martedì 24 maggio 2005

il libro di Enrico Bellone tra scienza e filosofia

Avanti! 22.5.05
LA DISASTROSA SITUAZIONE DELLA NOSTRA RICERCA SCIENTIFICA NEL LIBRO DI ENRICO BELLONE
L’Italia dei torturatori di Galileo
Piero Flecchia

La non facile congiuntura che l’Italia attraversa è figlia di molti padri incerti, tra la classe dirigente e l’economia globale, via passando per l’euro, la crisi demografica e quant’altro, ma di una sola madre ben certa: la struttura industriale non più competitiva. E questa mancanza di competitività, ci spiega Enrico Bellone, “La scienza negata” (Codice Edizioni, pp. 124, € 15) è a sua volta la conseguenza inevitabile e annunciata della disastrosa situazione della nostra ricerca scientifica; disastro effetto dell’egemonia di una cultura convinta della natura subalterna della ricerca scientifica, perché irrilevante nella formazione della persona umana. Enrico Bellone, che insegna Storia della scienza presso la facoltà di Matematica dell’Università di Milano e dirige i periodici “Le scienze” e “Mente e cervello”, autore di numerose pubblicazioni, ne “La scienza negata” ricostruisce un veridico quadro etnografico delle ragioni dell’arretratezza scientifica italiana: “Più di trent’anni or sono si disse che l’Italia era un Paese in via di sottosviluppo per la povertà delle risorse umane e finanziarie destinate alla ricerca e del nostro sistema educativo”. L’inascoltato profeta di sventura degli anni ‘70 era uno dei nostri maggiori scienziati, Toraldo di Francia. Per non averlo ascoltato oggi il nostro sistema produttivo è ormai endemicamente afflitto da nanismo, mentre l’indice di competitività ci colloca al 46° posto e al 50° quello tecnologico nella classifica delle nazioni, e tutto indica che continueremo a perdere posti, visto che continua la politica di bassi investimenti nella ricerca; rimasta circa quella di trent’anni or sono la percentuale annua di Pil, investita nella ricerca: l’1%, quantità che ci votava allora, e a maggior ragione oggi, al sottosviluppo. Perché, malgrado la vigorosa denuncia di molti scienziati, il Paese ha continuato la sua deriva verso il disastro annunciato, mentre il ceto dirigente e il popolo si sono cullati nella convinzione che in ogni caso lo stellone nazionale avrebbe trovato una via d’uscita? Enrico Bellone individua la causa principale del disastro nella cultura egemone delle classi dirigenti, che considerano meccanica e di minore importanza la ricerca scientifica, rispetto a quella umanistica. Da qui la pretesa di controllare e tenere subalterna rispetto a quella metafisico-teologica la cultura scientifica, anche con episodi davvero esilaranti, a una indagine razionale, come appunto la pretesa di Benedetto Croce di insegnare i principi della matematica a Enriquez, uno dei maggiori matematici del suo tempo. Questa bizzarra pretesa filosofica, poi sempre Bellone ci mostra, non è una prerogativa dell’idealismo italiano. Nella sua autobiografia Max Born (premio Nobel per la fisica nel 1954): “Racconta anche di aver seguito alcune lezioni del filosofo Edmund Husserl, che stava sviluppando una ricerca sulla matematica … Il suo giudizio (di Born) è tranciante: ‘Se la scienza significa qualche cosa, non può certo servirsi della filosofia di Husserl’; che pretende di giungere a una dimostrazione conclusiva sulla natura della matematica per mezzo ‘dell’introspezione, della contemplazione e dell’analisi verbale’. Il che costituisce ‘un atteggiamento inconciliabile con la scienza, perché chi ha raggiunto una simile dimostrazione diventa facilmente un fanatico, un credente mistico, non più avvicinabile con il ragionamento e la discussione’”. (E. Bellone, op. cit. pp. 29-30). La pretesa della metafisica di governare la scienza è una costante, ricostruisce Bellone, diffusa in tutta la filosofia continentale del XX secolo di matrice hegeliana, e ancora egemone in quella contemporanea, tra il nostro Severino e i vari Deleuze, Feyrabend. Che cosa determina questa pretesa egemonica della metafisica sulla scienza? Bellone lo ascrive a un residuo dogmatico della metafisica, per poi volgersi allo studio del rapporto ragione-fede e alle pretese della