lunedì 10 maggio 2004

psichiatria sul territorio
una polemica a Napoli

Repubblica, ed. di Napoli 10.5.04
LA POLEMICA
Le due linee della salute mentale
di MAURO MALDONATO


In principio era il manicomio. Bisogna partire da lì, da quella perfetta metafora della conditio inhumana che superava ogni concetto giuridico di crimine; da quel luogo dove migliaia di uomini vagavano per tutta la giornata, nudi, sporchi, spesso rannicchiati in un angolo dello stanzone, intirizziti, con lo sguardo perso nel vuoto; bisogna partire da lì, da quello spazio d´eccezione fuori dall´ordine giuridico normale, abitato da esseri spogliati di ogni diritto e ridotti a nuda vita, per capire qualcosa della discussione attuale sulle istituzioni per la "salute mentale".
Non si tratta di ricostruire - in questo mesto compleanno della legge 180 (26 anni) che nessuno sembra voler celebrare - le circostanze storiche, giuridiche e politiche, di un esperimento (per molti versi ancora impensato) che ha consentito a un manipolo di idealisti senza illusioni di chiudere i manicomi e rimediare, almeno un po´, alla nostra colpa e alla nostra vergogna con la restituzione alla libertà di migliaia di vite sommerse e salvate. Non è nostro compito. Né questa la sede. È però tempo - contro il rifiuto intollerante dei semplificatori a buon mercato - di fissare alcuni punti fermi. Dando la parola ai fatti. Ma, soprattutto, tenendoci alla larga dalla retorica aggressiva di chi si pretende titolare della verità. Mai come su questo argomento ogni parola che scriviamo è già una sottomissione, una caduta in questa retorica.
Insidia temibilissima, questa, a cui Sergio Piro non sembra far caso quando ingaggia le sue strane e ricorrenti battaglie contro coloro che in questa città stanno portando avanti il difficile (e interminabile) compito di costruire una rete di strutture per la salute mentale, sporcandosi le mani nel lavoro del giorno dopo giorno e fuori dalla ribalta mediatica. Insomma, facendo le cose, più che enunciarle o annunciarle.
Battaglie strane, dicevo. Perché? Per almeno due ragioni. La prima è che alzando la voce, moltiplicando le parole e agguerrendo il pensiero (con l´illusoria pienezza di chi afferma se stesso) si imbocca la via della rassegnazione, dell´immobilità e della disperazione. Una discussione pubblica, anche quando è fortemente agonistica, è sempre un incontro con gli altri, un entrare in rapporto con gli altri: dunque, un mettersi in condizione, di nuovo, di agire. La seconda ragione è che, ingaggiando questa battaglia, si trascurano i fatti, gli indigeribili fatti che, invece, bisogna tenere in massima considerazione.
Vediamo. A Napoli, il primo gennaio ?94 nell´ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi c´erano ancora 777 pazienti, nel Frullone circa 200. Perché a 16 anni dalla legge 180 che sanciva la chiusura dei manicomi la situazione era ancora quella? (Sbaglio o in quegli anni Piro svolgeva un ruolo istituzionale e scientifico di primissimo piano in città e in regione?). Inoltre, nell´arco di pochi anni si è passati in città, nonostante la scarsità di risorse, da 3-4 a più di 20 Sir (strutture intermedie residenziali: cioè quelle che ospitano le centinaia di persone liberate dal manicomio, più di una in ogni unità operativa). Fu proprio "Repubblica" (sul "Venerdì" di un anno fa) a fare un ampio e positivo servizio su una delle vituperate strutture.
Nei suoi toni intransigenti Piro sembra far rivivere l´antica idea della linea rossa che delimitava la rivoluzione permanente dalla linea nera, quella dei poveri funzionari che difendono l´esistente. Nel suo furore (non si capisce bene motivato da cosa) egli decide di ignorare che un´istituzione è una tensione inesausta e spesso contraddittoria tra "istituito" e "istituente", una complessità vivente costituita da una pluralità di livelli e di individualità. Inoltre, come fa a lamentare l´assenza e la latitanza delle istituzioni e poi, quando le istituzioni ci sono e magari funzionano, squalificarle. Ancora, non è un´enormità far diventare il normale trasloco di un servizio (da via Morghen a non so dove) un rischio per la civiltà e la democrazia? Nientemeno. Per quanto è dato capire il trasferimento ad altra sede non è dipeso dalla Asl, ma dalla decisione del proprietario di affittare i suoi locali a un commissariato di pubblica sicurezza. Dove, però, Piro appare incomprensibile è quando elegge a modello da imitare la realtà della "salute mentale" della Asl di Aversa. Conosco un po´ quel mondo per aver lavorato, per 7 anni e in prima linea, nella zona di Casal di Principe-Villa Literno. Ciò a cui Piro fa riferimento è solo una bella fantasia. Lì si è consumata un´opera di colonizzazione sistematica che ha solo umiliato la professionalità di tantissimi operatori.
Nessuno, caro Piro, crede di vivere in un mondo ideale. Figuriamoci! Ma una cosa è la faticosa e paziente costruzione di soluzioni alle questioni reali, altro ancora la sottile crudeltà di chi brucia con la penna tutto ciò che non è conforme ai propri desideri.

omicidi in famiglia
i nuovi dati Eurispes

Repubblica.it 8.5.04
Eurispes: un omicidio ogni due giorni fra le mura domestiche
Da maggio ad agosto 2003 il 28% in più rispetto al 2002
Aumentano i delitti in famiglia
Uomini uccidono più delle donne

La convivenza matrimoniale è il terreno più fertile
Gli psichiatri: "Il raptus non esiste, è l'epilogo di un percorso"


ROMA - Un delitto in famiglia ogni due giorni. E in due casi su tre, ad uccidere è un uomo. Così come è avvenuto per la studentessa trovata morta in auto, uccisa forse dal nonno, e per la donna assassinata nel reggiano dal figlio. I dati arrivano da un'indagine dell'Eurispes, relativa al secondo quadrimestre del 2003, elaborata su numeri della Criminalpol.
Nel complesso, da maggio ad agosto sono stati registrati 257 omicidi, ben il 21,8 per cento in più rispetto al quadrimestre precedente. E gli omicidi maturati all'interno della coppia e dei rapporti familiari sono passati da 49 a 55, registrando una crescita del 12 per cento. Nel periodo interessato i tentati omicidi sono stati 23, di cui dieci di coppia.
La maggior parte degli omicidi, 39 su 55, è avvenuta all'interno della coppia. In 30 casi, l'omicida è stato l'uomo. Record al Nord: 26 omicidi su 55. A livello regionale, spicca la Lombardia (21), seguono il Lazio (9), l'Emilia Romagna (5), la Liguria (4). Roma e Milano sono le città dove si registra il maggior numero di omicidi, rispettivamente 5 e 6.
Secondo l'istituto di ricerca, la convivenza matrimoniale è il terreno più fertile nel quale matura la possibilità di uccidere il partner e, talvolta, anche i figli. Alcune volte la molla che fa scattare la violenza è la scoperta di un tradimento o la non accettazione della separazione. In atri casi, si è registrata una situazione di conflittualità preesistente o disagi economici.
"E' proprio fra le mura di casa che si consuma la maggior parte degli omicidi", osserva il presidente della Società italiana di psichiatria forense, Giancarlo Nivoli. E secondo il parere di alcuni psichiatri le cosiddette "tragedie della follia" non arrivano mai all'improvviso. Per Nivoli, ad esempio, "ogni delitto è scatenato da una costellazione di fattori che agiscono insieme, come un'orchestra".
"Il raptus non esiste" anche secondo lo psichiatra Tonino Cantelmi, dell'università Gregoriana di Roma. Esiste invece "una lunga catena di dolore e sofferenza che non viene intercettata e che a un certo punto si spezza". Saper riconoscere questi segnali e poter chiedere aiuto, ha aggiunto Cantelmi, farebbe evitare molti dei delitti in famiglia.

El Greco a Londra

Ha successo a Londra la rassegna dell'Artista cinquecentesco
Quando Cézanne copiava El Greco
Tra Ottocento e Novecento la sua opera fu al centro di accanite discussioni tra critici
di ANTONIO PINELLI

