venerdì 25 febbraio 2005

sinistra
Bertinotti, please...

Liberazione 25.2.05
«Io ateo?
Non mi nego la ricerca»
Bertinotti e la religione

Nel partito, nel partito che dirige, ovviamente si può professare qualsiasi religione, qualsiasi credo. Ma lui, il segretario, che rapporto ha con la religione? Alla vigilia del congresso di Venezia di Rifondazione comunista, il settimanale Panorama pubblica una lunga intervista a Fausto Bertinotti. Un colloquio che esula un po' dai temi della contingenza politica e cerca di disegnare il personaggio Fausto Bertinotti.
Partendo da una domanda secca: il segretario di Rifondazione si può definire "ateo"? La risposta è molto articolata. Questa: «Se me lo avesse chiesto quando avevo venti anni, oppure quando ne avevo trenta, le avrei risposto senza esitazione: sì».
Ma ora, le cose sono un po' diverse. Più sfumate. Fausto Bertinotti dice che «oggi, pur non essendo credente, eviterebbe risposte così definitive».
Il suo rapporto con la fede, con l'universo dei valori del cattolicesimo ma anche di altre religioni è insomma un terreno di esplorazione. «No, non credo che sia il segno di chi ha oggi un'incertezza, ma di chi non vuole negarsi la ricerca».
Ricerca che non è affidata solo alle letture, allo studio. In questa intervista il segretario della Rifondazione comunista racconta anche di «frequentare le cerimonie religiose e non senza un coinvolgimento emotivo». Perché? Cosa la incuriosiscei? Da cosa deriva quel suo «coinvolgimento emotivo»? La sua risposta è questa: «Per me la religione e la politica sono entrambe ricerca di liberazione». In questo senso: la religione è una «liberazione ultraterrena». La seconda, la politica, la lotta politica sono gli strumenti di una liberazione «terrena». Due filosofie, due modi di leggere la vita, due sfere. Che possono andare d'accordo - «si tratta sempre dell'idea di liberazione», aggiunge ancora il segretario di Rifondazione - se non addirittura incontrarsi. «Oggi poi si è aggiunto a legarci il grande tema della pace».
E da questo passaggio al discorso sul senso del Pontificato di Papa Karol Wojtyla, il passo è breve. Del resto, il leader del Prc non si sottrae alle domande in questione.
E dice: «Dalla voce di questo Papa, che è passato per fasi diverse a testimonianza del fatto che tutte le forze vive subiscono cambiamenti arriva oggi una parola di pace. In questo senso il ruolo di Giovanni Paolo II è enorme e la sua parola contro la guerra è stato un passaggio fondamentale per evitare che il conflitto iracheno diventasse uno scontro di civilità».
Dai riconoscimenti sul ruolo che il papa ha giocato nel mondo - provando a prevenire tutti i conflitti, da quello in Afghanistan a quello in Iraq - alla voglia di conoscerlo. Insomma, chiosa il giornalista, al segretario del Partito della Rifondazione comunista piacerebbe incontrarlo a tu per tu? «Penso che una conversazione con il Pontefice, con il capo di quella Chiesa che ha voluto interpretare la sua parola contro la guerra, sarebbe umanamente una grande opportunità». Anche se, naturalmente, Bertinotti sa perfettamente quali sono i mille motivi che ancora potrebbero ostacolare un incontro di questo genere. «Sarebbe una grande opportunità, ripeto. Sorvegliata, naturalmente, dalla consapevolezza del ruolo che si riveste e che a me sembra poter essere ancora una ragione d'impedimento».


Gazzetta del Sud venerdì 25 febbraio 2005 Anno 54
Una conversazione col pontefice? volentieri
Bertinotti: vent'anni fa ero ateo, oggi sono alla ricerca
Raffaele Marmo

