un premio) hanno lasciato ieri Venezia nel primo pomeriggio, decidendo così di non presenziare alla serata di premiazione.
(...)

prima, Il Corriere della Sera...
Quel sogno di Chiara
mentre moriva la Prima Repubblica
di Paolo Franchi

E’ il caso di ringraziare Marco Bellocchio per averci dato questo Buongiorno, notte, un bel film, anzi, un bellissimo film su una vicenda drammatica e cruciale come il sequestro, la prigionia e l’assassinio di Aldo Moro. Un film che non ci ammannisce verità preconfezionate sorrette da sconvolgenti pseudorivelazioni; ma che nonostante questo, o forse proprio per questo, ci costringe a ripensare a quei terribili 55 giorni e a cosa ci hanno lasciato in eredità. Altro che Mani Pulite, altro che referendum elettorali. La Prima Repubblica, quella vera, entrò in crisi preagonica il 16 marzo del 1978, il giorno del sequestro di Moro; visse la sua agonia nelle settimane in cui Moro fu rinchiuso nel «carcere del popolo»; e morì il 9 di maggio, quando il cadavere del presidente democristiano fu restituito dai brigatisti a poche decine di metri da Botteghe Oscure e da piazza del Gesù. Con Moro veniva meno il suo leader più lucido e consapevole, la sua incarnazione più alta: il conservatore illuminato che si era fatto garante della possibilità di portare a compimento definitivo l’allargamento delle sue basi politiche e sociali, una sorta di moderno Giolitti.Con il suo assassinio si chiudeva di fatto il tempo dell’unità nazionale, si apriva (da subito) la crisi del Pci, e in prospettiva (non lunghissima) la crisi democristiana. E finiva anche il nostro lungo dopoguerra, la stagione dei processi politici così lenti da sembrare interminabili, eppure fondati, così come i partiti che li promuovevano, su un consenso faticosamente guadagnato, passo dopo passo, nel profondo della società italiana, e alla fine così vasto da renderli quasi irreversibili. Tutto questo Moro era, o per lo meno questo simboleggiava, per amici, interlocutori ed avversari. E tutto questo era, senza di lui, letteralmente impossibile. Lo avevano chiaro anche i brigatisti: davvero sequestrandolo e assassinandolo il partito armato scientemente provvide ad uccidere, con un’ overdose di decisione politica, un sistema cronicamente afflitto da astinenza da decisione? Non può essere certo un film, seppure bello e intelligente, a dare risposte definitive a un simile quesito, specie se giustamente rifugge dall’eterno gioco della ricerca degli ipotetici mandanti, e ci racconta invece i carcerieri di Moro per quello che presumibilmente erano: militanti finiti sul binario morto dell’allucinazione ideologica, capaci anche, in alcuni casi, di chiedersi angosciati in quale girone infernale si fossero andati a cacciare, ma destinati, prigionieri com’erano di una cieca autoreferenzialità politica, a portare a sentenza irreversibile il loro «processo».
Certo, è solo un sogno della più inquieta delle carceriere, Chiara, quel Moro che se ne esce libero dall’appartamento, e se ne va da solo verso casa in una Roma deserta. Ma quel sogno avrebbe potuto anche essere una possibilità politica, oltre che, naturalmente, umana: la possibilità che, fuori dal carcere, il cosiddetto «partito della trattativa» cercò invano di tenere aperta, e che il cosiddetto «partito della fermezza» osteggiò con successo. Moro restituito vivo, dopo quei 55 giorni, non sarebbe stato davvero lo stesso di prima; e forse anche la nostra storia avrebbe preso una piega assai diversa. I suoi sostenitori democristiani, comunisti, laici, lo temettero. I suoi tradizionali avversari, a cominciare da Craxi, inutilmente lo sperarono. Alla fine, persero tutti.
Si disse allora che, dopo il suo sacrificio, nulla sarebbe tornato come prima. Non era vero. Il film di Bellocchio, stavolta feroce e impietoso, ci ripropone le immagini dei funerali di Stato di Moro nella basilica di San Giovanni: funerali senza salma, per volontà della famiglia. In piazza (ma queste il film non ce le mostra) qualche centinaio di bandiere scudocrociate e di bandiere rosse, che sventolano sempre più stanche. Dentro la basilica, ad ascoltare le parole di Paolo VI, che attanagliato dal dolore chiede angosciato a Dio perché non ha ascoltato la sua supplica, i volti impietriti di una classe dirigente che forse per la prima volta intuisce di non essere più tale. Non sapremmo dire se Buongiorno, notte sarà apprezzato dai più giovani. Certo però i più giovani questi volti li ricorderanno. E, ricordandoli, avranno un motivo per cogliere retrospettivamente come noi, in quel Moro sognato, che solo soletto fugge dai suoi assassini e forse pure da quella classe dirigente, un messaggio (deluso) di speranza.