Londra. El Greco è uno dei pochi maestri del passato che possa vantare una fama davvero universale, come dimostrano le strabocchevoli folle di visitatori che lo scorso inverno si accalcavano nelle sale del Metropolitan di New York e oggi accorrono alla National Gallery londinese, rischiando estenuanti file pur di non perdere la seconda ed ultima tappa di questa magnifica mostra monografica (El Greco, a cura di D. Davies, fino al 23 maggio). Non tutti sanno, però, che l´enorme popolarità di cui oggi gode questo pittore è un fatto relativamente recente, che ha scarso riscontro nella fama tardiva da lui conseguita in vita. Fama limitata e, in apparenza, effimera, tanto da scolorire rapidamente dopo la sua morte, condannando il suo nome ad oltre due secoli di perfetto oblio.
El Greco nacque a Creta nel 1541 e si formò nella sua isola, che allora era un possedimento veneziano, divenendo un tipico "madonnero" di scuola neo-bizantina. Sui 25 anni, spinto dalla voglia di ampliare i propri orizzonti, si spostò in Italia, dove trascorse quasi un decennio tra Venezia e Roma, entrando in contatto con Tiziano, Tintoretto, Michelangelo e la raffinata cerchia culturale della potente famiglia Farnese, senza però ottenere il pieno successo professionale cui aspirava. Approdato in Spagna nel 1576, la sua speranza di divenire pittore di corte andò presto delusa, tanto che dovette ripiegare su Toledo, città prospera ma esclusa dal grande circuito delle committenze regie. Vi si stabilì definitivamente, facendone la propria base operativa per il mezzo secolo scarso che ancora gli restava da vivere, e fu qui che poté gustare i frutti di una reputazione ormai consolidata, ma che sembrava destinata a relegarlo nel modesto Pantheon delle glorie locali. Finché nella seconda metà dell´800, proprio come accadde a Piero della Francesca e a Botticelli, un animoso manipolo di critici e di collezionisti lo riportò clamorosamente alla ribalta individuando in lui una sorta di prototipo dell´artista moderno. Maestri sulla cresta dell´onda, come Delacroix o Sargent, si fecero un vanto di possedere copie o repliche autografe di suoi capolavori, mentre il giovane Cézanne manifestò tutta la sua ammirazione per lui, copiando con grande applicazione uno dei suoi ritratti più famosi, la Dama con il mantello di pelliccia.
Questa riabilitazione, tuttavia, fu a lungo contestata negli ambienti più conservatori, perché nei decenni a cavallo tra '800 e '900 l´essere pro o contro El Greco era divenuto una discriminante tra chi era a favore e chi avversava l´arte contemporanea. A critici di punta come Fry o Dvoràk si contrapposero studiosi di bieco stampo positivista, che non esitarono a spiegare il febbrile cromatismo, le forzature prospettiche e le contorsioni delle sue figure esageratamente allampanate come il frutto di anomalie percettive di un soggetto afflitto da grave astigmatismo.
Tutto risulterà più chiaro, se si tiene presente che dietro a questa disputa su di un pittore vissuto ben tre secoli prima infuriava la ben più attuale battaglia a favore o contro la verosimiglianza nelle arti figurative. Dal canto loro, Fry e i suoi sodali non esitavano ad additare nella programmatica distorsione ottica cui El Greco sottoponeva le sue figure l´origine della scomposizione dei piani operata da Cézanne e portata ad estreme conseguenze dal Cubismo.
Oggi l´eco di questa battaglia, persa dagli antimodernisti, si è ormai affievolita. Resta comunque istruttivo constatare retrospettivamente quante tappe cruciali della battaglia in favore del "moderno" abbiano visto la questione di El Greco in prima linea. Come quando Franz Marc, impegnato a stendere con Kandinsky il manifesto del Cavaliere Azzurro, esaltava il pittore per l´arroventato misticismo dei suoi quadri. O come quando Picasso, proprio nell´impostare le sue rivoluzionarie Demoiselles d´Avignon, aggiungeva alla già deflagrante miscela composta dalla scheggiatura dei piani appresa da Cézanne e dal brutale sintetismo della scultura africana, la polvere pirica dei più arditi contorcimenti anatomici immaginati da El Greco in un quadro - L´apertura del quinto sigillo - che oggi figura tra gli oltre 80 capolavori presenti in mostra.
Non si può nascondere, tuttavia, che tuttora proprio la polvere sollevata da questa "battaglia per la modernità" offuschi alquanto l´esatta percezione di cosa davvero si celi dietro lo stile sfoggiato da El Greco. Uno stile che trae spiegazione dalla temperatura altissima con cui il fiammeggiante talento del pittore ha saputo portare al punto di fusione la singolarissima miscela composta dai fulgidi ed astratti stilemi bizantini, profondamente assorbiti durante il suo apprendistato di "madonnero" cretese, e dalle sconvolgenti novità apprese in Italia - l´acceso colorismo e il concitato luminismo dei Veneti, le torsioni e gli avvitamenti del manierismo michelangiolista.
Il paradosso è che tutto ciò sia sostanzialmente giunto a piena maturazione soltanto in Spagna. Quella Spagna in cui El Greco si trapiantò, ma senza integrarvisi completamente, tanto che continuò imperterrito a firmare le sue tele con il proprio nome greco - Doménikos Theotokópoulos. Dal canto suo, la Spagna ricambiò questa riluttante integrazione con un soprannome - El Greco, si badi bene, non El Griego - che a ben guardare riassume perfettamente la duplice identità, sia nazionale che culturale, del pittore: quella cretese e quella italiana. E ciò a dispetto del fatto che oggi gli spagnoli, grazie alla potenza persuasiva dell´arte, credano di veder riflesso nella sua pittura, corrusca e ardente, un frammento della propria identità più profonda.

in un reparto di psichiatria

Kataweb Notizie 09 mag 2004 - 19:54
Maradona: Ospedale Italiano di Baires tenterà il suo recupero


Buenos Aires. Entro domani Diego Armando Maradona verrà trasferito nel reparto di psichiatria dell'Ospedale Italiano di Buenos Aires, che si farà carico del tentativo di recuperare l'ex fuoriclasse del Napoli alla vita normale. Lo ha rivelato il responsabile del servizio di psichiatria dell'ospedale, Hector Marchitelli, intervistato dal quotidiano Clarin.
Fino a ieri vari ospedali e centri di recupero dalla droga non avevano accettato di prendersi cura di Maradona, ritenuto paziente troppo 'scomodo'. Nelle ultime ore il medico curante di Diego, Alfredo Cahè, si è messo in contatto con Marchitelli e la situazione pare essersi sbloccata. "Non c'è nulla di sicuro al 100 per cento - ha puntualizzato Marchitelli - però ci siamo offerti di aiutare Maradona. Ora tutto è nelle mani della famiglia di Diego: l'ultima parola spetta a loro".
Della questione si sta occupando l'ex moglie del 'Pibe de Oro', Claudia Villafane, che ha scelto l'ospedale del Centro Italiano (ce ne sono quattro, due a Buenos Aires, una a Entre Rios e una in Uruguay a Punta del Este) dove far ricoverare il paziente. Maradona, che si trova ancora nella clinica Suizo Argentina di Buenos Aires, aveva ricevuto un'offerta di aiuto, e di ricovero, anche da parte di un centro specializzato nella cura delle tossicodipendenze di Montevideo, gestito dalla locale Associazione Spagnola. Ma Claudia sembra aver preferito l'Ospedale Italiano di Buenos Aires, ritenendo quel reparto di psichiatria la struttura più adatta per far curare l'ex marito. (Spr)

domenica 9 maggio 2004

le scelte culturali di Repubblica:
basaglismo in prima pagina

Repubblica 9.5.04
IL CASO
Rete 180, una radio di matti "Qui ci sentiamo più normali"
Terapia al microfono per vincere il disturbo mentale

Ma ora i redattori ambiscono ad avere una frequenza per trasmettere le proprie interviste, le ricette, i servizi o i propri strani pensieri
L'emittente, nata in una stanza del centro psico-sociale "Poma" di Mantova, ha aiutato i pazienti a entrare in contatto con la realtà
di FABRIZIO RAVELLI


«LA TV fa male perché la guardi, la radio fa bene perché la fai». Parola di Luciano, che oggi dirige i dibattiti, fa interviste, vorrebbe avere una diretta notturna tutta per sé. Passa ancora molte ore davanti alla tv, convinto che l´elettrodomestico gli parli, proprio a lui. «Delirio di influenzamento», la diagnosi. Ma la sua vita è un po´ migliore, da quando è passato dall´altra parte, da quando usa un microfono e lavora a Rete 180, «la voce di chi sente le voci», la radio dei pazienti qui al Centro psicosociale dell´azienda ospedaliera Carlo Poma di Mantova. L´hanno chiamata «radio-terapia», con quell´umorismo lucido e stralunato che è uno dei marchi di fabbrica. La redazione è nella stanza più grande del centro di salute mentale: l´antenna è un attaccapanni.
E´ tutto cominciato quella volta che Luciano si trovò a parlare in tv. «Quella sera - racconta Giovanni Rossi, primario ed "editore" di Rete 180 - lui che era sempre convinto di essere perseguitato da gente ostile riuscì a parlare di sé, della sua patologia, in modo tranquillo e adeguato». Ci hanno pensato su, Rossi e il suo collega Baraldi, e hanno provato a usare la radio («La radio perché è semplice, abbiamo cominciato con un microfono e un impianto stereo») come trattamento terapeutico. «Ai pazienti serviva uno spazio di comunicazione. E la radio era perfetta: crea distanza, mediazione, protezione, filtro. Ma dà la possibilità di entrare in contatto con la realtà esterna, con le persone. Abbiamo scoperto che, con un microfono in mano, parlavano anche quelli che non parlavano mai».
Siccome non hanno ancora una frequenza, tengono bassissimo il livello del trasmettitore: il segnale si capta solo dentro l´ospedale, e pochi metri fuori. Sperano che qualcuno gli affitti una frequenza: «Per comprarne una girano prezzi pazzeschi, centinaia di migliaia di euro». Qualche spazio l´hanno avuto da Radio Base, qualche intervista l´hanno data a Radio Popolare, anche Caterpillar su Radio 2 ha trasmesso cose loro. Ma insomma, Rete 180 è quasi una vera radio. L´apparecchiatura è stata messa insieme da Stefano, infermiere. C´è una redazione, che si riunisce ogni venerdì per discutere i programmi, per registrare dibattiti interni. Intorno a un tavolo, passandosi il microfono. Marco detto "Notizia" ogni mattina fa una sorta di rassegna stampa: lui si sente povero, e ogni notizia è letta in quella chiave. L´Alitalia va male? «Perché l´Alitalia è povera». Marco tiene sempre 20 chili di pasta in casa, non si sa mai.
Luciano, pioniere e fondatore, dirige e tiene rapporti con gli ospiti: ha un talento naturale per la radio. Luisa, l´esperta di cucina, diffonde ricette. Alcune tradizionali, come quella dei tortelli di zucca: «Ma con le dosi per 150 persone, l´ho data quando c´era il controfestival, visto che c´erano 150 cantanti. Le decido a seconda del tema del giorno». Altre fantastiche: «Come il tiramisù per l´amore di coppia: 1 cucchiaino di lacrime, 1 palpito di cuore, 1 etto di nostalgia, 1 pizzico di gelosia, 1/2 dozzina di ceffoni...». Una volta Luisa diede la ricetta della torta sbrisolona, ma per 50 mila persone, indicando che per l´impasto servivano le ruspe.
Il Dipartimento di salute mentale ha un reparto con 14 posti, a rotazione quando qualcuno dei pazienti passa un brutto momento. Ma quasi tutti vivono fuori, nel mondo della gente "normale". Rete 180 serve a entrare in rapporto coi "normali", ascoltandoli e intervistandoli. Ma la radio è comunque il centro della vita di chi ci lavora: «L´effetto - dice Rossi - si trasmette a tutta l´attività del dipartimento, influenza tutto. Perché nei loro dibattiti affrontano questioni fondamentali. Per esempio: serve a qualcosa prendere farmaci?». Gli psichiatri a volte sobbalzano, ascoltando certe trasmissioni.
Come quando, dieci giorni fa, hanno fatto una trasmissione sul tema: «Siamo tutti un po´ ostaggi?». Dall´Iraq a Mantova, senza mediazioni. L´Iraq era «La guerra di Piero», De André in sottofondo. Il resto erano le vite in diretta: «Quando siamo stati ricoverati, ci siamo sentiti ostaggi?». Libere associazioni mentali: «Paura, disagio, nemico, libertà, viaggio, terrore, salame, cattura, rabbia, dolore, infermità, incertezza, tradimento, prigione, angoscia, prigioniero, zio». Racconto: «Io sono stata veramente prigioniera un anno e nove mesi a Pisa: mi facevano l´elettroshock, mi legavano, mi imbottivano di farmaci. Non è servito a niente, ha solo aggravato la mia situazione».
Questa è Cinzia. Durante il «controfestival», quando Rete 180 intervistava cantanti e personalità nell´atrio del teatro Ariston, Cinzia intervistò il cabarettista Dario Vergassola. Per scoprire che anche lui, Vergassola, era stato imbottito di farmaci a Pisa. Che aveva avuto uno zio "matto", tornato all´improvviso a casa dal manicomio quando la legge 180 aprì le porte: «Arrivò con la valigia e con la barba. Fu un trauma per lui e per noi». Cinzia, con la radio, ha acquistato un po´ di sicurezza. Ha preso un diploma di restauratrice, lavora a Palazzo Te e censisce i restauri necessari. Dice: «L´arte mi scalda dentro». Con altre due ragazze, pazienti del centro, hanno preso casa: «Era un periodo difficile, abbiamo avuto questa idea. L´agenzia immobiliare ce ne ha trovata una, e la padrona ce l´ha affittata senza problemi». Il primario dice che l´idea stessa di restauro ha a che vedere con il lavoro del dipartimento: «In fondo restauriamo persone, o ci proviamo.
Trasformiamo cose considerate inutili in cose utili: come quando qui hanno fatto dei portavasi con le vecchie cinghie di contenzione».
Divina, una delle tre ragazze dell´appartamento, è nella radio la voce della poesia: «Di solito le scrivo seduta stante, ispirandomi al tema della trasmissione». Ne ha una borsa intera, di poesie battute a macchina, e poi un grande quaderno nero ordinatissimo. Dice che anche la radio è venuta fuori così: «Una parola tira l´altra, e avevamo fatto la radio». Microfono in mano, continuano a tenersi attaccati al mondo. Girano la città, vengono accreditati agli eventi sportivi e culturali.
Discutono e intervistano su tutto: lo sciopero generale, «raccogliendo materiali su cose, persone o cose che non possono scioperare, per esempio il prete o l´ambulanza», o la ricerca del Politecnico di Milano sull´identità mantovana, subito centrata sulla definizione di «vissuto». O ancora, «i kamikaze». Luciano aveva una sua idea televisiva: «Lì in Medio Oriente per me succede che gli israeliani hanno un tipo moderno di televisione, la guardano e non succede niente, sono abituati. Gli orientali invece, quando gli vengono quelle robe lì della televisione si vanno a suicidare in Israele, piuttosto di soccombere a quella cultura televisiva».
Non c´è niente di idilliaco, in questa Rete 180. I redattori-pazienti sono tutti consapevoli della loro sofferenza mentale: «Ci sono malati psicotici gravi - dice il primario - Ma questo progetto li fa sentire protagonisti, li valorizza, e stimola l´auto-aiuto. Si è formato un gruppo solidale, dove ciascuno trova l´appoggio dell´altro. Stiamo tutti lavorando sulla nostra crescita». I pazienti frequentano tutti un corso di professionale di spettacolo, con la cooperativa Teatro Magro di Brescia. Adesso vorrebbero diventare grandi, e avere una frequenza per farsi sentire. Luciano vorrebbe la diretta notturna. Lui di notte quasi non dorme, e telefona in ospedale per parlare con qualcuno. La tv gli fa male, «ma la radio fa bene perché la fai».

