martedì 24 maggio 2005

libertà

Il Giornale di Vicenza Martedì 24 Maggio 2005
Catone Liutprando e Dante “libertà” attraverso i secoli
L’indoeuropeo “leudh”diventa “liber” in latino e si trasforma nel “liut” tedesco. Liberto a Roma ero lo schiavo reso libero dal padrone.
Una piccola parola che traduce un fondamentale diritto naturale
di Giorgio Pegoraro

Una nostra lettrice, Lia Bordignon, nota scrittrice e donna impegnata nelle grandi problematiche della socialità, ci chiede di soffermarci nella nostra rubrica su alcune parole fondamentali, che appartengono al lessico di tutti i tempi e sono rappresentative di concetti che esplicitano l’agire dell’uomo: parole significative come libertà, autorità, arroganza e così via. Il richiamo nella lettera di Lia all’illustre studioso della latinità Alfonso Traina ci obbliga a un costruttivo rigore, ma procederemo, com’è ormai nostra abitudine, cercando di ricondurre queste voci alle soglie della loro creazione e rievocando qualche rudimento nella storia della loro evoluzione. Cominciamo con "libertà".
Una radice indoeuropea "leudh-" connota l’idea di "nascere, sussistere, crescere" e indica il "popolo": ne deriva un aggettivo di cui si ritrovano le tracce sia in latino ("liber"), sia in greco ("e-lèutheros", con l’ "èpsilon" protetico), un attributo che significa "libero" e che denota propriamente l’appartenenza al popolo, naturalmente a quel popolo da cui proviene l’epiteto. È chiaro quindi che la libertà per i nostri progenitori consisteva nell’essere di diritto membri di una società in cui ci si poteva muovere senza impedimenti. D’altronde da questa radice proviene nell’alto tedesco "liut", che vuol dire appunto "popolo" (in tedesco moderno "leute", gente): un celebre re dei Longobardi si chiamava Liutprando, un nome che significa "la spada fiammeggiante del popolo". Da un contesto più ampio, come quello della tribù, si poteva passare ad ambiti più ristretti come quelli della famiglia, il cui capo ("paterfamilias": "pater" deriva da una radice "pa" che significa "reggere e proteggere") conservava nella denominazione che lo designava - e quindi nelle sue funzioni- non solo connotazioni affettive, ma soprattutto giuridiche: il padre era - come dicevano i Greci - "despòtes" (da cui "dèspota"), era cioè "padron di casa" (dalle radici indeuropee "dems" la quale dà in greco "domos" e in latino "domus", la casa e "pot" che si ritrova nel latino "potis", potente). Per il padre latino all’interno della famiglia vi erano due classi di individui, i "liberi" e i "servi", e cioè da un lato i figli nati liberi ("ingenui": il matrimonio era celebrato "liberum quaesundum causa", per procurarsi dei figli) e dall’altro i membri che erano stati in vario modo aggregati, cioè gli schiavi, i quali facevano parte del patrimonio domestico, né più né meno degli animali, della proprietà terriera e degli strumenti di cui ci si serviva per lavorarla.
La "patria potestas", cioè un vero e proprio diritto di vita e di morte, era esercitata dal "pater", sia pure via via con sempre maggiori condizionamenti, nei confronti di tutt’e due le categorie di persone a lui soggette. "Liberto" era a Roma il nome dello schiavo liberato e "libertino" indicava l’appartenenza alla condizione dei liberti: solo in italiano libertino diverrà, a seconda dei tempi e degli scrittori, un fautore della libertà, un libero pensatore o anche, nel caso peggiore, una persona dedita alla sregolatezza.
Dopo tante ricerche e riflessioni di filosofi, come ad esempio Platone, Fichte, Sartre, e dopo tante ispirate pagine di scrittori e poeti, la libertà si è ormai per tutti consolidata positivamente in una sorta di diritto naturale che deve tradursi nella concretezza delle libertà politiche ed economiche: il problema fondamentale rimane quello per cui l’ordine sociale dovrà conciliarsi con l’autonomia dell’individuo. Per quanto concerne il rapporto tra coscienza individuale e libertà vogliamo concludere il nostro libero "excursus" richiamando un brano memorabile di Dante. Quando Dante e Virgilio, usciti dal regno del male entrano nell’isola del Purgatorio, trovano Catone l’Uticense, un simbolo della coerenza ideale e morale, colui che in nome della libertà come valore supremo preferì uccidersi piuttosto che cedere alla tirannide di Cesare. E Virgilio, cercando di placare la severità del guardiano, gli ricorda (Purg., I, 71-72) che Dante "Libertà va cercando, ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta ...". Dante cerca la libertà dalla schiavitù del peccato e ben può capirlo colui che alla causa della libertà fece dono della vita.