IL LIBRO
«I canarini erano fuggiti. E la colpa era mia»

Paola Tavella, l’autrice dell’intervista di questa pagina, ha scritto con Anna Laura Braghetti il libro «Il prigioniero» (in nuova uscita per Feltrinelli Editore) che ha ispirato il film di Bellocchio. Eccone un brano :
La gabbia era vuota, con la porta spalancata. Mi prese il panico. Come poteva essere successo? Dovevo per forza essere stata io a lasciarla aperta. Ora dovevo andare in cucina e dirlo a Prospero. Si sarebbe infuriato, e avrei passato un guaio, lo sapevo benissimo. E non c’era modo di correre ai ripari. A quell’ora i canarini dovevano essere chissà dove.
Nella casa di via Montalcini c’era una gabbia con due canarini gialli. La tenevo appesa al soffitto, nel salone, ma accadeva che al mattino, prima di uscire, portassi la gabbia con una vaschetta piena d’acqua in giardino. Ai canarini piace fare il bagno. Prospero andava pazzo per quei due uccelli. Ne curò uno che si era ferito a una zampa, e un giorno che il tempo era cambiato ed erano restati fuori sotto il temporale lo trovai che li asciugava con il phon. E ora erano scappati, per colpa mia. Dovevo aver fatto uno di quei gesti automatici che, si sa, alludono ad altro. Chi avrei voluto lasciare libero? me stessa, Aldo Moro? Mi precipitai in casa e raggiunsi lo studio, feci girare sui cardini la libreria e accostai l’occhio allo spioncino sulla porta della cella. Era il mio rituale di tutte le sere, quello che segnava il salto fra una identità e l’altra. Come mai, invece, lo avevo dimenticato? Il prigioniero sedeva sul letto, un taccuino sulle ginocchia, e scriveva. In quei giorni scriveva sempre.
(per gentile concessione della Feltrinelli Editore)

PRIMA_PAGINA
Al cinema con Anna Laura Braghetti, carceriera del leader dc: nell’opera di Bellocchio compare come Chiara
«Sognai di salvare Moro, come nel film. Ma non feci nulla»