Emanuele Severino, la tortura, il Logos occidentale

Corriere della Sera 9.5.04
IL FILOSOFO SEVERINO
«In quegli atti torna il peccato originale»
«Quando avremo finalmente il coraggio di guardare verso il fondo dell’abisso?»

Il filosofo Emanuele Severino commenta le foto delle torture: «Quello che ci indigna è l’immagine dell’uomo ridotto a un animale sofferente o fatto cosa, un pezzo di carne... Ma non basta l’orrore per rifiutarlo. È una violenza puramente occidentale che vediamo all’opera, una sorta di "peccato originale".
In queste foto abbiamo una volontà di annientamento del prigioniero: si vuol fare diventare niente la sua dignità. La violenza raggiunge il colmo della sua oscenità quando si unisce al più radicale degli errori: il pensare che una cosa sia altro da sé. E che possa infine diventare niente».
intervista di Gian Guido Vecchi


«Quando avremo finalmente il coraggio di guardare verso il fondo dell’abisso?». Emanuele Severino parla quasi tra sé e fissa qualcosa che se non è il fondo in qualche modo ci si avvicina, Lynndie England che tira il guinzaglio legato al collo di un iracheno, il sorriso della soldatessa mentre sta in posa dietro a un groviglio di braccia, gambe, corpi nudi. «Quando l’ho vista per la prima volta ho sperato che fosse soltanto un sorriso ebete, il ghigno di chi non capisce la portata di ciò che accade. Quello che ci indigna, in queste foto, è l’immagine dell’uomo ridotto a un animale sofferente o fatto cosa, un pezzo di carne, un mucchio d’ossa, sangue, urina. Però dissento da chi dice: basta l’orrore per rifiutarlo. No, l’orrore non basta». L’esercizio del pensiero, il lógos . Il più celebrato tra i filosofi italiani fa una pausa e sillaba: «È una violenza puramente occidentale che vediamo all’opera. E sarebbe un’ingenuità altrettanto colpevole addossare tutta la colpa a questi soldati. Tarati e sadici, va bene, è chiaro che vadano puniti. Ma ci facilita il compito pensare che con l’ergastolo o la condanna a morte il problema sia risolto. Non per nulla le grandi religioni lo avvertono, seppure in forma mitica: c’è un peccato originale che si fa sentire dovunque».
E qual è il peccato originale, professore?
«Vede, in queste foto abbiamo una volontà di annientamento del prigioniero: si vuol fare diventare niente la sua dignità. Pensi alla distruzione che si esercitava sull’uomo nei campi di sterminio nazisti: identità, igiene personale, fame, l’annichilimento progressivo dell’altro fino alla morte, finché l’uomo diventa niente . Ecco, la violenza raggiunge il colmo della sua oscenità quando si unisce al più radicale degli errori: il pensare che una cosa sia altro da sé. E che possa infine diventare niente».
Tutto questo è occidentale?
«Sta alle origini della storia ma anche della preistoria dell’Occidente. La radice della volontà che le cose diventino altro, si mostra nel fatto che gli uomini credono di poter sopravvivere mangiando gli dei, facendo diventare identici a se stessi quegli altri che sono gli dei. La manducazione del dio è una costante in tutte le religioni. Ma lo si vede anche nell’omicidio, la storia dell’uomo inizia da Caino e Abele, no? Chi uccide vuole impadronirsi di quel vuoto lasciato dall’altro, assumerne la potenza. Non per nulla le popolazioni primitive si cibano del nemico».
Ma questo non riguarda solo l’Occidente...
«Questa era la preistoria. Con il pensiero greco si aggrava la volontà di far diventare le cose altro da sé: addirittura le si vuol fare diventare niente. Nel Teeteto di Platone si dice: nemmeno chi è pazzo, e nemmeno in sogno, ha il coraggio di dire sul serio a se stesso che il due è uno, che il bove è cavallo... E invece si comincia a pensare che le cose siano l’assolutamente altro da sé. È questa la follia radicale. Noi ci meravigliamo dei comportamenti abnormi, ma questo atteggiamento distruttivo e radicalmente errante non è una deviazione dall’essenza più profonda dal nostro modo di pensare, non è una patologia rispetto alla normalità dell’uomo occidentale: è la radice violenta di ciò che diciamo razionalità, bene, sapienza, bontà... Tutte le categorie positive che elogiamo crescono come rose terribili da un letame ancora più terribile».
Samuel Huntington diceva: non possiamo esportare i nostri valori se vi abdichiamo...
«Nell’indignazione generale c’è una sorta di malafede. Anche il comandamento "non uccidere" ha nella propria anima l’omicidio perché concepisce l’uomo come qualcosa di per sé annientabile».
Ma perché «malafede»?
«La malafede cui mi riferisco io è una inconsapevolezza che dimora nell’inconscio dell’Occidente e agisce con la stessa potenza degli istinti. Non è la malafede consapevole, l’ipocrisia da sepolcro imbiancato. È inconsapevole. Ci sono movimenti nobili che intendono salvare l’uomo come la Chiesa cattolica, ma le grandi forme di nobiltà sono minacciate e destinate al fallimento perché nel sottosuolo hanno quella malafede inconscia che consiste nel pensare l’uomo come un nulla».
Ne I fratelli Karamazov , Ivan parla ad Alësa della sofferenza innocente, le «lacrime irriscattabili». Per le vittime non c’è redenzione?
«Come eterni siamo destinati alla gioia. Anche i bambini di Dostoevskij lo sono».
E intanto che si fa?
«È chiaro che preferisco vivere in America piuttosto che nell’Iraq di Saddam, in democrazia e non nel totalitarismo, con Gesù invece che con Hitler. Ma finché non riusciremo a capire che le grandi opposizioni sono sottese da questo errore-orrore di fondo - il nichilismo -, il nostro tentativo di salvare l’uomo è destinato a fallire. Avremo più o meno potato le fronde, ma non il tronco né le radici dell’albero della malvagità».

Pietro Ingrao

Corriere della Sera 9.5.04

ROMA - Sul palco il leader degli «ultrasinistri», come Pietro Ingrao chiama con affetto i compagni di strada di Fausto Bertinotti, il segretario di Rifondazione sale da presidente in pectore.