fede di guidare la ragione scientifica, attraverso una pseudometafisica teologizzante, i cui primi gravi guasti risalgono al processo Galileo; sul quale il libro ritorna più volte, come esempio di quali danni conseguano, quando a guidare la linea di ricerca della ragione si impongono i dogmi di una fede. Sul rapporto ragione-fede Piero Martinetti, filosofo definito dal Gentile, “senza importanza” pubblicò un breve (pp.63) saggio illuminante, compreso e che dà il titolo alla sua raccolta di saggi religiosi: “Ragione e fede, Einaudi, Torino 1942”, libro che andrebbe rieditato, perché poco presente anche nelle grandi biblioteche nazionali. Nel breve saggio Martinetti spiega la fede come la forma fossile di momenti della ricerca della ragione in evi trascorsi, ma anche come l’intuizione ulteriore della ragione impegnata nella ricerca. La fede si svela nella riflessione martinettiana di duplice valenza. Come sentimento collettivo condiviso è l’espressione di un atteggiamento conservatore, che può assumere tratti regressivi per quanto veicola modelli di pensiero superati dall’indagine della ragione, mentre come sentimento individuale realizza una costante mediazione tra le ricerche della ragione e la coscienza dei suoi limiti. La fede è dunque anche un aspetto della ragione, e non meno della ragione uno strumento pratico, ma “questa natura eminentemente pratica della fede ci spiega infine un altro suo carattere: la sua relativa stabilità, per cui sembra opporsi al sapere, che è in una trasformazione ed in un progresso continuo”. (Op. cit. pp. 64-65). In un punto non così remoto nel tempo e nello spazio, la cultura italiana, attraverso la riflessione di una delle sue maggiori personalità, raggiunse chiara coscienza della natura autonoma della ricerca scientifica, non subordinabile a dogmi vuoi teologici vuoi metafisici, ma l’azione di rimozione prima del fascismo e poi del cattomarxismo ha emarginato questa limpida affermazione di metodo, che vede nell’autonomia della scienza un postulato anche a difesa della salute della metafisica. E forse nulla quanto l’assenza di questo contributo della riflessione martinettiana nelle pagine che il libro di Bellone dedica alla ricostruzione del nesso ragione-fede, a definire il ruolo e sostenere l’autonomia della ricerca scientifica, misura e descrive lo scacco della grande cultura positivista dell’Italia post unitaria, che fu alla base del rilancio del paese. Fu liquidando questa cultura che si incominciarono a recidere le radici della scienza come valore cardine del rinnovamento spirituale del Paese, un cui momento decisivo si ha con la riforma della scuola di Gentile; che educherà a una pseudo-cultura umanistica, i cui disastri sono oggi davanti a tutti, perché da questa educazione scolastica, anche dopo la Liberazione e la liquidazione dei gerarchi fascisti, emerge il ceto dirigente politico cattomarxista del Paese, che affosserà, negli anni Settanta, con vergine innocenza, la ricerca scientifica italiana, tagliandole i fondi con una strategia che non sanziona soltanto la fine della scienza italiana, ma inaugura quella di tecnica di lotta politica attraverso lo strumento giudiziario che finirà per portare al disastro la stessa classe politica. Con precisa documentazione Enrico Bellone ricostruisce, anche se sinteticamente, i tre grandi processi attraverso i quali, a metà degli anni Sessanta l’Italia liquida la ricerca nucleare, quella chimica e quella biomedica, buttando così le fondamenta dell’attuale arretratezza industriale italiana. Nella prima metà degli anni Sessanta: “Felice Ippolito si stava prodigando per dotare il paese di autonomia energetica, Adriano Buzzati Traverso poneva le fondamenta per un laboratorio internazionale di genetica e biofisica, Domenico Marotta era al vertice dell’Istituto superiore di sanità e indirizzava studi che avrebbero consentito all’Italia di svolgere un ruolo da protagonista nel settore dei farmaci. Sembrava insomma che fosse finito il lunghissimo inverno della scienza e della tecnica” (op. cit. pag 11), ma questo sviluppo ledeva interessi internazionali e a un tempo sottraeva al controllo della classe politica grandi