giovedì 4 settembre 2003

Marco Bellocchio scrive sulla Stampa

La Stampa 4.9.03
IL REGISTA MARCO BELLOCCHIO RACCONTA IL SUO «BUONGIORNO, NOTTE»
«Mi riconosco la libertà di riscrivere la storia»
di Marco Bellocchio

«BUONGIORNO, notte» è un verso di Emily Dickinson che ho letto tempo fa, o forse ho solo sentito. Il titolo esatto della poesia, in realtà è «Buongiorno - Mezzanotte», ma ripensando a quel verso mi è sembrato che centrasse bene il clima del film, che ne cogliesse la profondità.
Inizialmente, nell’elaborazione del soggetto, il punto di partenza era tutto esterno, come se l’attentato, non fosse mai visto di fronte, ma vissuto attraverso una serie di altri personaggi coinvolti indirettamente nel fatto. Per esempio c’era l’episodio del nipote di Moro che giocava all’asilo, poi arrivava la polizia e lo prelevava. Però mi sembrava che questa strada non fosse sufficiente e che mi interessava di più osservare dall’interno la vita quotidiana dei carcerieri. Questa vita quasi di famiglia, con le sue ripetizioni, le ritualità, la «normalità», passati i primi momenti, poteva offrirmi delle occasioni di immagini. Ma questa piattezza, lo scandire tragico e sempre ripetitivo della storia, per me non era ancora sufficiente. A questo punto si è innestata la figura della donna, della brigatista, con tutte le sue contraddizioni. Proprio attraverso di lei, il film racconta anche la possibilità di un rapporto umano tra Moro e i suoi carcerieri ma questa contraddizione non va scambiata con uno sguardo indulgente nei confronti dei terroristi.
La figura della terrorista donna era assolutamente necessaria perché la contrapposizione tra il prigioniero e i suoi carcerieri non era sufficiente, non mi bastava. A me non interessa, non essendo uno storico, cercare di scoprire la verità, io ho voluto cercare all’interno di questa tragedia un movimento che non fosse solo apparente.
Mi sono detto: non posso subire così la storia, la verità storica – ammesso che ci sia una verità definitiva nella tragedia di Moro. Devo inventarmi qualcosa di nuovo di «falso» di «infedele». Mi riconosco questa libertà e contemporaneamente riconosco anche come sono andate a finire le cose. Queste due immagini convivono nel film. E poi oggi c’è anche un’esigenza civile e morale, non solo artistica, di «tradire» la storia, nel senso di non subirla fatalmente. Non è vero che la storia è così e sarà sempre così.
Per mia formazione e per ricerca, non simpatizzavo per le Br, e ho avuto orrore per la conclusione della vicenda, mi sembrava un’azione prima di tutto folle: ammazzare una persona così, a freddo, significa proprio non avere un rapporto con la realtà. Ci si può azzuffare, scontrare, ma non si può prendere una pistola e ammazzare una persona. Nell’immaginare il personaggio di Moro, spesso mi è venuta in mente la figura di mio padre, che è morto quando ero piccolo. Mi è stato detto: ma insomma, la figura del padre non c’è mai nei tuoi film. Già nell’«Ora di religione» c’è il padre, Castellitto è un padre, anche se pur sempre quasi un ragazzo. In questo film rappresento per la prima volta «un padre» rispetto a dei giovani, a dei «figli degeneri».
Naturalmente per fare il film mi sono anche documentato, su materiali vari. Il libro di Flamigni, le lettere di Moro, e per quella che è stata la «cronaca» interna della prigionia mi è stato utile «Il prigioniero» della Braghetti. Lì sono descritti alcuni fatti che poi nel film ho liberamente sviluppato e ampiamente tradito. Lo spirito del film è tutt’altro. Non ho quasi mai parlato con i brigatisti: ho avuto un unico incontro breve con Lanfranco Pace quando morì Maccari e venne fuori la versione che Maccari avrebbe ucciso materialmente Moro, perché Gallinari si era messo a piangere e a Moretti si era inceppato il mitra. Pace mi confermò – la notizia era già apparsa sui giornali – che Maccari non voleva uccidere Moro, lo fece per ubbidienza per disciplina militare e subito dopo sparì dalle Br.
Allora c’era una passione forte per la politica. I ragionamenti – anche i più folli – arrivavano a delle conclusioni «coerenti». C’era una sorta di «assurda coerenza» tra il pensare di cambiare il mondo e prendere una pistola e ammazzare la gente, secondo una logica non giustificabile in alcun modo. Adesso questi, le Br di oggi, mi paiono ancor più fuori dal mondo e dalla realtà e non credo che abbiano molta acqua in cui nuotare. Al tempo stesso, la storia oggi propone un terrorismo mondiale, in cui tutto si moltiplica, la vittima diventa migliaia di vittime.
Quando ci fu l’11 settembre ero già alle prese con il progetto di questo film e il dramma mi suggerì di cercare delle strade di racconto diverse. Ho anche seguito un’idea che provava a mettere in relazione tutti questi orfani, i figli dei poliziotti, quelli delle Torri, il nipote di Moro. Ma poi ho lasciato perdere, vedevo il rischio di un parallelismo schematico, mentale...