(...)
PUGNO ALZATO -Ingrao, classe 1915, entra col pugno alzato, schiena dritta e piccoli passi scanditi da una lunga standing ovation . «Che un uomo con la sua storia decida di essere coinvolto in questa impresa è un fatto enorme» dirà emozionato Bertinotti. Della Quercia di Fassino il grande vecchio del comunismo italiano dice di non condividere nulla, mentre tutto (tranne la tentazione di andare al governo con Prodi) apprezza del Bertinotti di oggi. A cominciare dalla «necessaria» rottura con lo stalinismo.
«Veniamo da una storia grande e terribile, non possiamo andare verso il futuro senza una rottura chiara e irrevocabile con ciò che ha impedito alla nostra storia di essere, per tanta parte dell’umanità, una storia di liberazione» scandisce Bertinotti nel passaggio più applaudito.
(...)

Corriere della Sera 9.5.04
E Ingrao: il comunismo? Non è solo storia, riguarda il futuro

«Mao diceva che la nostra vittoria avrebbe causato milioni di morti»
«Castro? Mai piaciuto. All’Avana, pure gli stabilimenti balneari erano dello Stato. Mi appariva così assurdo, il comunismo dei bagnini. E delle condanne a morte».
Incontro con Pietro Ingrao, 89 anni, al congresso di fondazione della «Sinistra europea»
intervista di Aldo Cazzullo


Il delegato slovacco è in maglietta, il boemo in camicia rossa. Pietro Ingrao ha spessi calzettoni grigi, devono avergli detto di coprirsi bene vista la giornata incerta. Comunisti nuovi e antichi di 16 Paesi fondano alla Domus pacis il partito della Sinistra europea e ne fanno presidente Bertinotti, insieme con pacifisti, cattolici, no global: un partito «né marginale né residuale», che non sia ex di nulla, ancorato a una visione romantica del comunismo che non è stato ma forse sarà. Ingrao è venuto per questo. «Per me comunismo è una parola politica sino a un certo punto. Non riguarda solo la storia ma l’avvenire. È la speranza di un mondo migliore, che non mi ha mai abbandonato e come vede muove ancora molta gente». Ingrao è qui perché rivendica l’interpretazione movimentista del comunismo, e un poco anche quella confusionaria (a guardarla dall’esterno ovviamente). Si riparte da lontano, molto da lontano. Bertinotti condanna lo stalinismo, applaudono tutti anche i perplessi come i delegati boemi, applaude pure Ingrao. Ma non avevate già risolto con il XX Congresso del Pcus, 48 anni fa? «Lo stalinismo è stato un errore così grande che è bene ribadirne il rigetto. Io stesso ho riconosciuto lo sbaglio dopo qualche tempo, ma le cose non erano così semplici. La figura di Stalin non ha un solo volto. Io ho partecipato dell’emozione per la sua morte, perché Stalin era il vincitore del nazismo, l’uomo che aveva preso Berlino. Non ho saputo rompere in tempo, e ora l’età mi restituisce il peso del più grande errore della mia vita. Ma fu un errore diffuso, Togliatti ad esempio era un grande ammiratore di Stalin, e Krusciov ci rimproverò per questo con violenza».
L’alleanza europea della sinistra antagonista appare a Bertinotti l’anticipo di quanto potrà accadere in Italia: Rifondazione, verdi, cossuttiani (assenti) e sinistra Ds (rappresentata dal portavoce Mussi) uniti per contare di più nell’alleanza con Prodi. «Ma sarà una trattativa molto, molto difficile - profetizza Ingrao -. Mi sembrano posizioni così distanti. Io mi trovo bene qui tra gli ultrasinistri; Fassino non so. E anche D’Alema mi pare molto cambiato. L’ho conosciuto a Pisa quando organizzava le lotte del '68, era un buon comunista, figlio di un compagno, ma ora mi sembra piuttosto un centrista. Eppure quando Occhetto annunciò che avrebbe cambiato nome al partito, mentre io ero in Spagna a seppellire la Ibarruri, ricordo che D’Alema espresse le sue giuste perplessità». Chi le piace allora? Castro? «Di Castro ho un’opinione niente affatto buona, e non da ora. Quando andò al potere passai un mese a Cuba, e non mi piacque. Mancava, come dire...». La libertà? «Libertà è una parola grossa. Diciamo che mancava l’articolazione, la differenza. Una voce che non fosse la sua. I comizi li faceva solo lui: ore e ore da solo sul palco. Per riprenderci andavamo a fare il bagno, nelle conche sulla spiaggia dell’Avana. Chiedevo: di chi sono questi stabilimenti? Dello Stato, mi rispondevano. Mi appariva così assurdo. Il comunismo non poteva essere lo Stato che fa il bagnino. Tantomeno lo Stato che condanna a morte».
Tutto quanto appare forse un po’ tardivo, l’autocritica, il rimpianto, l’altra possibilità. Si dicono comunisti anche i cinesi, il primo ministro è qui a Roma. «Ma il loro è un centralismo soffocante» dice Ingrao. Mao invece... «Lo incontrai per la prima volta nel novembre del 1957, dopo il XX congresso e prima della rottura tra sovietici e cinesi: fu l’ultima grande riunione dell’Internazionale comunista. Mao venne a trovare Togliatti e me nella dacia dove alloggiavamo. Era un uomo di grande suggestione, però disse cose terribili: il comunismo vincerà, al prezzo di centinaia di milioni di morti. Mi parve eccessivo. Per fortuna non è andata così». I morti sono stati meno, e il comunismo non ha vinto. «Ma non mi pare che il mondo abbia sconfitto la barbarie. Mi hanno impressionato le immagini della tortura in Iraq. Mi sono ricordato che quando cospiravamo contro il fascismo la nostra paura più grande erano gli interrogatori violenti. Poi arrivarono i nazisti. Via Tasso. La pensione Iaccarino. Anche loro puntavano non solo a far male ai corpi, ma a umiliare il prigioniero, a negarne l’umanità. Ricordo un compagno di 19 anni che si impiccò in carcere per timore della tortura». Furono gli americani a mettere fine a quell’orrore, però. Come si possono accostare ai nazisti? Bush sarà a Roma il 4 giugno a commemorarne la liberazione, Bertinotti annuncia che il partito si unirà alla protesta. «E farà bene. La memoria non è mai separata dal presente. Bush è il capo dell’impero e io non sono nulla, ma se potessi gli chiederei solo: come è stato possibile?».
I delegati dell’Est sono giovanissimi. I palestinesi non sono potuti venire tranne uno, che piange sul palco. Ingrao compirà novant’anni il prossimo 30 marzo. Ha imparato da poco ad andare in motorino, però stavolta il partito gli ha mandato un’auto. «Che vuole, è la vanità umana. Finire sui giornali. Io ho cominciato da giornalista, il 26 luglio del ’43. Quand’ero direttore dell’Unità inventai la diffusione volontaria: anziché al mare, i militanti andavano con le copie sotto il braccio a farsi insultare nei condomini borghesi. L’Unità di oggi non mi dispiace, è sciolta, vivace, però i confronti mi deprimono. Sono diventato deputato nel ’48, ho presieduto la Camera negli anni di piombo, ma non c’è mai stato tra gli schieramenti un clima cupo e chiuso come ora. Gli anni dello scelbismo sono stati durissimi, la polizia sparava sugli operai, però in Parlamento si parlava. Se il mattino accadeva un fatto importante, la sera De Gasperi o il ministro venivano a riferire. Da quanto tempo si attende che Berlusconi spieghi in aula cosa farà in Iraq? Delle torture avete discusso?». Giordano, capogruppo di Rifondazione, fa segno di no.
In platea c'è un altro grande vecchio, Mario Monicelli. Curzi, Manisco, Ritanna Armeni. Israeliani e iracheni i più applauditi. Freccero. Aderiscono la Pds partito erede della Sed di Honecker e la rete Lilliput, il Pcf con la leader Marie-Georges Buffet e la teologa Adriana Zarri. Finlandesi, ciprioti e due delegazioni venezuelane. Agnoletto in giacca e cravatta. Lo slogan è sessantottino, «ce n’est qu’un debut» , ma è un inizio velato di malinconia, a giudicare dai libri sulla bancarella: Euro kaputt ; Game over . La sfida al G-8 ; La fucilazione dell’alpino Ortis ; Il pensionato furioso ; Rifondare è difficile ; La strage infinita . L’Indonesia dal pogrom anticomunista al genocidio di Timor Est ; Lamento in morte di Carlo Giuliani . Marco Ferrando leader dell’opposizione trotzkista distribuisce in proprio la sua opera, L’altra Rifondazione. Anche Ingrao ha la cravatta, un gilet azzurro, una rasatura affrettata che gli ha lasciato qualche ciuffo di peli bianchi. «Buon viaggio compagne e compagni» chiude il neopresidente europeo Bertinotti.
«Ecco, il movimento è importante - chiosa Ingrao -. Questa operazione è necessaria, per rispetto del passato e per preparare l’Europa a modo nostro. Il comunismo per me è speranza, è futuro, perché io sono comunista. Spero anche Bertinotti». Giordano fa segno di sì, va a sapere se è vero.

