Adriana Faranda a colloquio con Francesco Cossiga
Va in onda domani sera, alle 22,50 su Raidue, il dialogo tra Francesco Cossiga e Adriana Faranda del quale, in questa pagina, anticipiamo una parte. «A risentirci più tardi» è il titolo di una trasmissione che ha per tema il sequestro Moro, realizzata da Alex Infascelli per la serie «La storia siamo noi» di Giovanni Minoli. A dialogare sono da un lato il politico che all’epoca ricopriva il ruolo di ministro dell’Interno, schierato per il «partito della fermezza», benché consapevole che questo, al 99%, avrebbe significato la condanna a morte del presidente della Dc, e dimissionario il giorno dopo quello in cui ne fu rinvenuto il cadavere; dall’altro una brigatista della colonna romana, partecipe di numerose iniziative terroriste, ma, durante il sequestro, ostile all’idea di uccidere l’ostaggio. Il terreno, talora assai scivoloso, sul quale il dialogo si svolge è appunto questo: a parlare sono un ex-ministro non a pieno convinto della linea che sostenne allora e una brigatista che durante il sequestro maturò la sua rottura con l’organizzazione. Faranda ha scontato 16 anni di prigione. Dal 1995 è libera ed esercita la professione di fotografa.Faranda: «Come immaginava noi brigatisti?».
Cossiga: «Avevo una visione che poi mi è costata molte critiche. Io sono quello che insieme a Pecchioli ha fatto una propaganda con una truffa semantica; chiamandovi criminali, ma questo serviva per mobilitare maggiormente contro di voi l’opinione pubblica, ma non ci ho mai creduto».
F. «Come persone come ci immaginava: tristi, allegri?».
C. «Normali».
F. «Io la immaginavo estremamente austero».
C. «Io sono cresciuto a pane, latte e politica. Io sono nato in una famiglia antifascista, repubblicana, piuttosto massonica, ma della massoneria risorgimentale e anti-giolittiana e quindi sono nato con questa passione».
F. «Io non sono nata con questa passione, mi è venuta dopo, all’università».
(...)
C. «Lei se si fosse dovuta iscrivere ad un partito, a parte il fatto che lei ha fatto una scelta alternativa, in che partito si sarebbe iscritta? Il partito comunista?».
F. «Non ne sono così sicura perché io all’inizio non avevo una particolare attrazione per la politica».
C. «La sua è stata più una scelta civile che politica. Quello che gli amici ex Pci non vogliono sentirsi dire da me, o i santoni paracomunisti, è che in voi è stato fortissimo l’elemento della resistenza incompiuta».
F. «Sicuramente. C’era, ma culturalmente».
C. «Cioè la resistenza tradita».
F. «Si il fatto che non si era riusciti a concludere il sogno rivoluzionario durante la guerra. Ma questo è già un motivo più ragionato, intellettuale. Lo sa che una delle cose che mi avevano più colpito, un film: Cristo fra i muratori. Questa cosa dei morti del lavoro mi ha accompagnato sempre. Come fanno gli altri esseri umani e lo Stato a permetterlo».
C. «Le morti sul lavoro sono una delle colpe maggiori delle società borghesi. Cioè della scelta della produttività evitando il costo delle precauzioni per la tutela del lavoro».
F. «Sento difficoltà a parlare delle mie motivazioni politiche con il Presidente Cossiga, in parte perché le mie motivazioni sono personali. Ho paura che il Presidente possa scambiarle con quelle di gruppo e poi ho paura che ripercorrere le mie motivazioni possa dar l’impressione di giustificare. Io ero partita da sentimenti civili, ho sempre avuto con la violenza un rapporto contraddittorio. Pur abbracciandola come male inevitabile. Quando c’è stato il primo ferimento a cui ho partecipato, che era quello del marchese Teodoli, io l’ho sognato notti dopo vestito di bianco con i pantaloni insanguinati. Perche io non avevo visto nulla durante il ferimento, non avevo visto sangue. Soltanto che dopo avevo sentito alla radio che essendo lui seduto un colpo gli aveva reciso l’arteria femorale. Questa cosa mi sconvolse molto».
C. «In un conflitto due giovani sottufficiali dei Carabinieri ammazzarono due di voi di Prima linea. Vennero ricevuti da me e questo giovane Carabiniere era la prima volta che aveva sparato in vita sua e continuava a ripetermi “mi creda non volevo uccidere, ho sparato per difendermi”».
« Il giorno prima che Moro venisse rapito mi fece questa chiamata: “Ma tu sei ben tutelato? Ricordati che hai moglie e figli”. Il giorno prima, si rende conto?».
F. «Più preoccupato forse di quanto non lo fosse lei stesso. Ma Moro si sentiva protetto?».
C. «Moro non ha mai pensato di correre pericoli, mai. E non è vero che aveva chiesto la macchina corazzata, si figuri se gli avrei rifiutato la macchina, gli avrei dato la mia. Ad un certo punto gli ho detto prendi il telefono in macchina, lui prima mi ha detto di sì, poi quando è venuto il momento di istallargli il telefono ha detto di no, forse perché non voleva essere seccato in macchina».
«Io ho creduto per lungo tempo che le lettere di Moro fossero frutto di una coercizione psicologica e diretta dovuta all’isolamento. La frase di Andreotti “che le lettere non erano realmente autentiche” l’ho scritta io, e invece erano la proiezione della concezione che Moro aveva della società e dello Stato. Dopo molto e leggendo alcune sue opere di filosofia giovanile, ho capito che non vi era debolezza, ma…».
F. «Coerenza».
C. «Era la coerenza. Nella lettera che mi scrive “Se riuscissi a parlare con Cossiga, riuscirei a persuaderlo e però, non mi dice, lui è influenzato dal suo conterraneo e cugino Berlinguer e poi crede troppo nel compromesso storico».
