domenica 20 marzo 2005

Raymond Aron e Karl Marx

Corriere della Sera 20.3.05
DIBATTITO L’attrazione del sociologo per l’autore del «Capitale».
Non era un liberista e non fece in tempo a vedere i frutti del «reaganismo»
Marx secondo Aron, uno scandalo per i marxisti
di ANGELO PANEBIANCO

A differenza del pensiero di Jean-Paul Sartre, che continua ad attrarre l’attenzione di tanti (per le ragioni indicate da Pierluigi Battista nell’articolo che sul Corriere della Sera ha dato l’avvio a una serrata discussione, rimbalzata poi anche su molte altre testate), quello di Raymond Aron rimane in un cono d’ombra, poco conosciuto e discusso. L’ennesima conferma viene dal fatto che nel dibattito innescato dal Corriere solo pochi interventi hanno toccato aspetti rilevanti della teoria politica e sociale di Aron. Mi riferisco alle acute osservazioni di Luciano Canfora (Corriere) sul rapporto fra Aron e Marx, e agli interessanti articoli di Marco Dolcetta (l’Unità) e di Domenico Quirico (La Stampa) sul liberalismo del pensatore francese. Temi che meritano di essere approfonditi, anche per mostrare quanto sbaglino coloro che pensano di non avere niente da imparare da Aron. Per quanto riguarda Marx, Canfora ha ragione. Aron è stato un agguerritissimo conoscitore dell’opera di Marx. Se i classici a cui ispirava la sua sociologia erano soprattutto Montesquieu, Tocqueville e Max Weber, tuttavia, Aron non smise mai di confrontarsi con Marx e di trarre ispirazione da questo o quel passaggio della sua opera. Nell’autore del Capitale Aron non apprezzava il filosofo hegeliano o il profeta della rivoluzione, ma lo «scienziato», il sociologo della società capitalista. Per molti anni coltivò il progetto (mai realizzato) di scrivere un libro su Marx.
Il punto interessante è che l’uso che Aron faceva del filosofo di Treviri scandalizzava i marxisti dell’epoca sua. Aron lo trattava infatti come un importante autore classico e ne faceva, come si deve fare con i classici, un uso strumentale. Si serviva cioè dell’una o dell’altra tesi di Marx per porre domande interessanti sulla società contemporanea. In una Francia in cui mietevano successi forme esasperate di scolasticismo marxista come, ad esempio, gli scritti di Louis Althusser (chi rileggerebbe oggi libri come Pour Marx o Lire «Le Capital »?), l’attenzione di Aron per Marx, lungi dal suscitare apprezzamento, infastidiva i marxisti: per i quali l’opera del loro maestro non era quella di un «importante classico» (fra gli altri), ma una sorta di Bibbia, e il marxismo stesso, come amava dire Aron, una religione secolare.
Marx interessava ad Aron anche perché nelle sue analisi egli trovava spunti utili per indagare le cause di quella «passione per l’uguaglianza» che pervade le democrazie occidentali. Ciò aiuta anche a spiegare, in parte, il liberalismo di Aron. Se sul piano filosofico Aron subiva l’influenza di Immanuel Kant, filtrato attraverso l’insegnamento dei suoi professori dell’École Normale, sul piano politico si ispirava a Montesquieu e a Tocqueville. Era, quello di Aron, un liberalismo intriso di realismo, che riservava, anche al prezzo di qualche contraddizione, uno spazio centrale alla politica (i liberali, spesso, sono portati a sottovalutarne l’importanza).
Le differenze fra il liberalismo realista di Aron ed altre varianti della dottrina sono ben rispecchiate, ad esempio, nelle analisi critiche che Aron dedicò al più importante teorico del liberalismo del XX secolo: Friedrich von Hayek. La centralità che nella sua teoria della società contemporanea rivestiva la politica spiega anche perché Aron fosse portato a riconoscere l’inevitabilità di un compromesso fra le ragioni della libertà e le ragioni dell’uguaglianza. Le democrazie del XX secolo, secondo il realista Aron, non potevano evitare, per garantirsi stabilità, di assecondare, entro certi limiti, le spinte ridistributive connesse allo sviluppo del welfare state .
L’atteggiamento realista, che pervade i suoi studi sulla società industriale, influenzò anche i suoi giudizi politici. Aron, negli anni Cinquanta e Sessanta, si dichiarava keynesiano perché in Keynes trovava allora, da pragmatico, un’utile ricetta per dare stabilità alle democrazie. Non fu (secondo il gergo italiano) un «liberista»: accettò che lo Stato svolgesse, rispetto all’economia di mercato, un ruolo maggiore di quello ammesso dalla maggior parte dei liberali. Personalmente, credo che questo sia stato un suo limite, anche se è certamente connesso alla centralità che egli attribuiva alla politica. È però ingiusto accusarlo di non avere capito la portata delle rivoluzioni liberali della Thatcher e di Reagan. La Thatcher va al governo nel 1979. Reagan vince le elezioni presidenziali nell’80. Aron muore nell’83. I frutti della rivoluzione reaganian-thatcheriana non sono ancora maturati.
Non possiamo sapere che cosa Aron avrebbe scritto di quelle rivoluzioni se fosse vissuto più a lungo. Sappiamo però con quale «metodo» le avrebbe esaminate: mettendo insieme i fatti conosciuti, soppesandone aspetti positivi e negativi, ed esprimendo, solo alla fine, le sue valutazioni.
Liberalismo a parte, Aron è soprattutto lo studioso della politica nella società industriale e della guerra (che indagò in tutte le sue dimensioni). Chi ha familiarità con quest’opera sa che ha tuttora molto da insegnarci. Ma è normale che Aron interessi a pochi e che continui invece ad avere più successo quella «politica dei letterati», produttrice di «visioni» (tanto false quanto brillanti), anziché di analisi serie e fondate, contro cui si indirizzavano gli strali di Max Weber e dello stesso Aron. Come mostra anche il successo pubblico del Sartre «politico», chi è affamato di «visioni» non si limita ad andare al cinematografo (secondo lo sprezzante consiglio di Weber). Pretende di trovarle anche in politica.