Pietro Barcellona

Repubblica, ed. di Palermo 9.5.04
Pietro Barcellona. Il professore comunista che indaga sull'attualità

Docente di diritto all'Ateneo di Catania è stato segretario cittadino e deputato del Pci. Dal 1997 non ha più alcuna tessera
Ateo e autodidatta i suoi grandi amori sono sempre stati la filosofia la psicanalisi la politica e la pittura
dilettante: Sono un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio
marxismo: Capisco rivedere il marxismo, ma i Ds stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale
di AUGUSTO CAVADI


DA 40 anni partecipa al dibattito culturale e politico europeo, insistendo soprattutto sul paradosso dello Stato che si proclama difensore del cittadino ma, in realtà, lo impoverisce dei legami sociali e lo trita nei propri meccanismi. I titoli di alcuni libri, come L´individualismo proprietario del 1987, sono diventati formule di uso comune. Conosciutolo in qualche convegno, avevo ricavato l´impressione di una persona autorevole («Più che parlare, pensa a voce alta» commentava una studentessa alla fine di una sua conferenza), ma un po´ scostante.
Adesso, per la prima volta, incontro Pietro Barcellona senza l´apparato ufficiale di tavoli e pedane che lo innalzano - e un po´ lo isolano: e mi sembra più piccolo, più accessibile. Direi - con quel sorriso da bambino furbo ma mite - un po´ indifeso.
Gli chiedo se la sua vocazione originaria siano stati i libri o le battaglie politiche. «Tutto è cominciato con una lite. Mio padre mi aveva iscritto dai Salesiani e, in effetti, ho trovato un bravo religioso che insegnava filosofia. Ma, quando gli ho detto che il peccato originale era solo un´invenzione per mantenere la gente in stato di soggezione, abbiamo rotto. Diventai ateo, ma anche autodidatta. Un conoscente mi concesse di spulciare fra gli scaffali dove i libri dell´Einaudi aspettavano di essere distribuiti per la Sicilia orientale: e fu per me la scoperta del mondo. Procedevo nel disordine più totale: folgorato da Kierkegaard, saltavo da Freud alla teologia protestante del XX secolo, senza conoscere Hegel. Avvertii la vera passione della mia vita: indagare con curiosità il mio tempo, fare - per dirla con Foucault - la diagnosi dell´attualità. Mi confrontavo anche con il padre di un mio amico, il professor Giacobbe, indimenticabile figura di ebreo comunista. Dopo la laurea mio padre impose un ultimatum: o diventi insegnante entro pochi anni o vieni a lavorare nel mio studio di avvocato. Mi gettai allora a capofitto nel diritto, vinsi la cattedra universitaria e mi resi autonomo: potevo spaziare intellettualmente, senza rendere conto a nessuno, inseguendo i miei interrogativi più disparati. Da allora sono rimasto un dilettante di professione: mi interesso di tante cose, ma sempre a mezzo servizio. Con serietà, ma solo per diletto». Uno dei suoi primi scritti tocca l´economia e il grande Federico Caffè lo chiama per dirgli: «Il saggio d´interesse, che è l´argomento del tuo saggio, non l´hai capito bene: ma per il resto hai intuizioni davvero interessanti». La filosofia, la psicanalisi (soprattutto mediata da Castoriadis, l´esule greco che fonda a Parigi - con Lefort e Morin - la celebre rivista "Socialismo o barbarie"), la politica: questi tre amori ne fanno un meticcio della ricerca.
Ma nel 1973 la svolta della sua vita: l´intreccio intellettuale si complica, e si arricchisce, diventando anche impasto con la pratica. Barcellona organizza a Catania un convegno europeo sull´uso alternativo del diritto. Secondo il suo stile - guardare i saperi andando oltre i saperi - vuole soppesare il diritto per svelarne presupposti impliciti e conseguenze sociali. La risonanza dell´avvenimento (Laterza pubblica gli interventi più significativi) gli attira le ire dei fascisti: dunque anche minacce, anche aggressioni. Il Pci, vedendolo isolato all´interno di una facoltà «che è stata sempre conformista e tradizionalista», gli propone la tessera: un modo per proteggerlo, ma anche per fruirne la vivacità propositiva. Accetta ed è subito cooptato nel comitato regionale. «Conobbi Ingrao, ne divenni amico, seguii le sue richieste: segretario cittadino del partito, poi membro laico al Csm, poi parlamentare. L´esperienza della prassi mi ha arricchito come uomo e come pensatore. Venivo da una famiglia borghese, non parlavamo neppure il dialetto, avevo una visione astratta della società. Come militante fui costretto a immergermi nella concretezza del "popolo" effettivo. Ingrao mi aveva raccomandato che, da segretario cittadino, avrei dovuto almeno incendiare il municipio: mi limitai a occuparlo con i senza-casa delle periferie. In giro per le sezioni mi facevano mangiare il "sangele", una sorta di budello pieno di sangue bovino: poi, a casa, stavo davvero male. Però questa contaminazione vitale mi liberava dal radicalismo dei teorici. Gradualmente, ma irreversibilmente, capivo che la politica è mediazione nel senso alto della parola: meglio amministrare decentemente una città che morire da eroi all´opposizione. Tutto ciò ha modificato anche il mio modo di vedere il mondo: non da una sola angolazione, ma da molte e differenti».
Gli chiedo come visse la svolta del Partito comunista alla Bolognina. «È stata una scelta devastante - risponde - Che il marxismo dovesse essere ripensato non c´era dubbio. Ma Occhetto ha inanellato un errore dopo l´altro. Intanto, all´interno, ha travisato la posizione di quanti da anni lavoravamo con Ingrao, al Centro per la riforma dello Stato, per una revisione delle dottrine classiche in chiave critica: ha accusato di "conservatorismo" proprio noi che avevano ideato e realizzato le aperture più coraggiose, coinvolgendo ad esempio gli indipendenti di sinistra come Rodotà. Poi, all´esterno, ha cominciato a chiedere perdono per crimini che il Partito comunista italiano non ha mai perpetrato. Si è vergognato di una tradizione gloriosa. Ero e sono convinto, al contrario, che il Pci - come del resto la Dc - non sono stati bande di delinquenti, ma i pilastri della democrazia italiana. Il Pci non è stato mai leninista: se mai, ma senza dogmatismi, gramsciano».
Eppure, «più ingraiano di Ingrao», Barcellona resta nel partito per altri cinque anni. Non va con Rifondazione («Credevo nella necessità di non frantumare l´unità. E poi non mi ha mai convinto l´estremismo di Bertinotti: la politica non si fa sperando di non arrivare mai al potere, se no è testimonianza»). Accetta, uscito Ingrao, di presiedere il Centro per la riforma dello Stato: ma - «a riprova del fatto di essere uno sciamano, non un capo» - «combino un po´ di guai e mi sfiduciano. Tra l´altro, in quegli anni, sono stato molto critico verso l´inedito matrimonio fra sinistra e giustizialismo. Il Pds ha dimenticato la differenza fra diritto e politica, affidando ai magistrati il compito di abbattere gli avversari. Ha dimenticato che il giudice deve reprimere i reati individuali, non riformare i sistemi. Cancellare il confine fra la giustizia e la politica significa aprire la strada al berlusconismo: farsi le leggi a propria misura, in nome del consenso elettorale, è la perversione opposta, ma simmetrica, di chi ha delegato al protagonismo dei giudici la lotta politica. Urge ristabilire la differenza fra la regola e la forza: altrimenti ci condanniamo definitivamente all´imbarbarimento della vita civile consumato da Bush a livello mondiale e dai suoi mediocri imitatori a livello nazionale».
Dal 1997 non prende più nessuna tessera: «Capisco rivedere il marxismo, io stesso adesso mi definirei comunista solo in quanto ho una visione umanistica del cosmo. In quanto penso che l´uomo in carne e ossa debba avere la priorità rispetto alle leggi dell´economia capitalistica. Ma non si può abbandonare anche questa priorità per inseguire le mode americane. Su questo punto aveva ragione Augusto Del Noce quando avvertiva, da cattolico molto tradizionalista, che se il comunismo storico avesse perduto ogni fondazione etica si sarebbe ridotto all´alienazione del consumismo. Che hanno fatto i Ds? Stanno troncando ogni rapporto con la giustizia sociale?». Senza più tessere in tasca, da «comunista privato», si dedica a due progetti che gli stanno molto a cuore.
Il primo lo riguarda come docente dell´Università di Catania dove, con altri colleghi, si attiva per la fondazione del Centro Braudel perché «il Mediterraneo è un meraviglioso laboratorio di coesistenza degli opposti. È il luogo dove il conflitto non è negato, ma - come nella tragedia - rappresentato. E, per ciò stesso, in qualche misura, controllato». Mi consegna un dossier con la programmazione del Centro: gruppi di ricerca in varie università europee, colloqui internazionali, corsi di dottorato, master. Vedo che ricorre insistentemente la questione del rapporto fra globalizzazione e processi locali. «In effetti - aggiunge - il mondo si cambia a partire dalla propria relazione col vicino di casa: troppe persone sono generose con gli abitanti del Chiapas e fetenti col venditore ambulante dell´angolo».
Del secondo ambito di attività, che lo riguarda nella sfera più privata, parla con un pizzico di pudore ma con la malcelata soddisfazione di chi si appresta a stupire ancora una volta. «Sì, lo confesso con piacere: sono anche un pittore. Ho esposto in varie città, di recente anche a Roma e a Firenze. Sarei contento di far conoscere i miei quadri pure a Palermo. Ma, secondo i luoghi, bisognerebbe operare una selezione. Forse certi nudi risulterebbero troppo audaci?».
L´accenno alla pittura non è una nota, per così dire, di colore. Forse è l´esplicazione migliore di quello che, nel corso della conversazione, Barcellona mi aveva sottolineato come il filo rosso della sua caleidoscopica riflessione: «La minaccia epocale è oggi lo scientismo che comprime tutto alle sole dimensioni della scienza e della tecnica. Il mito americano ha successo presso i superficiali perché esalta lo strapotere dell´uomo sulla natura. Ma questo è gravemente riduttivo dell´uomo stesso. Non siamo riducibili solo al razionale e al funzionale: siamo anche magma immaginativo, macchina di simboli, eredità mitica».

«l'indifferenza di Caino»

Corriere della Sera 9.5.04
L’indifferenza di Caino
di ENZO BIAGI


Tema di questi giorni: la tortura. Protagonisti: gli Usa. Vittime della crudeltà: i prigionieri iracheni. Certe storie si ripetono. Trent’anni fa, a Parigi, andai a trovare Henri Alleg, alla redazione dell’ Humanité . Lo avevano arrestato ad Algeri durante l’estate 1957. Fu preso dai paracadutisti di Massu, lo portarono a El Biar, che era un posto di raccolta per quelli del Fronte di liberazione.
Alleg, piccolo, un po’ rotondo, sorridente, mi raccontò: «I fatti? Venivamo denudati, legati a un’asse marcia per i vomiti di quelli che c’erano passati prima, e poi lasciati così per ore, con certi tipi attorno che ci incitavano a parlare. Speravano bastasse la paura. Niente? E allora si passava agli esercizi, all’elettricità. Appendevano il prigioniero per i piedi, lo bruciavano con torce di carta: lo hanno fatto anche con me. Quando si sono contemplate delle cose orribili, quando le hai guardate, vissute su di te, si spera soprattutto che ciò non debba mai accadere ai tuoi figli, a nessuno su questa terra».
Ne parlai con Pierre Vidal-Naquet: insegnava storia romana all’università e aveva pubblicato un saggio sul problema. «Sono le ideologie stesse che prendono un aspetto totalitario. Si può torturare quando si crede di avere ragione, e sono molti quelli che credono di essere possessori della verità. E, quando si è tutori di una certezza, si ha la tendenza a imporla a chi non la riconosce».
La sociologia, la psicologia, la scienza spiegano quasi tutto, anche l’indifferenza e lo spirito di legittimità di cui è pervaso Caino che in qualche modo si presenta addirittura nelle vesti del salvatore e sempre dell’idealista.
Si è inventato anche un linguaggio: in gergo militare si dice «assumere informazioni», in quello giuridico e poliziesco «porre domande»; «torturare» è un verbo che si coniuga soltanto riferito ad altri.

vedere... toccare...