ROMA – È ateo Fausto Bertinotti? «Se me lo avesse chiesto a 20 oppure a 30 anni, avrei risposto senza esitazione: sì. Oggi, pur non essendo credente, eviterei risposte così definitive. Non è il segno di chi ha oggi un'incertezza, ma di chi non vuole negarsi la ricerca», dice il segretario del Prc a Panorama, accettando per la prima volta di parlare del suo rapporto con la fede e con il mondo cattolico. Così Bertinotti rivela a sorpresa di «frequentare le cerimonie religiose e non senza un coinvolgimento emotivo». E spiega che per lui «la religione e la politica sono entrambe ricerca di liberazione». Una «liberazione ultraterrena» la prima, una liberazione «terrena» la seconda. «Ma si tratta sempre dell'idea di liberazione – dice ancora. Oggi poi si è aggiunto a legarci il grande tema della pace». Il leader di Rifondazione parla infine di Giovanni Paolo II. «Dalla voce di questo Papa, che è passato per fasi diverse a testimonianza del fatto che tutte le forze vive subiscono cambiamenti – dice – arriva oggi una parola di pace. In questo senso il ruolo di Giovanni Paolo II è enorme e la sua parola contro la guerra è stato un passaggio fondamentale per evitare che il conflitto iracheno diventasse uno scontro di civilità». A Bertinotti piacerebbe incontrarlo a tu per tu? «Penso che una conversazione con il Pontefice, con il capo di quella Chiesa che ha voluto interpretare la sua parola contro la guerra, sarebbe umanamente una grande opportunità. Sorvegliata, naturalmente, dalla consapevolezza del ruolo che si riveste e che a me sembra poter essere ancora una ragione d'impedimento».
Monsignor Tonini, è sorpreso delle rivelazioni di Bertinotti? «Assolutamente no. Conoscendolo da anni, l'ho sempre trovato molto spontaneo, sensibile e immediato. Con interessi che vanno al di là della politica. Ha punti di vista che sembrano implacabili, poi, però, si vedono i cangiamenti, gli ammorbidimenti. Adesso che lui dice così, io posso solo dire che sono contento e che l'accompagno».
Era già a conoscenza di quest'ansia di ricerca del leader comunista? «Tra noi c'è una vera amicizia. Ci siamo incontrati diverse volte, abbiamo parlato di tante cose. Ma mi sono ben guardato dall'intrattenermi sulla sua ricerca di fede. Io non sono il controllore o il misuratore di questa febbre. La scoperta è un dato intimo, privato, della singola persona, in questo caso di Bertinotti. Bisogna aspettare l'ora giusta».
Quando ha conosciuto Bertinotti? «Lo incontrai a un convegno della Cisl. Gli dissi che volevo parlargli. Fu subito disponibile. Da allora ci siamo visti altre volte. Discutevamo della scuola cattolica: lui, però, era per la scuola pubblica, unica in tutto il Paese. Ricordo anche che mi contattarono dalla sua segreteria quando stava andando alla Camera per votare contro Prodi. Lo chiamai al telefono: non riuscii a convincerlo a non farlo».

La Stampa 25 Febbraio 2005
IL LEADER DEL PRC REPLICA ALL’EDITORIALE DI GORBACIOV
intervista
Bertinotti: l’Urss non era riformabile
«Certo la perestrojka era da incoraggiare, ma soltanto una volta ho creduto a una riforma del socialismo reale: nella Primavera di Praga»
Riccardo Barenghi