F. «E dice anche un’altra cosa che aveva colpito molto, riguardo alla linea della fermezza, dice sicuramente c’è lo schiacciamento di questa situazione da una parte il Pci dall’altra la Dc, però c’è anche il suo essere sardo. Cosa intendeva?».
C. «Il suo essere sardo è il suo essere implacabile».
F. «Rispetto alla fermezza perché lei ha avuto questa posizione?».
C. «Io ho assunto questa posizione perché il nostro non era uno Stato forte, può trattare uno Stato forte. Uno Stato debole non è in condizioni di trattare, per me la linea della fermezza è stata molto dolorosa, mi è costata una depressione, io mi svegliavo dicendo: Io ho ammazzato Moro, ed era vero».
F. «Anche io mi svegliavo la notte e dicevo ho ucciso Moro, anche se mi sono sempre battuta per…».
C. «Si ma l’ho ucciso più io che lei! Perché lei si e’ dissociata ed era contraria alle esecuzioni».
(...)
C. «La sera prima che lui fosse ucciso andai da Andreotti e lo trovai ottimista perché come lui poi mi ha detto, la cosa era troppo delicata e lui ritenne di non dirla nemmeno al suo Ministro dell’Interno, lui seguiva trattative sbagliate, non sbagliate, ma che faceva il Vaticano che riteneva di essere arrivato attraverso i cappellani delle carceri alle Br. È un errore storico ritenere che una cosa del genere possa essere risolta con il denaro. Come quelli che pensano di liberare oggi in Irak un ostaggio con il denaro, lei pensi se un estremista islamico o uno che si sente occupato se vuole denaro per i prigionieri. Ma vuole un prezzo politico».
F. «A me devo dire che mi ha riportato indietro nel tempo perché l’uccisione di un prigioniero e una cosa che mi riscaraventa nell’angoscia».
C. «Sa una cosa che mi ha riscaraventato nell’angoscia è vedere i prigionieri torturati dai britannici e dagli americani».
«Avessero gli americani o i britannici preso dieci irakeni insorti e fucilati, siamo nell’ambito della guerra, ma torturare i prigionieri… no! La tortura è la cosa più infame che esista. Lei vuole sapere la cosa peggiore che le Br hanno fatto. La tortura e l’uccisione del fratello di Peci».
F. «Io ho dei rimorsi per non aver tentato di fare di più».
C. «Io ho il rimorso di non averlo saputo salvare trovandolo, con la forza. Di essere stato insufficiente come Ministro dell’Interno. Io mi sono dimesso perché ero colpevole della sua morte di non essere riuscito a trovarlo. Secondo, perché bisognava affermare il principio politico, che il politico deve rispondere se no, non risponde mai nessuno. Ed è vile far rispondere i propri dipendenti e non rispondere in prima persona. L’altro motivo, ed è quello meno nobile, è che non volevo far saltare il compromesso storico».
F. «C’è stato qualche spiraglio nella linea della fermezza?».
C. «C’è stato. Una delle domande che ho fatto a Gallinari era - ma non avete capito che avevate vinto? La mia impressione è che non avessero capito e questo è il deficit politico della gestione del sequestro. Su questa vicenda sono d’accordo con Andreotti tranne che su un punto: a mio avviso quelli di Via Fani non avevano capito di avere già vinto, se avessero ritardato di 24 ore l’uccisione di Moro, la Dc avrebbe convocato su proposta di Fanfani, il Consiglio Nazionale che aveva aperto le porte alle trattative. Non dimentichiamoci che le Br alla fine avevano chiesto il riconoscimento solo della Dc. Era sufficiente che era la Dc che avesse trattato con loro».
«Io le dirò che il giorno che c’era la Direzione della Dc, quando poi hanno ucciso Moro, ero andato con la lettera delle dimissioni perché se la Dc avesse preso questa decisione mi sarei dimesso non per protesta ma perché il Ministro dell’Interno, che aveva gestito la linea della fermezza, non poteva essere lo stesso che avrebbe gestito la linea delle trattative».
F. «Da parte nostra ci sentivamo il fiato sul collo».
C. La fretta nell’uccidere Moro è stata dovuta al fatto che avevate capito che eravamo vicino».
F. «Io ritenevo che andasse liberato e basta, perché questa era la prima prova di forza delle Br».
C. «Sarebbe stata la prova di umanità che avrebbe turbato i vostri avversari e l’opinione pubblica e poi sarebbe saltata l’alleanza tra Pci e Dc.
(...)
F. «Ma se lei avesse incontrato uno di noi?».
C. «Avrei dialogato. Ho parlato con molti di voi».
F. «Ma lei ha cercato queste persone, perché?».
C. «Perché ero spinto a capire quale fosse la causa di quello che era accaduto. Andai a trovare Gallinari. Il fatto che cercassi di spiegarmi perché è avvenuta questa sorta di guerra civile non mi ha fatto molti amici nella Dc e anche in alcuni settori della sinistra. Loro temono che se si trovasse una motivazione a questo movimento rivoluzionario, verrebbe meno la loro legittimazione e quindi tutte le invenzioni che voi eravate strumento della P2 e degli americani, degli israeliani, l’ultima sciocchezza del Kgb».
(...)
F. «In carcere ho riacquistato la mia libertà. Ho letto e ho ricominciato a dipingere in carcere. In clandestinità sono stata dal ’76 al ’79. Avevo 26 anni».
«La libertà può essere un dono individuale o una conquista personale».
C. «La libertà deve essere una conquista individuale. Può essere un dono, ma solo di Dio».
F. «Secondo lei ha un senso che adesso noi siamo qui?».