Repubblica 9.5.04
LO STUDIO
I risultati di un esperimento sui non vedenti
"La vista e il tatto ci trasmettono la stessa immagine"
La ricerca è stata svolta dall'ateneo di Pisa con la risonanza magnetica


ROMA - Guardare un oggetto con gli occhi o toccarlo con le mani: per il cervello non esiste molta differenza. L´immagine della realtà, ricostruita dal nostro organo del pensiero, non cambia se a fornire informazioni è un senso piuttosto che un altro. Questa la conclusione di uno studio dell´università di Pisa (in collaborazione con uno psicologo dell´università di Princeton) apparso a marzo su Proceedings of the national academy of sciences. «Abbiamo dimostrato - sintetizza Pietro Pietrini, coordinatore dell´equipe - che è possibile «vedere con le mani». Quando un non vedente o un uomo bendato analizzano la forma di un oggetto, poniamo una bottiglia, toccandolo con i polpastrelli, nella loro corteccia cerebrale si forma l´immagine della bottiglia. Quest´immagine è sostanzialmente identica a quella di una persona che osserva la bottiglia con gli occhi. Cambia il canale di afferenza delle informazioni, ma non il risultato finale».
I risultati sono stati ottenuti utilizzando immagini di risonanza magnetica. Ai volontari, in parte vedenti (bendati negli esperimenti), in parte non vedenti dalla nascita, è stato chiesto di riconoscere al tatto degli oggetti comuni come bottiglie o scarpe e delle maschere che rappresentavano dei visi. La scoperta, prosegue Pietrini, «apre la strada a nuove strategie di riabilitazione dei non vedenti». Le capacità di adattamento delle persone prive della vista già oggi rappresentano uno degli esempi più evidenti di plasticità cerebrale. «I nostri risultati - si legge nell´articolo - dimostrano che il cervello è organizzato in maniera molto più complessa rispetto a quanto sapevamo finora. Quella che siamo abituati a chiamare corteccia «visiva» appare in realtà indipendente dalla modalità sensoriale che fornisce informazioni.
(e.d.)

sabato 8 maggio 2004

...ma hanno mai saputo interpretare un sogno?

La Gazzetta del Sud 8.5.04
Catania Psicanalisti e filosofi a convegno
Sogni e pensiero creativo



«Il sogno: immagine artistica e pensiero creativo» è il titolo del convegno organizzato all'hotel Sheraton di Catania mercoledì 19 maggio alle 9,30 dal Comune e dall'associazione “Amici della collina” con il patrocinio dell'Ordine degli psicologi della regione siciliana, dell'Asl 3 e della facoltà di Psicologia dell'Università di Palermo. L'importanza dell'attività onirica nella lettura della proiezione psichica è evidenziata, con sfumature diverse, da Sigmund Freud e Carl Gustav Jung.
Ne discuteranno i relatori: Angela Maria Di Vita - Pa - (“Affetti e sogno nella vita femminile”); Ferdinando Testa - Ct - (“Il sogno dello spicanalista”); Roberto Ortoleva - Ct - (“Sogno e archetipo”); Robert Mercurio - Roma - (“Il sogno terra damnata e humidumradicale”); Salvina Artale - Ct - (“Il sogno nell'antica Grecia”); Maria Teresa Giraffa - Ct - (“Sogno e dimensione religiosa); Aurora Pollicina - Ct -(“Gli animali del sogno”); Rosario Puglisi - Ct - (“Sogno e patologia”); Luciano Perez - Roma - (“Le immagini sacre nei sogni”); Pasqualino Ancona - En - (“Il sogno nella diagnosi psichiatrica”). Chairmen: Bent Parodi e Daniele La Barbera. Saluti di Gaetano Sardo, assessore alla Cultura; Carlo Romano, ds Asl 3; Fulvio Giardina, presidente ordine psicologi; Orazio Licciardello, presidente corso di laurea in scienze psicologiche (Enna) e Ferdinando Testa, presidente dell'associazione “Adc”.

quanto abbiamo di meglio:
scambi culturali

Corriere della Sera 8.5.04
La cultura italiana sbarca a Pechino «Così restaureremo la Città Proibita»
Nella capitale, la prima multisala: «Cinecittà». E apre un museo archeologico
Verso Oriente
di Paolo Conti


ROMA - La cultura italiana sbarca in Cina su due fronti. La prima multisala cinematografica di Pechino da 14 schermi, che verrà aperta in uno dei principali centri commerciali, si chiamerà «Cinecittà»: sarà gestita dal marchio italiano di Cinecittà Holding attraverso la sua società di gestione Mediaport. Un’opportunità senza precedenti per la futura distribuzione e diffusione del cinema italiano come per quello europeo. Secondo fronte: Italia e Cina lavoreranno insieme al grandioso progetto di restauro del padiglione della Suprema armonia, il cuore della Città Proibita famoso in Italia grazie al film «L’ultimo imperatore» di Bernardo Bertolucci. Ed è solo il segmento di un accordo, raggiunto dal ministero guidato da Giuliano Urbani, ben più ampio e che prevede la realizzazione del futuro Museo archeologico di Pechino, la consegna al nostro Paese entro le Olimpiadi del 2008 di uno «Spazio Italia» di mille metri quadrati nei nuovi ambienti del Museo nazionale cinese e che sarà destinato ad esporre stabilmente i simboli della nostra cultura (dall’archeologia passando per la moda o la gastronomia e per finire con la Ferrari). Ancora: un secondo progetto di restauro per la città portuale di Tien-Sin (dov’è nato il primo ministro Wen Jiabao), che conserva il quartiere primo ’900 della vecchia concessione italiana.
L’esordio dell’intesa è fissato per il 6 giugno, quando il presidente Carlo Azeglio Ciampi, durante la sua visita ufficiale a Pechino, inaugurerà al Museo nazionale cinese la mostra «Civiltà romana» con 150 pezzi (tra marmi, bronzi, frammenti di affreschi, plastici ricostruttivi per esempio della Casa del poeta tragico di Pompei o dell’Anfiteatro di Pozzuoli) che proverranno da Roma (musei Capitolini, museo Nazionale romano) e da Napoli (museo Archeologico nazionale).
A Ciampi sta molto a cuore anche una seconda visita: quella al Centro nazionale del restauro cinese, nato anni fa col sostegno del nostro Istituto centrale del restauro (quando era diretto dallo scomparso Michele Cordaro) e con i fondi della Cooperazione, e che ora ha avviato il suo primo corso di formazione per 68 studiosi di tutte le 18 province cinesi. Anche in questi locali si parla italiano, buona parte dei docenti vengono dal nostro Paese.
La prima bozza di un programma congiunto è nata da una visita del ministro per i Beni e le attività culturali Giuliano Urbani nel novembre 2002 a Pechino. Poi i contatti col suo omologo cinese, Sun Jiazheng, sono continuati concentrandosi soprattutto sul meraviglioso padiglione della Suprema armonia: 2377 metri quadrati di grande arte in legno a vista o laccato, pietra locale, mattone scuro. La struttura risale al 1400 come l’intera Città Proibita (vasta ben 720.000 metri quadrati) anche se la costruzione che conosciamo è sostanzialmente quella rimaneggiata nel 1644. Sui troni dell’aula si sono seduti 24 imperatori della fine della dinastia Ming e dell’intera dinastia Ching. Il ministero italiano ha organizzato sei spedizioni ad alto livello amministrativo, guidate via via dal direttore generale per l’archeologia Giuseppe Proietti (che ora svolge anche le funzioni di segretario generale del ministero), dal direttore generale per il patrimonio architettonico e il paesaggio Roberto Cecchi, dal direttore dell’Istituto centrale del restauro Caterina Bon Valsassina. Sono partiti geologi, chimici, restauratori del legno e della pietra, architetti, fotografi.
Il piano di lavoro è a ottimo punto. Il rilievo tridimensionale, affidato alla Sat Survey srl di Marghera (con la sponsorizzazione della Cm Sistemi di Roma) è già pronto: in tremila ore di lavoro uno scanner con laser tridimensionale ha realizzato una «nuvola» composta da milioni di punti che ha permesso una riproduzione fedelissima (nei colori come nelle strutture) del padiglione dal quale la Cina è stata politicamente pilotata per mezzo millennio. Durante i primi dieci giorni di giugno i tecnici del ministero procederanno con i primi saggi sulla pietra: analisi del degrado, possibili soluzioni tecniche. Entro la fine di settembre verrà consegnato il piano del progetto, destinato all’approvazione dei ministeri cinese e italiano. Se tutto andrà come previsto, l’Italia collaborerà concretamente con la Cina per il restauro più suggestivo del mondo intervenendo sui danni provocati dal tempo sia al legno che ai materiali duri.
Giuliano Urbani, che visiterà la Cina nei primi giorni di luglio, è entusiasta: «C’è grande soddisfazione per un’occasione straordinaria che viene offerta all’Italia e per il prestigio dei luoghi. Soprattutto c’è la fortissima speranza che questi accordi aprano la via a cooperazioni anche economiche e avviino un flusso di turismo culturale nei due Paesi».
Il direttore generale Proietti tiene a precisare un punto: «Tutta l’intesa si sviluppa su un piano assolutamente paritario tra Italia e Cina». Ed è sempre Proietti a immaginare uno scenario che inorgoglirebbe Cesare Brandi, che nel 1939 fondò l’Istituto centrale: «A Pechino, intorno al padiglione, potrà nascere un cantiere-scuola in cui i nostri tecnici aiuteranno i giovani cinesi ad apprendere il metodo italiano di restauro».
Un passaggio culturale sottolineato da Roberto Cecchi: «Con questo progetto la Cina si allinea ai canoni occidentali, e in particolare della scuola classica italiana, del restauro conservativo. È una questione molto rilevante, come si sa, di filosofia e insieme di tecnica». In Cina come in Giappone ha spesso prevalso la tendenza «sostitutiva», cioè un approccio non conservativo ma radicalmente ricostruttivo in caso di danni ai beni culturali. L’accordo con l’Italia segna invece una completa inversione di tendenza.
Proietti anticipa un ultimo programma per il futuro: «Una grande mostra parallela sull’impero romano e sull’impero Han». Periodo che, per la precisione storica, copre dal 206 avanti Cristo al 206 dopo Cristo. Ancora Proietti: «Il parallelismo nasce dal fatto che i cinesi individuano nell’antica cultura cinese la radice dell’Oriente e in quella romana la base dell’Occidente». Un bel racconto (soprattutto inedito) per due capitali piene di storia come Pechino e Roma.