«Ero contraria. Ero inorridita. Come nel film ho immaginato di lasciar andare Aldo Moro, ma non l’ho fatto. E’ troppo comodo dirlo adesso». Così l’ex brigatista Anna Laura Braghetti ricorda il dramma del sequestro e dell’omicidio del leader dc rievocato da Buongiorno, notte , il film di Marco Bellocchio ispirato al suo libro «Il prigioniero». La Braghetti commenta così la pellicola: «Il film suggerisce una via d’uscita che la morsa dell’ideologia a suo tempo non ci consentì neppure di immaginare. Non ho la distanza necessaria per dare un giudizio. E’ una tragedia e abbiamo causato dolori così grandi da non poter immaginare nemmeno quanto. Non vorrei riaprire delle ferite».
«Ma questa è via Montalcini. Hanno preso la casa vera...». Nel buio di un cinema di periferia, al primo spettacolo, Anna Laura Braghetti, che di Aldo Moro è stata la carceriera e la vivandiera, e della prigione del popolo l'inquilina ufficiale, reagisce così alle prime inquadrature di Buongiorno, notte , il film di Marco Bellocchio ispirato a «Il prigioniero», il libro che abbiamo scritto insieme nel ’97 sui cinquantacinque giorni del sequestro. Poi si rende conto che non si tratta dello stesso appartamento, ma la ricostruzione è fedele al punto da averla, per un attimo, ingannata. Tormenta un fazzoletto. Tiene la borsa a tracolla, come fosse sempre sul punto di alzarsi e andare via. Nell'intervallo osserva soltanto di non capire se il film le piace: «Non ho la distanza necessaria per dare un giudizio. E' una tale tragedia. E, anche, è la mia tragedia».
Non voleva cedere i diritti, oggi non vorrebbe parlare. Perché, spiega, «abbiamo causato dolori così grandi da non poter nemmeno immaginare quanto». Aggiunge: «Non vorrei che una mia parola riaprisse la ferita di qualcuno, lo offendesse. E' necessario essere sobri, avere pudore».
Quanto ti sei riconosciuta nel personaggio di Chiara?
«Ho una distanza così grande dal mio passato che quasi non riesco più a parlarne. C'è stato un periodo in cui ho fatto della ideologia un modello di vita e da quella persona lì sono lontana anni luce. Quando si diventa adulti non si capiscono più i discorsi dei ventenni. Ecco, ho appena compiuto 50 anni e non comprendo più i ragionamenti che facevo da ragazza. Stamattina ho letto sul giornale che all'epoca del delitto Moro avevo 23 anni e ci ho creduto. Solo dopo qualche ora ho realizzato che ne avevo 25. Comunque Chiara è l'unico personaggio che Bellocchio lascia davvero agire, gli altri sono piatti, quasi delle caricature. Lei invece esce fuori dalla cornicetta ideologica».
Nel film Chiara fantastica di liberare l'ostaggio, e forse alla fine lo lascia andare davvero. Tu eri contraria all'esecuzione, soprattutto per ragioni umanitarie...
«Sì, ero contraria. Ero inorridita. Ma è comodo dirlo adesso. A quei tempi non ho agito. Ho immaginato di lasciar andare Moro ma non l'ho fatto. Ho lasciato che accadesse. E sono rimasta nelle Br».
Questo film è anche un film sulla libertà, e sulla liberazione di Moro. Dice che era possibile.
«Sì. Se teniamo gli occhi socchiusi possiamo lasciar passare quelle immagini e fare assumere alla realtà un tono più accettabile. Fingere che sia stata quella. Forzarla. Ma la verità dei fatti è lì, dove e come si è verificata. E la riflessione, per me, non finirà mai».
Te lo chiedo ancora: la liberazione di Moro era possibile?
«Potrei ribattere che per le Brigate Rosse, nella nostra logica, non lo era. E infatti non lo è stata. E invece sento di non doverti rispondere, proprio per la buona ragione che le cose sono andate diversamente. Il film suggerisce una via d'uscita che la morsa dell'ideologia a suo tempo non ci consentì neppure di immaginare. Eppure Bellocchio ha colto qualcosa di quello che c'era dentro di me, dei messaggi che ci sono nel libro. Ha fatto un'operazione di compressione, poi ha preso dei dettagli, delle sfumature, e le ha fatte esplodere. Le lettere dei condannati a morte della Resistenza che mi venivano in mente ossessivamente in quei giorni, i canarini a cui senza volere ho lasciato aperta la gabbia. Si è servito di spunti, tracce narrative, ma ha saputo andare molto oltre. E' proprio frutto del suo lavoro, gli va riconosciuto tutto.
Sono colpita dalle reazioni della stampa e dei commentatori a questo film. Fino a ieri non si poteva parlare del caso Moro senza nominare i "misteri", oggi non vi si fa neppure cenno. E sembrava anche molto difficile che gli artisti, gli intellettuali italiani riuscissero a rielaborare, ripercorrere la storia del nostro Paese con film, libri, non solo con saggi politici. Invece ecco, esce il film di Bellocchio, esce il film di Bertolucci sul '68, la gente fa la fila per vedere La meglio gioventù di Giordana».
«Forse questi autori hanno saputo trovare il passo giusto. Però, per quel che mi riguarda questo accade in un momento in cui rifuggo dall'essere un personaggio pubblico. Cinque anni fa ho deciso che era venuto il momento di raccontare, di testimoniare, e abbiamo scritto il libro, sono andata in televisione a rispondere alle domande di Sergio Zavoli, ho discusso con tutti quelli che mi hanno chiesto di farlo. Tutti sanno chi sono adesso, come sono cambiata, perché. Ogni tanto - bada, non perché io possa dimenticare, o perché creda di poter davvero voltare per sempre quella pagina - vorrei soltanto vivere, fare il mio lavoro in sordina, essere lasciata in pace. Non restare ancorata per sempre a certi momenti della mia vita. Esistere per quello che sono oggi. Stare in disparte. Mi viene da dire che tocca agli altri, adesso. Non ero mica sola, in via Montalcini».
Nel film Chiara partecipa a una commemorazione del padre partigiano insieme ai suoi compagni nella Resistenza e tutti cantano «Fischia il vento». Che cosa ti ha fatto pensare?
«Bellocchio ha voluto fare una provocazione. La lotta partigiana è una pagina gloriosa, ma le ferite che si sono aperte a quel tempo non si rimarginarono. E' rimasto un odio di classe che la nostra generazione ha ereditato e portato alle estreme conseguenze. E' come se noi che abbiamo preso le armi avessimo messo in pratica quello che, in fondo, desideravano anche molti di coloro che non hanno sparato».
E oggi che cosa ci resta da fare?
«Lavorare sull'odio. Sul proprio odio e sull'odio collettivo. Spegnere l'odio».