ROMA. STAVOLTA cominciamo dalla fine. Dalla fine dell’intervista con Fausto Bertinotti dedicata all’articolo di Mikhail Gorbaciov pubblicato ieri dalla «Stampa». Perché è fallita la perestrojka, se l’Urss fosse riformabile o no, se i Paesi del socialismo reale avrebbero potuto uscire dal comunismo senza finire in braccio al capitalismo. Ne abbiamo parlato fino a questo momento, per un’ora, ma per sapere quello che il segretario di Rifondazione Comunista pensa di tutto ciò bisogna avere un attimo di pazienza. Perché è alla fine dell’intervista che gli chiediamo di commentare un’altra intervista, quella concessa ieri da Piero Fassino al Corriere della Sera e così intitolata: «La nuova Europa di centrosinistra sarà stretta alleata dell’America». Bertinotti non l’ha ancora letta, la legge «in diretta». Borbotta, scuote la testa, non crede ai suoi occhi.
Eppure Fassino sottolinea tre novità che anche lei ha notato, le elezioni irachene, la nuova politica di Sharon, il nuovo atteggiamento di Bush. Non bastano alla sinistra italiana per riaprire «le relazioni diplomatiche» con gli Stati Uniti?
«Non cogliere le novità politiche è da stupidi. Altra cosa è sovrapporgli un involucro ideologico e di realpolitik, involucro che si può anche scegliere (ovviamente non parlo per me) ma non legarlo a fatti contingenti. I quali vanno presi in se stessi e richiedono una nuova capacità di iniziativa europea. Dopo di che, non vedo affatto un rovesciamento della politica di Bush, vedo una sua difficoltà e dunque un atteggiamento conseguente, ma non certo la cancellazione della sua dottrina basata sulla guerra preventiva e sul governo unipolare del mondo. Io, al contrario di Fassino, penso che l’Europa abbia bisogno di più autonomia dagli Usa. Anzi, penso che i suoi interessi politici, geopolitici, economici, coincidano con un declino della potenza americana».
Secondo Fassino però il governo del futuro, qualora l’Unione di cui il suo partito fa parte vincesse le elezioni, sarà un alleato di ferro degli Usa.
«Al leader dei Ds voglio solo dire che uno schieramento progressista filoamericano è una contraddizione in termini. O è progressista o è filoamericano».
Ricominciamo dall’inizio e torniamo a vent’anni fa, quando appunto Gorbaciov salì al potere di un Urss ormai sfiancata. Lui oggi sostiene che la sua perestrojka era l’unico mezzo per riformare il sistema sovietico, non più comunista ma neanche capitalista, democratico ma anche socialista. E’ d’accordo?
«Ho trovato l’articolo di Gorbaciov molto interessante, discorsivo, non ideologico, ben strutturato, che dà un’idea compiuta della sua perestrojka. Spiega che nacque da una crisi, la crisi di consenso al sistema, la chiama “l’allontanamento delle masse dall’idea del socialismo”. Da qui il tentativo di curare la malattia del sistema introducendo elementi di democrazia misti a elementi di socialismo. Ma dice anche che l’oggetto della sua riforma non era solo e neanche soprattutto il comunismo, ma proprio l’Unione Sovietica. Quando viene meno quell’oggetto, con la caduta del Muro, viene meno la riforma».
All’epoca lei aveva creduto possibile quella scommessa?
«Sinceramente no. Ovviamente era da incoraggiare, anche sperare che funzionasse. Ma l’ultima volta, che poi è stata anche la prima, quindi l’unica volta che ho creduto possibile riformare il comunismo reale è stata la Primavera di Praga nel ’68. Perché al movimento intellettuale, sociale e infine politico che nacque in Cecoslovacchia faceva da sponda tutto quel che stava succedendo nel nostro mondo, ossia una rivolta operaia e studentesca anticapitalistica. I due mondi, tenuti congelati insieme dalla guerra fredda, si scaldavano insieme. Ma da quella parte sono arrivati i carri armati sovietici, e Praga è rimasta sola».
Soffocata quella stagione, fallito il tentativo di Gorbaciov, il comunismo crolla su se stesso. Trionfa il capitalismo, si afferma (almeno in teoria) la democrazia. Lei nonostante sia leader di un partito che ancora si chiama comunista, sembra tuttavia aver accettato il binomio capitalismo-democrazia?
«Neanche per sogno. Ovviamente la mia idea di comunismo, tanto diversa, direi opposta a quella che si è realizzata, non la vedo dietro l’angolo. Vedo però che la crisi del sistema capitalistico mondiale è oggi fortissima, viviamo ormai in un terremoto costante (guerre, terrorismo, globalizzazione selvaggia con tutte le loro conseguenze) che fa parlare di crisi di civiltà. O se vogliamo di scontro tra civilità, che non sono l’Islam e l’Occidente ma due modelli sociali, alternativi tra loro e trasversali ai continenti, alle religioni, alle etnie, alle culture. E’ uno scontro lungo, molto lungo, che certo non si risolve con la vecchia idea della presa del potere. Semmai con la democrazia».
Ma la democrazia c’è, almeno nel nostro mondo. E non da ieri.
«Ma io non penso alla democrazia solo come sistema di rappresentanza, di formazione democratica della decisione (avrebbe detto Norberto Bobbio). Penso alla democrazia come motore di un cambiamento del sistema. Graduale, conflittuale naturalmente, ma partecipativa, fatta di persone e proposte. Che per esempio metta sul mercato ma contro il mercato, alcuni beni comuni, aria, acqua, terra fuoco. Oggi la rivoluzione è questa, una democrazia incompatibile col capitalismo».