flussi di capitale. Scatta la trappola giudiziaria. Nel marzo del 1964 arresto di Ippolito, processato e incarcerato fino al 1968, mentre Marotta, arrestato nell’aprile ‘64, dopo una campagna di diffamazione dell’Unità, sarà scarcerato per ragioni di età: “Le cosiddette prove contro Ippolito e Marotta erano al di là del ridicolo. Tali furono giudicate sia all’estero che da grandi giuristi nostrani come Jemolo e Galante Garrone”. (Op. cit. pag.12). A buon intenditor poche parole: Buzzati Traverso emigrò, e con lui altri ricercatori, dopo che una sua iniziativa per portare in Italia un finanziamento di circa un milione di dollari a sostenere le ricerche di biologia molecolare era stato attaccato dai comunisti come azione di connivenza con la scienza capitalista. Era infine venuto il tempo dell’elettrone proletario del Sessantotto. Il collasso sessantottesco della scienza, ci spiega poi Bellone nella seconda parte del suo aureo pamphlet, non è che la conseguenza della tenace svalutazione del suo ruolo nella società, anche per una meditata volontà di chi detiene il potere di emarginare e mantenere subalterna una comunità scientifica la cui azione si è rivelata, dal Rinascimento in poi, determinante non soltanto per dare un diffuso benessere alla società, ma ancor più per garantirle quella base razionale senza la quale, o all’allentarsi della quale, poi esplodono le grandi pesti psichiche collettive, come appunto furono il nazismo e/o il comunismo, le cui ascese sono state la conseguenza, l’effetto nefasto della grande spinta irrazionalista neoromantica tra fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando il nazionalismo, il razzismo, l’utopismo più inverificabile dilagarono, scatenando due guerre mondiali. I presupposti per nuove esplosioni di irrazionalità ci sono tutti, insegna Bellone, fin quando permangono una metafisica e una teologia decise a ridurre la scienza, ovvero il solo modo dato all’uomo per conoscere il mondo, a strumento subalterno da usare come mezzo al servizio del potere. Soltanto se la scienza si autogoverna, rigettando ogni pretesa egemonica del pensiero metafisico e teologico, una società può ritenere sodamente fondata la sua libertà. E una battaglia politica per la difesa della libertà scientifica sono oggi i quattro referendum abrogativi della legge braghettona sulla fecondazione assistita. Lo leggiamo nella filigrana della polemica, quando i braghettonari affermano che la libertà di fecondazione assistita, soprattutto quella eterologa, significa di fatto introdurre in forma surrettizia i progetti eugenetici del nazismo. Nulla di più assurdo e falso: dai torturatori di Galileo fino ai demistificatori della fisica giudaica heinsteiniana, i persecutori dell’umanità sono sempre stati teologi e politici, dunque gente esterna alla comunità scientifica, che invece ha sempre difeso, nella sua azione complessiva, un progetto umanistico razionale, con al centro la cura dell’uomo. E anche la fecondazione assistita ha ubbidito a questo disegno. Nel limitarla, falsificandone il senso con l’azione legislativa, la classe politica del nostro Paese ci dà l’inquietante conferma di quanto tenace nel suo seno permanga la volontà di tenere sotto controllo le spinte progressive razionali. Se il disastro della scienza italiana, voluto per il proprio egoismo dalla nostra classe dirigente, ha ormai forse irreversibilmente condannato il nostro Paese a diventare una terra di albergatori, di agricoltori di nicchia, ergo con sacche sempre più grandi di povertà e sottosviluppo, oggi la comunità scientifica planetaria ha ormai raggiunto una tale massa critica che i vari dogmatismi e il complex di veri credenti impegnati a difendere la fede dalla ragione non riusciranno comunque più a sopraffare e strumentalizzare la scienza, ridurla a strumenti tecnici al servizio delle loro voglie deliranti di massacri, dopo aver criminalizzato gli scienziati davanti alle loro comunità locali, come appunto fu fatto con Galileo. Questa è la conclusione rassicurante del libro di Bellone, assolutamente imprescindibile per chi voglia riflettere sul nostro presente di italiani nel mondo, oltre i dogmi e le demagogie.