venerdì 7 maggio 2004

Science: uomini e scimmie

APCOM 7.5.06 - 01:10
MEDICINA/ LA SEROTONINA AGISCE SU DISTURBI DEL COMPORTAMENTO
La sua mancanza causerebbe gravi disordini psichiatrici


Roma, 7 mag. (Apcom) - La diminuzione dei livelli di serotonina, un neurotrasmettitore molto importante, nelle zone frontali del cervello sarebbe la causa di molte malattie psichiatriche, come i disordini ossessivo-compulsivi, la schizofrenia e certe forme di comportamenti derivanti dalla tossicodipendenza.
Gi? si sapeva dell'importante ruolo della serotonina e della possibile associazione tra la mancanza di questa sostanza chimica e problemi psichiatrici, ma mai prima d'ora si era considerato questo problema in riferimento ad una specifica zona del cervello. Hannah Clarke dell'Università di Cambridge, Cambridge, in Gran Bretagna, riferisce in una ricerca pubblicata sulla rivista Science che per verificare tale ipotesi, ha diminuito i livelli di serotonina nella corteccia frontale del cervello di alcune scimmie, in una zona deputata all'apprendimento, alla concentrazione, alla presa di decisioni e alla pianificazione del futuro.
Le scimmie hanno mostrato subito dei cambiamenti, con comportamenti meno flessibili e con evidente coercizione a ripetere all'infinito certe azioni, piuttosto che adattarsi alle circostanze. I ricercatori riferiscono che i comportamenti osservati a seguito della diminuzione dei livelli di serotonina sono gli stessi osservati nell'uomo quando è colpito da disordini psichiatrici.

copyright @ 2004 APCOM

cristiani:
«ama il prossimo tuo...»
altri massacri anche in Indonesia, in Thailandia, in Sudan

Repubblica 7.5.04
Miliziani cristiani hanno attaccato la comunità musulmana
Secondo la Croce Rossa ci sono almeno 630 vittime
Nigeria, scontri a Yelwa
centinaia di morti
Case in fiamme a Yelwa


 YELWA - Almeno 630 persone sono morte nel massacro di Yelwa, nella Nigeria centrale, dove domenica scorsa la locale comunità musulmana è stata attaccata da miliziani cristiani. Lo hanno detto oggi testimoni e un responsabile della Croce Rossa, presso una fossa comune.
"La cifra è esatta - ha detto Abdu Mamairiga, responsabile della Croce Rossa per la gestione delle catastrofi nazionali in Nigeria - Tutti i corpi sono stati riuniti presso la residenza del capo (locale) e sono stati sepolti dietro ad essa". Gli abitanti di Yelwa parlano di 630 vittime ma per l'esponente della Croce Rossa "potrebbero essercene altri". D'altro canto l'agenzia France Presse ha riportato il racconto di un dirigente locale, Yakubu Haruna, vicino a un terrapieno di 50 metri per 10 servito da fossa comune: "Abbiamo sepolto oltre 630 persone - ha dichiarato Haruna - Alcune sono state seppellite dietro alle loro case".
Domenica la polizia aveva riferito di un attacco, portato da miliziani cristiani dell'etnia Tarok contro la comunità islamica di Yelwa, che aveva causato almeno 67 vittime. Ma con il passare dei giorni il bilancio si è aggravato fino a comprendere centinaia di vittime. Testimoni hanno riferito di decine di cadaveri mutilati e straziati per le strade, mentre migliaia di abitanti scandivano slogan islamici e invocano vendetta contro gli assalitori.
Il sanguinoso raid si inquadra nelle tensioni interetniche e interconfessionali che nei mesi scorsi hanno fatto diverse centinaia di morti nei villaggi al confine fra gli stati di Plateau e Taraba, nella Nigeria centrale. Da mesi nella zona è riesplosa la tradizionale rivalità fra i musulmani Fulani, che sono allevatori di bestiame, e i cristiani Tarok, che sono invece agricoltori. La maggior parte delle vittime risultano uccise a coltellate o perite nei roghi delle loro abitazioni date alle fiamme.

«Cesare o dio?»
la vocazione teocratica di cristianesimo e islamismo

La Stampa 7.5.04
IL WORLD POLITICAL FORUM OGGI ALLA KERMESSE TORINESE. TEMA: STATO E RELIGIONI, RAPPORTO DI INCONTRI E SCONTRI
PADRONI del SACRO
di Mario Baudino


(...)
Il filosofo Emanuele Severino porta al dibattito una analisi piuttosto spietata su quella che chiama la "vocazione teocratica" delle religioni. "È indubbia per l'Islam - dice -, ed è meno accentuata in altri culti, ma ben presente nella tradizione cristiana". Non come qualcosa di estraneo al messaggio evangelico. Anzi: "Sta proprio nell'affermazione di Gesù di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".
Questa frase è stata letta perlopiù come un rivoluzionario invito alla divisione dei poteri, ma una lettura del genere, spiega Severino, rappresenta solo "l'intenzione esplicita della Chiesa, a partire da quanto diceva San Tommaso sull'autonomia di fede e ragione. Nonostante questo, il cristianesimo in sé persegue una teocrazia, e i fondamentalismi ne sono la prova. A Cesare non si può dare qualcosa che sia contro Dio, perché Gesù dice anche che non si possono servire due padroni, Dio e mammona. Quindi lo Stato non può essere contro Dio, e Cesare non può che essere cristiano". Per il filosofo Ragione, Stato, Fede, Dio sono le categorie su cui si sviluppa la nostra storia. E il modo in cui si strutturano ci riguarda da vicino. "Il nemico dell'Islam non è allora l'Occidente, cui peraltro appartiene. È la contemporaneità filosofica che dice: "l'agire umano è destinato a procedere senza vincoli". Sembra un problema antico, e invece è attualissimo: Cesare e Dio, Cesare o Dio?
(...)

il catto-freudismo di un filosofo "laico" e "di sinistra"
il prof. Cacciari e il «male radicale»

Repubblica 7.5.04
COMMENTO
Il male radicale
di MASSIMO CACCIARI


ECCOCI a ripetere per l'ennesima volta la medesima domanda: com'è possibile? Per carità di patria, fingiamo pure di ignorare quante Abu Ghraib siano perfettamente attive nel mondo in questo stesso momento, in quante cosiddette carceri si consumino i delitti incidentalmente e ingenuamente fotografati in Iraq. Come se non avessimo letto i resoconti di Amnesty International. Come non sapessimo tutti i motivi, anche quelli inconfessati e inconfessabili, per cui alcune potenze non hanno aderito alla Corte penale internazionale.
La Corte penale internazionale dovrebbe avere giurisdizione sui criminali di guerra, sui genocidi, sui delitti contro l'umanità. Ipocrisia sconfinata: mai si è chiacchierato tanto di diritti umani e mai si è forse così alacremente lavorato a costruire un mondo inumano.
Inumano? La retorica offende le vittime più dei torturatori. La realtà cruda è un'altra: solo quando lo scopriamo in tutta la sua oscenità, solo quando è sbattuto in prima pagina, ci ridestiamo al male radicale che ci affligge, che è proprio esclusivamente di noi uomini. Ma per volgerne via subito lo sguardo e consolarci dicendo che mai saremmo capaci di quegli atti. Che essi, appunto, non appartengono all'umano. E a chi allora? All'animale, forse? Assolutamente no. Agli angeli? Neppure, credo. Guardiamo allora in faccia l'orrore di queste immagini, se vogliamo tentare di conoscere noi stessi. Allora soltanto potremo sperare di oltrepassare la condizione che rende possibile l'orrore, per cui continuamente esso fa ritorno.
È la condizione della paura, dell'ignoranza che genera paura. Della paura che genera odio. Tutto ciò che lo istiga e ispira, tutto ciò che dissimula sotto la maschera di intolleranze liberatrici la prepotenza del credersi e proclamarsi superiori, tutto ciò che ritiene nemico ogni prossimo che non si identifichi a noi, sta oggettivamente dalla parte dei torturatori. Tutto ciò che combatte il terrore con le armi del terrore non ha alcun diritto di giudicare i criminali di Abu Ghraib. Ma proprio per questo, pietà per i torturatori. Non solo perché non sanno quello che fanno e si fanno. Pietà anche per la nostra natura che in loro si disvela secondo la più perfetta misura della sua miseria. Essa consiste essenzialmente nel credere che la propria superiorità (e perciò la propria stessa sicurezza) si esprima nella capacità di abbassare l'altro, di umiliarlo. Che la nostra vittoria consista nella totale sconfitta di chi ci ha affrontato. In questa fede trova fondamento il nostro male radicale. I torturatori di Abu Ghraib non sanno che la tortura innalza, invece, la vittima; che il terrore che infliggono non rifletterà, alla fine, che la loro stessa angoscia impotente. Quando i vincitori vedono nell'annichilimento del nemico la misura della propria forza, la loro vittoria è destinata a trasformarsi in impotente prosecuzione della guerra.
Forse anche a loro nelle scuole e nelle accademie tutto ciò era stato insegnato. Umano, troppo umano: comprendere ciò che sarebbe bene, e tanto a parole esaltarlo quanto contraddirlo nei fatti.

giudici, psichiatri, prigioni

La Stampa 7.5.04
SECONDO I GIUDICI IL RICOVERO NON SERVE
«L’ospedale psichiatrico è inutile per un omicida»
di A.Gaino


«L’ospedale psichiatrico giudiziario è soltanto un luogo di contenimento e non anche di cura. Non si può mandarvi a vivere per 5 anni un imputato di omicidio giudicato totalmente infermo di mente e attualmente ricoverato in una comunità psichiatrica protetta».
La legge, quando si tratti di soggetti socialmente pericolosi come in questo caso, non detta alternative al vecchio manicomio giudiziario. Perciò la prima Corte d’assise ha sollevato un’eccezione di costituzionalità che, se accolta dalla Consulta, potrebbe rivelarsi dirompente per il «sistema custodialistico» degli ospedali psichiatrici giudiziari e la pessima fama che li circonda. Il caso è quello del ventiseienne Davide Santoli che, il 20 ottobre 2002, uccise a coltellate il padre a Cambiano. A conclusione del dibattimento, accusa e difesa hanno concordato che il giovane non può essere punibile e il pm Manuela Pedrotta ne ha chiesto l’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario. I giudici hanno rinviato la sentenza per evitare che le terapie cui è sottoposto Santoli in una comunità psichiatrica protetta (i pazienti sono sorvegliati e non possono venirne via) «siano interrotte con pregiudizio della sua salute e dei piccoli miglioramenti prodotti dal complesso trattamento terapeutico cui è sottoposto».
La Corte ha disposto una perizia (lo psichiatra scelto, Mauro Nannini, ha ribadito la diagnosi per Santoli di «perdurante schizofrenia paranoide») e ascoltato gli specialisti che hanno seguito in precedenza Santoli al «Fatebenefratelli» di San Maurizio Canavese e poi nella nuova «struttura chiusa». E ieri ha emesso l’ordinanza scritta a quattro mani dal presidente Franco Giordana e dal giudice a latere Pier Giorgio Balestretti: «Sia la Corte Costituzionale a pronunciarsi se vada privilegiata la sola esigenza di sicurezza sociale» e «o non si debba piuttosto tener conto sia di questo profilo sia del dovere di curare tutti i cittadini, come la carta costituzionale prevede».

un altro esempio dello stile del pensiero della scuola pisana:
«biochimica amorosa»

La Stampa 7.5.04
L’amore che cambia i sessi
di Maria Chiara Bonazzi


LONDRA. L’INNAMORAMENTO rende le donne temporaneamente più simili agli uomini e gli uomini più simili alle donne. Il testosterone è il grande equalizzatore di un rapporto di coppia ai suoi albori: secondo Donatella Marazziti, psichiatra dell'Università di Pisa, i livelli di questo ormone scendono nei maschi e aumentano nelle femmine durante il periodo iniziale di esaltazione, rendendo entrambi i sessi più disposti a chiudere un occhio sui difetti reciproci. E' come se la biochimica amorosa procrastinasse per un anno o due gli inevitabili bisticci del sabato pomeriggio, quando lei vuole andare a vedere i mobili e lui non transige sulla partita di calcetto.
Tanto dura, infatti, l'idillio ormonale fra due innamorati, durante il quale i livelli di testosterone che convergono sembrano scongiurare per il momento le battaglie termonucleari nella guerra fra i sessi. La ricerca, stralciata dalla rivista britannica «New Scientist», ha paragonato 12 uomini e 12 donne che si erano innamorati nel corso degli ultimi 6 mesi con altri 24 volontari single o coinvolti in una relazione di lunga durata. I livelli di testosterone delle coppie novelle non sembrano ricollegabili all’aumento dell’attività sessuale, la cui frequenza era simile fra le coppie veterane. La cosa strana è che, secondo altri studi, la quantità di testosterone nei maschi dovrebbe aumentare con l’amore fisico, anziché diminuire. Evidentemente, in questa fase, la natura insegna a ciascun sesso a vedere il mondo con gli occhi dell’altro, anche se foderati di prosciutto.

Repubblica 7.5.04
Ricerca italiana pubblicata su New Scientist: nei primi mesi di una relazione maschio meno macho, femmina più mascolina
L'amore? Uno scambio di ormoni

Ecco la "chimica" della passione: uomini e donne più simili
Lo studio effettuato all´Università di Pisa da Donatella Marazzita
Durante l'innamoramento il livello di testosterone diminuisce nell'uomo e aumenta nella donna
L'indagine su 12 coppie insieme da non più di sei mesi a confronto con 12 coppie di lunga durata
di ENRICO FRANCESCHINI


LONDRA - Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, dicono qualche volta gli psicologi per spiegare le differenze tra i due sessi. Ma quando un uomo e una donna si innamorano, di colpo è come se appartenessero entrambi allo stesso pianeta. Ad affermarlo è il "New Scientist", prestigiosa rivista scientifica britannica, che cita i risultati di una ricerca effettuata all´università di Pisa da una studiosa italiana, Donatella Marazzita. La quale ha scoperto che, durante la fase dell´innamoramento, il livello di produzione del testosterone, l´ormone maschile associato con l´idea di virilità e aggressività, diminuisce considerevolmente nell´uomo e aumenta considerevolmente nella donna. In pratica, secondo la dottoressa Marazzita, l´uomo diventa meno «macho» e la donna diventa più mascolina: «E´ come se i due sessi, all´improvviso, registrassero un calo delle proprie caratteristiche originali per acquisire un po´ delle caratteristiche del partner». Insomma, quando si innamorano, per effetto di un cambiamento ormonale, uomo e donna diventano più simili, più reciprocamente comprensivi: dunque non c´è da stupirsi se, nei primi mesi di una relazione sentimentale, maschio e femmina vanno d´amore e d´accordo.
La ricerca ha misurato i livelli ormonali in un gruppo di 12 coppie che si erano innamorate da non più di sei mesi, mettendoli a confronto con quelli di 12 coppie di lunga durata. Il calo di testosterone negli uomini e l´aumento nelle donne si è sempre puntualmente verificato nelle coppie insieme da poco tempo. Qualche studioso obietta che il mutamento ormonale potrebbe dipendere dal fatto che, nella prima fase di una relazione, le coppie hanno rapporti sessuali più frequenti. Ma la dottoressa Marazzita assicura di avere controllato che la frequenza dei rapporti sessuali nei due gruppi fosse la stessa. E del resto altre ricerche indicano che, come conseguenza di un alto numero di rapporti sessuali, il testosterone negli uomini dovrebbe aumentare, non diminuire. Una ulteriore conferma del fenomeno è stata ottenuta misurando dopo un paio di anni i livelli ormonali delle medesime 12 coppie di innamorati. Il fenomeno era scomparso: gli uomini avevano ripreso a produrre testosterone in abbondanza, e le donne a produrne molto poco. Ciascun sesso era tornato alle proprie caratteristiche originali.

Bellone, LE SCIENZE di Maggio e il Tempo

Le Scienze maggio 04
Il tempo prima del tempo
di Enrico Bellone


Ci sono domande che sembrano non avere età. Esistono, infatti, sin da quando Homo sapiens ha lasciato documenti scritti sulla natura circostante. Hanno cambiato forma di generazione in generazione: ma la loro sostanza è un’invariante dei nostri codici di comprensione, e tale rimane anche nei periodi in cui questi codici subiscono mutamenti forti.
Nell’età di Galilei si stampavano immagini in cui un essere umano cercava di far passare un’asticciola o una mano al di là dei confini dell’universo. E l’immagine conteneva un quesito che ancora oggi permane nel senso comune: ovvero, se il cosmo ha un confine, quali cose popolano lo spazio situato al di là del confine stesso? Nel 383 a.C. nasceva a Stagira il grande Aristotele, secondo il quale il mondo non aveva avuto un principio. Il cosmo era eterno, e non aveva allora senso parlare di un istante iniziale prima del quale non fosse esistito il tempo. Anche oggi, quando qualcuno parla dell’universo in espansione, molte persone si chiedono che cosa c’era prima del big bang, e dove stava. E quando si dice «prima», «che cosa» e «dove», si evocano il tempo, la materia e lo spazio. Come aveva scritto Einstein, nel nostro linguaggio siamo abituati a usare queste tre parole come nomi di entità che si possono pensare come se fossero tra loro indipendenti. Ed è noto che, a suo avviso, avremmo dovuto invece imparare a dire, più semplicemente, che «il mondo è, e non diviene». Una lezione difficile da apprendere, anche nella chiave ottimistica per cui, come Einstein annotava, la scienza è un affinamento del senso comune, anche quando ci appare da esso estranea.
Se ora torniamo al big bang, incappiamo in buone ragioni per credere che si stiano aprendo nuovi scenari post-einsteniani. Ce ne parla Gabriele Veneziano nell’articolo che pubblichiamo a pagina 40. È un articolo che esce in contemporanea con «Scientific American», e che si inserisce nel quadro dei contributi che la nostra rivista regolarmente dedica al problema cosmologico. Vi si inserisce con una doppia valenza: è innovativo, ed è scritto in modo magistrale. Per quanto riguarda l’aspetto innovativo, veda il lettore. Ricordando però che, se oggi si può discutere in forme nuove del big bang, ciò dipende dal fatto che sul finire degli anni sessanta fu lo stesso Gabriele Veneziano a elaborare un modello sulle particelle nucleari che sta alla radice della teoria delle stringhe. Sulla magistralità, essa poggia sulla semplicità argomentativa. Veneziano dimostra infatti che si può scrivere bene di faccende intricate, a patto di conoscere benissimo il problema e di voler farsi capire.
Capire da chi? Da tutti coloro che, pur non lavorando sulle frontiere della fisica, possiedono quella cultura di sfondo che consente loro di porsi domande profonde e di cercarne non soluzioni definitive tra le braccia di qualche filosofia prima, ma soluzioni sempre più generali nella tradizione classica della filosofia naturale. La tradizione, per l’appunto, degli Aristotele, dei Galilei e degli Einstein.

in un documentario, una intervista a Marco Bellocchio

Libertà 7.5.04
Stasera il video su Vegezzi
(*)


Stasera alle 21.30 nel Salone Nelson Mandela della Camera del Lavoro di via XXIV Maggio a Piacenza verrà presentato in anteprima (ingresso libero) il documentario “La rivolta e l'incanto” su Nello Vegezzi realizzato per l'associazione Kairòs dal regista piacentino Stefano Sanpaolo, con la collaborazione di Mario Sgorbati, Ettore Sola, Federica Ravera. Presenta interviste a Marco e Piergiorgio Bellocchio.

(*) scultore, pittore e poeta dialettale piacentino

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